GLI IMBUCATI

GLI IMBUCATI

di Monia Casadei

A distanza di mesi, lì si sentiva ancora un deportato.

Il tempo trascorreva in attesa della domenica (non tutte) in cui i nipoti avrebbero varcato l’uscio col passo indolente – una gita a Mauthausen avrebbe destato maggior entusiasmo.

Nel frattempo, avendone a disposizione in quantità, la mente spaziava su perimetri di ricordi: le balere e le gambe svelte delle donne; la mietitura e le fiasche di vino a fine giornata; la polenta tirata a mano nel paiolo (il suo profumo per tutta la cucina); i semi spansi nella paziente attesa di germogli; le partenze e i ritorni (a volte no ed è tragedia); le mani callose e i volti cotti; la perdita d’un figlio nella pancia, quando nascere non era una certezza; il raccolto distrutto dalla grandine, col figlio appeso al seno vuoto della madre (ed era stato inevitabile vendere la mucca per arrangiare i pasti); l’incendio della stalla che aveva concorso con la grandine, battendola; le nascite e le morti, a chiudere cerchi.

Come imbucati a una festa, lo visitavano persino gli anni della guerra, che aveva strappato a una generazione l’infanzia, la spensieratezza e, più spietata, gli affetti: la paura gialla per la vita della moglie e dei figli, come di chioccia che tenti di schermire i pulcini sotto l’ala; i bombardamenti a gramolare i campi e, in un istante orrido, anche la vita della sua bambina (che non aveva otto anni e non li avrebbe più compiuti); la fame cronica in risalita dal ventre alle tempie; i partigiani nascosti nelle perquisizioni dei tedeschi – che poi erano poco più che bambini anche loro, gli occhi molli sotto l’elmetto duro, e fu solidale rifocillarli con la polenta, figli d’altre madri disperate ad uopo vicariate oltre confine.

Seguì il duro lavoro di rinascere e, con l’amore che si riserva ai salvi, dare un futuro al figlio che, dopo gli studi, migrò a Berlino e si costruì una famiglia bionda.

E quando si potevano dire scampati, la moglie aveva preso a smangiarsi brani di vita partendo dalle bagatelle recenti fino alle memorie antiche – persino il suo volto, ormai per lei straniero, così da sentirsi masticato anche lui da quella maledetta malattia.

Ma peggio era stato il vuoto enorme che l’aveva sfiatato il giorno in cui lei non s’era più svegliata.

Ora, nella sala collettiva, le scene allo schermo lo sconsolavano: conosceva quella disperazione muta di rovine, di pietre sottosopra, di morti riversi, di lacrime e sguardi persi nella paura, nell’angoscia.

Nella rabbia. L’uomo era rimasto lo stesso. Forse sua moglie aveva ragione: la dimenticanza è la sola protezione possibile contro le umane atrocità senza memoria.

Monia Casadei, nata a Cesena, è psicoterapeuta. Scrivere per lei rappresenta una catarsi incoercibile fin dai tempi degli studi classici. Con poesie e racconti consegue il primo premio in diversi concorsi letterari nazionali e internazionali.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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