Il bagaglio

Il bagaglio

È pomeriggio e la pioggia di novembre cade fitta.
La meta si avvicina, trascino il bagaglio a fatica; si è fatto pesante giorno dopo giorno, immagini volti suoni e sensazioni, non ho saputo buttare via nulla.
Era leggero, il giorno della partenza: nella luce abbacinante della sala parto tra sorrisi e qualche lacrima, era lì, pronto proprio per me. Un respiro profondo, un urlo da combattente e ho afferrato la bisaccia: sembrava vuota, eppure c’era già tutto. Era stato facile partire, una passeggiata senza una destinazione, una spiaggia soleggiata, il fruscio delle onde, e l’abbraccio di mia madre.
Non sapevo ancora quanto fango avrei trovato sulla strada, quanti scogli avrebbero deviato il mio cammino, quanto fosse lunga la notte e freddo l’inverno. Ora lo so.
Riconosco gli scalini in pietra, i lecci sbattuti dal vento e il rumore delle onde che si schiantano sulle rocce. Sono stanco, ma sorrido: eccomi a casa. Il profumo salmastro del mare mi avvolge, vorrei un ultimo respiro, ma non posso e ho paura.
Cerco il sorriso di Marisa che dai tempi del liceo ha illuminato il mio percorso. So che non c’è più: l’ho spento per sempre la notte in cui ho confessato il tradimento. Sparite in un attimo le risate, dimenticata la mano che accarezza i capelli, le giornate di sole, i sogni; è rimasta una smorfia di dolore, un macigno senza assoluzione.
Mi avvicino alla piccola folla che mi guarda, i volti tesi, qualcuno piange: sono Martina e Alessia, belle e severe come la loro mamma, sparite ancora ragazzine dietro la porta di casa sbattuta con determinazione, mute al telefono e insofferenti durante le squallide cene a cui le obbligavo. Un tempo consolavo i loro pianti di bambine, scacciavo i mostri della notte, curavo con un soffio le piccole ferite; oggi le loro lacrime silenziose potrebbero scaldarmi il cuore se non fosse ormai gelato, immobile.
La sacca consunta striscia sui sassi; vorrei fare ancora qualche passo, ma gli arti spezzati dalla caduta sono rigidi e non ho le scarpe. Nei lunghi mesi della malattia, chiamavo Tonya l’infermiera e le chiedevo di portarmele, ma i piedi erano ogni giorno più gonfi, e le tenevo in grembo, simbolo di una fuga ancora possibile. Le avevo con me la sera in cui mi ha sorretto fino alla terrazza dell’ultimo piano, e mi ha lasciato lì sotto il cielo stellato con la coperta sulle spalle. Le ho appoggiate con cura sul parapetto, non servono scarpe per volare.
Appoggio il bagaglio sulla terra smossa di fresco, sul travertino bianco posato lì vicino, il mio nome.

di Alessandra Stifani

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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