E la neve scendeva fitta

E la neve scendeva fitta

Da settimane i ritmi lenti degli abitanti della cittadella erano sconvolti dall’agitazione. La poca disciplina, le uniformi trascurate, gli stivali sporchi di fango non passavano inosservati. Gli ordini gridati si perdevano nella confusione. Eliminare le prove! Evacuare prigionieri e soldati! Molti di loro erano già stati allontanati: la marcia della morte per sessantamila ospiti del campo. Denutriti, sfiniti, battuti dal vento. Quanti avrebbero retto? Si chiedeva Hans, una delle ultime reclute, biondo, di corporatura minuta, vent’anni, ma già vecchio lo sguardo, le mani gonfie e rigide per il freddo. Tremava. Il gelo invernale e l’ansia della fuga mettevano a dura prova anche loro, i tedeschi. La guerra era persa. Ormai era chiaro a tutti. “È solo questione di tempo”, disse con un filo di voce il prigioniero che camminava curvo al suo fianco, i piedi scalzi, uno straccio di coperta sulle spalle.Il giovane soldato non capì. Si vergognò di indossare scarponi. I Russi si avvicinavano, ma Richard Baer, comandante in capo di Auschwitz, non sarebbe fuggito. In piedi davanti alla porta del suo alloggio, si guardò intorno ancora una volta e sistemò il cappello. Le labbra serrate. Tirò fuori un fazzoletto dalla tasca. Se lo passò sulla bocca. L’odore di morte non lo abbandonava: era nelle narici, sulla punta delle dita, nella trama dei suoi vestiti. Odiava quel posto. Odiava quelle bocche sdentate, quelle teste rasate, ossa ambulanti che si trascinavano rassegnate. Nessun rimpianto né rimorso. Solo disgusto. Sentì degli spari. L’Armata Rossa era più vicina di quanto pensasse.Mise la mano sul fodero e sentì la Luger P08. Si sarebbe difeso. E se lo avessero preso? La capsula di cianuro nascosta in un dente avrebbe salvato il suo onore. Al cancello principale, con i mitragliatori sotto il braccio, apparvero i primi soldati della 60esima armata dell’esercito sovietico. Si fermarono in silenzio ai reticolati dove corpi ridotti a scheletri allungavano le mani per cercare pane e aiuto. Erano i più deboli, gli ammalati, lasciati indietro dalle SS. Graziati dal destino. Difficile distinguere gli uomini dalle donne. Esseri annullati. I giovani soldati russi, stanchi e goffi nelle uniformi pesanti, si scambiavano sguardi increduli e poche parole, sottovoce, in una lingua incomprensibile. Nauseati dal forte odore di carne bruciata, trattenevano a fatica conati di vomito. Al loro fianco, inesorabili, i carri armati sfondavano i cancelli della fabbrica dell’orrore. Tra montagne di cadaveri accatastati, tonnellate di capelli umani e centinaia di migliaia di indumenti e paia di scarpe si aggiravano pallidi fantasmi. Era mezzogiorno, il 27 gennaio 1945, e la neve scendeva fitta.

Di Anna Rosa Confalonieri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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