Mi appare un’ombra lunghissima con un’aureola di luce, i capelli sulle spalle, le mani nelle tasche del cappotto, una ragazza in piedi davanti a un lampione. Non parla e io ho poco fiato, seduto su una panchina del Viale delle Cappelle.
È una sera di fine inverno: il cielo nero come piombo, l’aria fredda e immobile e nessun passo sull’acciottolato. Mi sono allontanato dalle luci della città, dalle persone a cui non so più parlare e da quelle che non mi interessa ascoltare, dalla vita non più mia, dai giorni passati irripetibili. Anni fa ho rinunciato a una donna dal sorriso e dal nome luminosi come l’estate. Negli altri amori non ho più trovato lo stesso incanto. Stasera mi è tornata la voglia di ripercorrere una delle nostre passeggiate. La primavera però è lontana e mentre cammino l’aria gelida è penetrata dentro di me, coagulandosi in un blocco che, a metà della salita, ha cominciato a pesarmi sul petto. Per questo mi sono seduto, senza respiro.
Poi dal buio è sbucata la donna alta con il cappotto nero e la guardo, da vicino. Il battito del cuore accelera e, finalmente, trovo le parole.
– Clara! Sei tu. Scusami se non mi alzo, ma non sono sicuro di riuscire. Mi ha preso una grande stanchezza. Che strano rivederti stasera, dopo tanti anni, quando sto pensando a te. Ho ricordato le nostre passeggiate e i cieli dalle mille stelle, quando salivamo dal viale fino al Sacro Monte. Arrivavamo fino al bar appollaiato sul panorama e sorseggiavamo il liquore asprigno, restando vicini. Sono sicuro che ricordi le nostre ore insieme. Ti vesti di nero come allora, e ti sta molto bene. Per anni ho sognato di incontrarti di nuovo. Ma eri sempre su un’altra strada. Sono contento di rivederti qui. Sei silenziosa e non mi rispondi, niente parole inutili tra noi. –
Un sorrisole illumina il volto e il buio intorno. Poi Clara allunga una mano verso di me. La mia è fredda, intorpidita, ma riesce ad afferrare la sua. Il calore di quel contatto mi fa sentire in pace, sereno, quasi felice dopo tanto tempo.
Non la lascio anche quando ritorna, insopportabile, quel peso sul petto.
Angelica si allontana dalla panchina, stringendosi dentro al cappotto e tentando di sentire meno freddo. Risale il viale correndo. Deve arrivare al paese, raggiungere qualcuno, chiedere aiuto. Non c’è nessuno stasera sul percorso e lei si maledice per aver deciso di lasciare a casa il cellulare.Voleva dimenticarsi il mondo per una sera e non aveva voglia di essere ritrovata da nessuno. È rimasta sconcertata dalle parole dello sconosciuto, così diverse dai discorsi che è abituata ad ascoltare. E questo le ha fatto morire sulle labbra una risposta. Non gli ha detto che si sbaglia, che lei non è quella Clara. In fondo che cosa importa, in quel momento in cui lui insegue ricordi e sentimenti lasciati indietro. La cosa giusta da offrire era il silenzio e la sua mano. Il contatto lo ha rasserenato.
Ora è adagiato sulla panchina, in attesa dei soccorsi, con un’espressione tranquilla. Lei però ha capito che non c’è bisogno di cure mediche. Non c’è più tempo.
Si avvicinano le prime luci del paese e quelle dell’unico bar aperto, al termine del viale. Si ferma a prendere fiato e solleva il viso verso il cielo scuro.
Scendono, silenziosi e morbidi, i primi fiocchi di neve.
di Angela Borghi
Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)
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