La Vetrina da Leggere

Me lo hanno chiesto in tanti, e adesso vi racconto la storia, vi racconto come nacque l’idea della Vetrina da leggere. Nella via c’era un negozio da affittare e allora chiesi al tizio dell’immobiliare se nel frattempo potevo mettere su quella vetrina vuota un foglio con un racconto, e così, quando mi diede il permesso, ne appesi due. Uno era L’uomo che scriveva nel vento, racconto in qualche modo emblematico. Lo avevo scritto per una nascente rivista letteraria mentre ero fermo al semaforo di via San Francesco, l’altro si intitolava Charles è morto, ed era di un ragazzotto di vent’anni. Non mi aspettavo niente. Dalla nostra città, che non sto a dirvi come si chiama, ma che per comodità da ora in poi chiamerò La cittadina dove il tempo si è fermato, non bisogna mai aspettarsi niente, salvo che vengano i vigili a vedere se sei in regola con l’attività oppure che uno ti denunci perché lo hai diffamato con un racconto di fantasia, come già mi è capitato. Era il primo anno che abitavo in quella via e me ne stavo pomeriggi interi seduto su una sedia del bar di fronte, e da lì vedevo la vetrina in questione e non mi pareva vero, ma c’era della gente attratta da quei due pezzi di carta messi su con lo scotch. Si fermavano e leggevano fino all’ultima riga. Incredibile, e chi abita La cittadina dove il tempo si è fermato sa perché dico incredibile. Se non parli di denaro qui è difficile comunicare. Qualcuno mi telefonò per acquistare i racconti e un paio di lettori, uomini, volevano conoscere Anna Bentivoglio, che era lo pseudonimo con il quale avevo firmato il mio racconto. E così chiesi a Ziorani di farmi la critica di tutti i film in città, e a quella cresta di gallo del Guglielmo di portarmi una tavola a fumetti, e poi a una ragazza del liceo di darmi una delle sue poesie, alla mia amica Rita qualcuna delle sue meravigliose fotografie, e fu quella la prima vetrina ufficiale. Era il 2 febbraio, in quel giorno era nato Jimmy Joyce, ma non l’avevo fatto apposta, la coincidenza mi venne in mente dopo. C’era già una redazione, e sembrava un giornale vero. Sei mesi dopo i commercianti della via accettarono di esporre nelle loro vetrine i nostri prodotti. Incredibile. Se l’avessi chiesto a uno del Corso mi avrebbe squarciato in due con lo sguardo. Qui era possibile, e il 21 ottobre inaugurammo il progetto sulla via. Vennero anche i politici e dissero molte parole, e se avessero realizzato una sola virgola di quello che promisero li avremmo votati fin tanto che campavano. Ma loro, appunto, erano politici, e noi volevamo solo ridere.
Racconto di Abramo Vane, in occasione del venticinquesimo della Vetrina da Leggere.
Ottobre rosso

L’inaugurazione della Vetrina da Leggere qualcuno di noi ebbe l’idea di chiamarla Ottobre Rosso, e così ogni negozio della via esponeva un racconto illustrato, un’energia passava da un esercizio all’altro e le indecisioni venivano travolte dall’entusiasmo di quelli che ne erano affascinati. Tutti i contenuti erano di colore rosso, roba del tipo La mia vita di colore rosso, Semaforo rosso, Filastrocca rossa, Rosso per sempre, Rojo imposible amor… e i politici di destra per via di quel colore non ci salutarono, ma non è che con quelli di sinistra le cose andarono meglio, uno passò di lì con aria da saputello e capendo che la politica non c’entrava tirò fuori dalla tasca un bollino e l’appiccicò su una colonna dei portici, e da quel giorno fummo bollati, eravamo dei qualunquisti, non degni di giacere sotto la rossa bandiera, la cultura apparteneva a loro… e insomma non eravamo messi tanto bene e pensavamo che era stata un’idea del cavolo chiamare quella festa Ottobre Rosso, e se non fosse per quelli che collegarono il rosso alla vendemmia, non ce la saremmo cavata, e così fummo salvati da una massa di avvinazzati che accorsero con il bicchiere in mano, e noi giù a versare e a brindare a Ottobre Rosso, e musica e canti svelarono il nostro credo, che era quello di stare insieme attorno a quelle parole esposte, e commentarle, dire la nostra… e già a quei tempi io correvo dietro a un mondo che non è questo, non mi perdevo certo a combattere quelli che allora come adesso decidono per me. Quando penso all’illusione nella quale siamo immersi, il mio riferimento sono le preghiere delle suore di clausura che contano più del potere del presidente degli Stati Uniti… Beh, comunque, fu una grande giornata, mi costò una cifra, e fra tutte le persone impegnate nell’organizzazione io ero il più povero in canna, ma in realtà non ero così povero da non permettermi quello che mi concedevo, e alla sera la festa non si era ancora spenta del tutto che ero salito su di sopra, in sede, e lì trovai gli amici ad aspettarmi, e tutti avevano un episodio da riferire, e mentre giù in strada sentivamo le voci gioiose della gente, un ultimo brindisi fra di noi, alla salute di Ottobre Rosso.
Racconto di Abramo Vane, in occasione del venticinquesimo della Vetrina da Leggere.
Artisti in strada (Una rivoluzione silenziosa)

Ed era andata così, che la nostra bella stradina di giorno era un cimitero, non ci passava
un cane come si dice, tranne quello al guinzaglio che faceva pipì davanti al negozio di Monica, e per dare un’anima a quei muri un pomeriggio invitammo i ragazzi del liceo artistico… e una ragazza faceva ritratti, altre tre la ceramica colorata, e c’era un ragazzo formidabile che truccava e creava effetti speciali sulla pelle e così dopo mezz’ora tutti i bambini erano in giro con ferite sulle braccia, guanciotte tagliate, occhi sanguinanti, e poi c’erano quelli che spruzzavano i murales, quelli del teatrino con le marionette, e uno suonava il flauto, e c’era anche un complessino jazz e un ragazzo ne dipingeva la musica su tela, altri due in un angolo in fondo battevano il tamburo, e una ragazza vestita da pagliaccio distribuiva palloncini e un’altra ruotava i colori della primavera come un giocoliere, un professore di fotografia con i suoi allievi immortalava gli avvenimenti, e una cosa davvero sorprendente è che tutti, ma proprio tutti, erano bravissimi, sembrava che avessero iniziato a sei anni a fare quelle cose, e la vita scorreva nella nostra stradina, qualcuno stava chiuso nel suo negozietto e altri serravano le finestre di casa, ma la vita scorreva, e un bimbetto si era fatto dare un pezzo di creta e si era appartato in concentrazione per creare subito anche lui quello che aveva visto dalle ragazze della ceramica, e i miei amici che avevano saputo della manifestazione mi dicevano che era una cosa fantastica, e la stradina era piena di artisti, tutti lo erano, e l’arte era un elisir sceso nel cuore della gente, e il poeta Silvio Raffo la percorreva e la inghirlandava con le sue battute, e il giornale lo avevano letto tutti, ma i signorini che in città pensano di essere loro la cultura non c’erano, e a una certa ora arrivarono quelli dell’aperitivo e avevano facce scure, e infatti quella sera l’auto non potevano metterla davanti al bar, e vicino a loro i ragazzi del jazz ci davano dentro, e si sorprendevano a vicenda che tutto riuscisse tanto bene, era una serata magica, immersi nella musica, e queste loro vibrazioni si percepivano lì attorno, e quelli dell’aperitivo rimanevano estranei, per loro non succedeva niente, e se passavano davanti alla ragazza dei ritratti non gettavano nemmeno un’occhiata, e non avevano una minima curiosità di come nasce un ritratto, di come lo spirito si muove in una matita, e tutto questo è davvero triste… e se qualcuno ha un’idea a proposito, che non sia quella di mettere a queste persone una dinamite nel sedere, per favore, per l’amore dell’umanità, la tiri fuori subito.
Racconto di Abramo Vane, in occasione del venticinquesimo della Vetrina da Leggere.