di Roberto Filippini

La nostra valle è nascosta tra montagne incredibili per bellezza, un luogo sereno dove i fiumi intrecciano i loro percorsi e gli abitanti condividono segreti.

Alfio fu l’unico a combattere nel primo conflitto mondiale, e per la nostra piccola comunità la guerra era tutta nei suoi racconti. Ma gli uomini che gestiscono il potere non amano la pace e così alla prima seguì una seconda guerra, con bombardamenti sulle città e sui civili. Ogni luogo, anche il più isolato, fu in pericolo.

Un giorno, nell’aria frizzante che annunciava la primavera, il rombo sordo di aerei distanti spezzò la quiete. Il cielo, abituato alle danze di falchi e poiane, si macchiò di scie sinistre. “Sono solo di passaggio” disse Alfio, con la sua faccia triste che era l’immagine della sofferenza patita in guerra.

Aveva ragione, erano di passaggio. Un aereo però, come un uccello predatore, lasciò cadere una bomba. La chiesa, simbolo della nostra comunità, le case adiacenti e il parco dove giocavano i bambini, si trasformarono in labirinti di polvere e disperazione. Il cielo si coprì di cenere.

Tra le macerie, una giovane donna, Giulia, cercava il figlioletto. “Luigino! Luigino!” La sua voce fu una lama di dolore in tutta la valle.

I giorni passarono e divennero memoria. Il corpicino di Luigino giace ora in una piccola tomba, accanto ad altre di soldati morti al fronte.

Il paese ha ripreso la vita semplice di tutti i giorni, fatta di lavoro, sacrificio e gioie inaspettate.

Giulia vive nel ricordo, dentro di sé forse non aspetta altro di morire e raggiungere Luigino in cielo.

Il suo amore di madre oltraggiato dalla guerra è per tutti noi una ferita, una storia vera che non dà pace. Ognuno la tiene nascosta in sé, in un segreto condiviso.

Roberto Filippini, ingegnere meccanico, di norma scrive rapporti di carattere tecnico-industriale. Sportivo, pratica il kite surf sul lago di Como. Prima o poi ne scriverà un racconto

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) SEZIONE RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

di Paolo Crugnola

Fallita l’avanzata delle truppe ucraine, persiste la guerra fra Russia e Ucraina. Oscurato dal conflitto israelo-palestinese, quello in Ucraina sembrerebbe in una fase di stallo. In realtà si continua a combattere e a morire.

Al di là di una risoluzione sul campo, che al momento parrebbe possibile solo con una netta vittoria delle truppe dell’Armata Rossa e la resa incondizionata da parte dell’Ucraina, alcuni analisti, con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, intravedono un potenziale cambiamento di scenario in un’ipotetica vittoria di Donald Trump.

La situazione in Ucraina è complessa e sfaccettata, e ogni prospettiva di risoluzione richiede un’analisi equilibrata e multidimensionale. Di certo l’elezione di uno piuttosto dell’altro candidato alla presidenza negli Stati Uniti introdurrà dinamiche significative nella politica estera americana, e quindi possibili ripercussioni sulla crisi Russia-Ucraina.

Con una vittoria di Biden e dei democratici è difficile vedere un cambiamento radicale, mentre Donald Trump in questo scenario apparirebbe come “l’uomo della pace”, in grado di interrompere la sequenza di morti fra migliaia di giovani soldati russi e ucraini, e ancor più di civili.

 Il biondo presidente, secondo la visione di una stampa alternativa che naviga in prevalenza nel web, parrebbe in grado di promuovere un tavolo di trattative.

Durante il suo primo mandato, Donald Trump ha adottato un approccio alla politica estera notevolmente diverso dai suoi predecessori. La tendenza al dialogo diretto con leader come Vladimir Putin ha sollevato interrogativi, ma anche speranze di nuove vie diplomatiche. Alcuni ritengono che la sua propensione a evitare interventi militari diretti e a favorire accordi bilaterali potrebbe creare un contesto favorevole per rinnovati negoziati tra Russia e Ucraina.

Inoltre, l’approccio “America First” di Trump ha spesso portato a una riduzione degli impegni internazionali degli Stati Uniti, una politica che potrebbe, paradossalmente, ridurre le tensioni in alcune aree geopolitiche. Una minore pressione diretta da parte degli Stati Uniti potrebbe incoraggiare le parti in conflitto a cercare soluzioni regionali, magari con il coinvolgimento di altre potenze europee o internazionali. Da considerare però anche le criticità di tale prospettiva. Il periodo di presidenza di Trump non è stato privo di controversie, e le sue politiche hanno spesso polarizzato l’opinione pubblica internazionale. Inoltre, la dinamica del conflitto Russia-Ucraina è profondamente radicata in questioni storiche, etniche e territoriali, e non può essere ridotta unicamente a una questione di diplomazia internazionale.

Il mantra “Trump uguale a guerre zero” può davvero ritrovare conferma nei prossimi anni? La complessa posizione geopolitica è diversa, molto più intricata di quando il presidente dalla lunga cravatta alla moda era l’uomo più potente al mondo. L’ipotesi che una sua rielezione possa portare a una risoluzione del conflitto Russia-Ucraina è intrigante, ma è necessario affrontarla con cautela e un’attenta analisi. La diplomazia internazionale è un terreno complesso, dove le personalità dei leader possono influenzare gli eventi, ma non determinarli completamente. Al momento, per chi non vorrebbe più sentire notizie di guerra e di morte, è possibile sperare in un’ipotesi più realistica?

Paolo Crugnola. Amante e studioso di filosofia, unisce la teoria alla pratica nel lavoro manuale come artista del legno e batterista.

Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

di Susanna Fontana

Non parlare amica mia, non parlare.

Cosa credi, che io non lo sappia? Lui pronuncia parole di un copione già scritto e recitato chissà quante volte, con chissà quante donne. Il suo viso è un palcoscenico, le sue lacrime sono attricette di terza fila.

Si diverte a guadagnare terreno di giorno in giorno. A sentirsi padrone della scena, a conquistare il pubblico, una spettatrice alla volta, un applauso di cosce dopo l’altro. Probabilmente è matto o soffre di un disturbo bipolare. Se non mi trovano più, sappi che è stato lui. Cercami sotto le assi del suo laboratorio. Ma pensi che m’importi, amica mia? Se morire è il prezzo da pagare per sentirsi vivi, apro il portafoglio del mio petto. Prenditi cura dei miei affetti. Inventa bugie, non dire loro la verità, cosa se ne farebbero? La verità è sopravvalutata, non farli soffrire.

Stai calmo cuore mio, stai calmo.

Lo so che non vuoi sentire ragioni. Ti capisco, stai stretto nel mio petto. Batti forte per uscire e urlare al mondo il mio desiderio. Ma tu il tuo posto ce l’hai. È lì che devi stare. In fondo, dove vorresti andare? Non conosci neanche la strada. Non sai niente di lui. E lui non chiede mai niente di te. Non gli importa chi sei realmente, cosa fai, dove vivi, qual è la tua storia. Sei un organo pulsante come tanti altri. E lui, giocoliere, ti afferra, ti stringe nella mano e ti fa volare in alto insieme a loro.

Non dirglielo voce mia, non dirglielo.

Non dirgli che quando senti la sua, di voce, vorresti urlare mentre lui ti sussurra nelle orecchie. Ma non puoi, e allora il tuo grido si fa liquido e, invece di essere una lacrima, diventa nettare. Lo sento anche adesso, scivola giù come un fiume caldo che vorrebbe raggiungerlo. Il profumo è così intenso che si sente a distanza. Quando cammino per strada, tutti lo sentono, gli uomini si voltano e vorrebbero bermi con lo sguardo. Ma è tutto per lui. Che è qui con me, adesso. Sente l’odore sulle mie dita. Gliele spalmo piano sul suo viso, gli disegno una lacrima, mentre avvicino la mia bocca alla sua. Ma non lo bacio, ancora, no, passo i polpastrelli umidi sui contorni delle sue labbra, per fargli bere di me. Lui è ancora quasi immobile, totalmente rapito, non può fare niente finché io non lo libero. La mia coscia si apre per offrirsi a lui, il resto della gamba lo avvinghia ai fianchi e poi…

Urla pure voce mia, urla pure fino all’ultima fila.

Susanna Fontana. Si è laureata con una tesi sui titoli di testa cinematografici, e da allora è sia attratta che nauseata dal mondo del marketing e della comunicazione, settore nel quale lavora da 15 anni. Sostiene l’antispecismo e sogna un castello con 40 cani.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

di Paolo Crugnola

Anno 24 del nuovo millennio.

L’emergenza guerra ha prontamente sostituito l’emergenza pandemica: i “no-vax” sono diventati “putiniani”, ultimamente persino “antisemiti”, a seconda del pensiero unico dominante a cui di volta in volta si oppongono. Non è più lecito farsi domande in questo presente occidentale, progredito e globalmente libero e democratico. Di fatto le minoranze che osano “pensare altrimenti” sono etichettate, accusate, ridicolizzate, infine addirittura emarginate, mentre paradossalmente ci riempiono la testa della parola “inclusione”.

Siamo ancora liberi di chiederci se per caso non ci mentano dai microfoni televisivi e dalle testate dei giornali più quotati, senza perciò essere chiamati “complottisti”?

Quando l’autoproclamato “nonno” Draghi ha sentenziato “Chi si vaccina vive, chi non si vaccina muore”, ha chiaramente mentito: io per esempio sono ancora vivo. Eppure abbiamo dimenticato tutto, strade deserte, ambulanze, morti, accuse, divieti, coprifuoco, militari, virologi, hub vaccinali, file per i tamponi, la “Dad… fino alla gente lasciata fuori dai bar, dai negozi e infine sospesa dal lavoro…  Siamo tornati a vivere quasi come prima, come se niente ci avesse travolti con quella portata, con quella violenza, creando precedenti pericolosi. Sipario chiuso su tre anni di pandemia per accendere i riflettori sulla guerra in Ucraina, con la stessa architettura: i media sbraitano la loro verità dagli schermi, e chi osa disallinearsi viene prontamente etichettato e “disinnescato”.

Ma non ci staranno mentendo anche questa volta?

Certo, la storia ci riporta di un’umanità eternamente in conflitto. “Polemos” è insito nella Natura stessa. Dunque è bellica la natura umana? “There is no alternative?” Ci dicono che i tentativi diplomatici falliscono, che Putin è improvvisamente diventato un pazzo invasore, e che dinanzi a tale follia l’unica soluzione è mandare armi in Ucraina, difendere gli invasi, i deboli, noi, i democratici, buoni e giusti. A noi popolo sovrano italiano, a noi democrazia, a noi hanno chiesto se siamo d’accordo ad inviare “armi per la pace”? Ci hanno chiesto se crediamo alla favola del pazzo russo, o se sospettiamo che ci siano motivazioni dietro al suo atto, che sia una reazione a qualcosa, pur condannando l’atto bellico in se stesso, di cui pagano sempre loro, i civili, i bambini?

È utopico pensare che mondi e culture differenti possano preservare la loro identità e diversità dialogando tra loro e mantenendo pacifici rapporti di scambio commerciale e culturale? Noi che la guerra non l’abbiamo vissuta, noi che siamo abituati a guardarla dallo schermo, per tornare subito alle nostre faccende… Impotenti assistiamo alle decisioni dei potenti, con i loro interessi ormai plateali. Cerchiamo di non pensarci troppo, perché sotto sotto sappiamo che mai come oggi l’uomo è stato in pericolo di estinzione. Che siamo comodamente seduti su una polveriera scegliendo il colore e la morbidezza del divano. Che noi uomini siamo diventati la minaccia numero uno per la nostra terra.

Chiediamoci se è stato necessario riempire il pianeta di armi atomiche, di rifiuti, di onde di tutti i tipi. Chiediamoci se non possiamo darci dei limiti, se possiamo ancora raccontarci di essere i buoni, i giusti, i civilizzati.

I potenti della terra, i filantropi salvatori dell’umanità – un po’ come Mazinga -, ci usano. Ma noi gli serviamo. Hanno bisogno del nostro consenso. Finché qualcuno ancora dirà NO, ci sarà speranza per l’umanità. Possiamo ancora dire NO?

Paolo Crugnola. Amante e studioso di filosofia, unisce la teoria alla pratica nel lavoro manuale come artista del legno e batterista.

Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Di Gianfranco Casadei.

La sirena sega l’aria. Sorpresi, i pochi passanti si allarmano agli improvvisi colpi dell’artiglieria antiaerea che rivelano l’imminente sopraggiungere dei bombardieri. Neppure l’elemosina dei pochi spiccioli di tempo concessi di solito per cercare riparo.

Maria non è pratica di quella parte di città. Si guarda attorno smarrita. La mano che si era ritrovata aggrappata ai capelli la lascia scivolare sino al collo. Catenina e santa medaglietta sono al loro posto. Trascina il suo bambinetto quasi fosse una sporta al braccio. Gli altri, sino a poco prima sulla sua stessa strada, sono svaniti in tane a loro soli note, senza che lei sia riuscita a seguirli. Ognuno per sé.

Il passo si affretta in corsa verso una chiesa. Ha il portone serrato. Stringe forte la mano del piccolo e con l’altra batte il pugno sul legno fino a farsi male. Nessuno ad aprire, nessuno. Anche così questo portale, con la sua imponente cornice di pietra, promette una qualche protezione. Maria stipa il bambino nell’angolo tra il portone e la pietra. Gli dà le spalle, si accuccia e gli fa scudo col corpo premendo più che può contro quello del figlio, offrendo il petto allo spazio aperto della via. Se ci sarà da correre potrà capire al volo in quale direzione.

Lo sconquasso delle bombe sembra svolgersi non troppo vicino. Solo qualche esplosione le fa tremare la terra sotto i piedi. Nell’aria passano sbuffi rabbiosi di polvere e calcinacci. Dietro di sé un violento boato col suo rude scossone. Qualche maceria precipita dal fronte della chiesa proprio ai suoi piedi. Una fortuna averla trovata chiusa.

Allo spegnersi del caos gli echi di quel frastuono si ostinano ad affollarle le orecchie.

Finalmente silenzio. Silenzio che in tempo di guerra sembra quasi la pace. Maria attende un po’ prima di credere che tutto, almeno per ora, sia davvero terminato. Aggiusta alla meglio per il figlio una coperta di rassicurazioni ma non osa staccarsi dalla sua posizione, il sostegno di quel contatto schiena a schiena, così aderente al suo bambino, sta confortando anche lei.

Allunga lo sguardo verso il cielo e nelle due direzioni della strada. Tutto tranquillo. Si gira verso il piccolo, è stato proprio bravo, irrequieto com’è, a restare così buono e in silenzio, fermo.

Immobile. Inchiodato da una scheggia volata dall’interno della chiesa a schiantarsi contro il portone. Capace di trafiggerne il legno massiccio. Capace di trafiggere la carne di un bambino.

Gianfranco Casadei. Architetto urbanista ed esperto di turismo, da sempre coltiva l’amore per lo scrivere, specialmente la divulgazione storica “Guida all’architettura del ventennio” per Legambiente-ER e la narrativa “A noi toccò la guerra” per l’ANMIG di Ravenna. (Presente in antologia anche con vignetta).

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Il primo sguardo che il Maestro ebbe per me fu di traverso. Era intento a piegare una tovaglietta per deporla in un cassetto che stava lì davanti e mi volgeva parzialmente le spalle. Entrai, e mi guardò in quel modo, di traverso. Poi si voltò verso l’ingresso e mi salutò con un inchino. Quell’uomo era famoso, il suo pensiero, i suoi insegnamenti erano conosciuti ovunque, ma viveva isolato, estraneo ai clamori della celebrità. Con un gesto della mano aveva tracciato un’idea del vivere e aveva parlato al mondo con la saggezza di rituali antichi. Pochi l’avevano però incontrato, e al fine forse pochi l’avevano davvero compreso. Lui del mondo non ne aveva bisogno, e quando entrai in quella stanza io non ero altro che il mondo.
Divenni la sua allieva prediletta, e mi chiedevo com’era stato possibile. Lo incontravo ogni lunedì pomeriggio e insieme gustavamo meravigliose tazze di infusi preziosi. Fui silenziosa, attenta. Memorizzai i particolari delle varie liturgie di quelle cerimonie così disadorne e così profonde, un mistero che mi pareva il mistero della vita stessa. Ne sperimentai i sapori, e un giorno, dopo anni di frequentazione, capii che il Maestro di me sapeva già tutto fin dall’inizio, da quello sguardo di traverso. Ero, a quei tempi, una donna che cercava la verità, e fra le tante strade possibili avevo scelto quella della bellezza.
Tutto era sobrio e raffinato. Il Maestro sereno, la conversazione fluiva libera, composta da poche e essenziali parole. E l’armonia non veniva mai alterata.
In me cresceva una convinzione, e sul mio diario scrissi che l’arte esprime l’energia e il vigore spirituale dell’umano esistere. Ne ero certa, e volevo essere artista. Ero andata fino là per questo, per imparare, e quel giorno ebbi l’intuizione che era lui in persona, il Maestro del tè, ciò che io cercavo. Lui era l’arte, e tutto stava in una tazza di tè.

di Anna Bentivoglio

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Di Fabrizio Tummolillo

Quando voglio parlare con mia figlia vengo qui, alla panchina sotto quest’albero. Mi siedo e attendo che si alzi un po’ di vento. È necessario che si muova l’aria ma basta anche la brezza della sera.So no le foglie a formulare le parole ma è l’aria a portarmele. Credo funzioni in questo modo.

Non è un albero qualsiasi. È un acero di monte. Non lo sapevo, me l’ha detto il mio amico Remo.

Al vivaista avevo chiesto un albero qualunque purché avesse cinque anni d’età. Non sembrava capire la richiesta. Ha fatto storie poi me ne ha mostrato uno. “Questo è nato da seme cinque anni fa”. “Lo compro”.

“Il nome scientifico è “Acer pseudoplatanus” mi ha spiegato Remo. Lui se ne intende. “Trascorrerai le giornate alla sua ombra, fra qualche anno” ha aggiunto. Poi mi ha dato una pacca leggera sulla spalla, come un incoraggiamento. Siamo andati a piantarlo in un campo in fondo alla sua proprietà in collina. Le prime volte passavo da casa ad avvisarlo che venivo da mia figlia. Mi ha detto di non preoccuparmi, di non stare a dirglielo ogni volta.

Tempo dopo ha messo la panchina. È sempre stato un amico. Mia figlia aveva cinque anni. Per questo ho insistito con il vivaista: era nata lo stesso anno dell’albero che volevo comprare.

Le sue ceneri le ho poggiate nella buca, vicino alle radici. Ho ricoperto di terra e Remo ha dato l’acqua.

Basta una brezza leggera e riesco a sentirla. Stasera le sto chiedendo scusa per quella volta che l’ho sgridata fino a farla piangere. Aveva sbriciolato il sigaro lasciato sulla scrivania per dopo cena. “Non pensarci, papà. Non avere rimorsi. Eri stanco, avevi lavorato tutto il giorno”.

Sono passati quindici anni da quando ho piantato l’acero. In questo tempo la sua voce è diventata quella di un’adolescente poi di ragazza poi di una giovane donna.

“Non preoccuparti. Davvero. Ti voglio bene, papà”. “Anch’io”. Oggi con le sue parole il vento ha portato un seme. Sembrava una piccola elica, è sceso ruotando su se stesso. “È la samara, il frutto dell’acero di monte – ha detto Remo quando gliel’ho mostrato -. Ognuna contiene due semi. La forma permette al vento di portarle lontane”.

Invece a me era scesa nel palmo della mano e questo mi ha fatto impressione perché se l’avessi piantata in un vaso e poi in terra come ha consigliato Remo, se me ne fossi preso cura, sarebbe nato un nuovo acero e tutto questo sembrava avere senso compiuto, come un cerchio che si chiude, per farmi fare pace con il padre che non sono riuscito a essere, per lasciare fluire le cose. Con leggerezza, come l’abbraccio dato a quell’albero prima di andarmene sentendoci dentro il respiro di mia figlia.

Fabrizio Tummolillo è nato nel 1970 a Milano. Vive nel Piacentino con moglie e figli. Lavora come educatore ed è giornalista professionista anche se ormai l’unico editore che ne pubblica gli articoli è il prete del paese sul bollettino parrocchiale.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

ESSERE SCRITTORE, ciò che conta davvero

Riporto molto volentieri il pensiero che un amico giornalista ripeteva nelle lezioni di giornalismo al Cavedio, è cioè che per essere un buon giornalista non è tanto importante saper scrivere quanto conoscere le persone. Una saggezza che a sua volta aveva appreso dal capo-redattore, che considerava il suo maestro. Oggi il mondo cambia, c’è internet e con esso si è sviluppato il fenomeno della fabbrica dei saputelli. Il computer fa delle cose che il neofita non conosce né immagina e così in un battibaleno diventa illustratore, editor, scrittore… dispensatore lui stesso di consigli.

Perdiamo la saggezza, la tradizione, quelli che furono i valori, e che lo sono ancora, perché i valori non cambiano nel tempo. Oggi non ci sono amici, ma competitor.

L’ultima cosa che serve a chi intraprende il percorso della scrittura è saper scrivere, che imparerà strada facendo. Occorre invece conoscere l’uomo, sé stessi… e a questa conoscenza ci si arriva crescendo nella scrittura.

continua il 1 giugno

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Il fiume scorre lento frusciando sotto i ponti, la luna splende in cielo, dorme tutta la città. Solo va un uomo in frac

Notte di luna, notte tranquilla. Le strade sono vuote, la città dorme, finalmente.
I due poliziotti fumano in silenzio sul ponte, l’auto posteggiata poco lontano. Ancora qualche ora alla fine del turno. Dal buio emerge un uomo, lo sparato candido della camicia luccica nell’oscurità, i capelli gli accarezzano le spalle. Sotto al lampione ha lineamenti eleganti, mani dai movimenti armoniosi. Indossa un frac.
I due agenti si guardano, incerti se chiedergli i documenti.
– Mi fate accendere? – li anticipa lui – mi fermo sul ponte ad ascoltare il fiume, ad aspettare il mio amore. Attendo da tanti anni e questa notte verrà.
– È molto tardi, signore, per stare in giro. Qual è il suo nome? – Gli chiede il più deciso dei due.
-Ah, eccola! – risponde invece lui senza ascoltarli più.
Appare una donna accanto all’uomo in frac. E’ in lungo, l’abito nero le valorizza i capelli rossi e gli occhi chiari. In mano ha un violino.
Si baciano a lungo e poi si allontanano a passi silenziosi, scomparendo nel buio, prima che i due poliziotti aggiungano una parola, abbagliati dall’aura di bellezza e felicità della giovane coppia.
Dalla portiera aperta dell’auto di servizio giunge una voce metallica: codice sette, incidente stradale sul lungofiume, pattuglia dieci-quattro recarsi sul posto immediatamente.
Partono sgommando e si dimenticano dello strano incontro. L’incidente è grave, in quello che resta dell’abitacolo dell’auto giace l’anziana guidatrice, morta, ricoperta di frammenti minuscoli di vetro che brillano come stelle.
La sera dopo i due poliziotti sono ancora in servizio insieme. Si fermano a bere un caffè in un bar della periferia. Il più giovane trova un giornale aperto su un tavolino e gira qualche pagina, poi mostra al collega le scritte sotto una fotografia: morta in un incidente d’auto sul lungofiume Erica Sofia Gherardi vedova Lanza di Trabia. L’anziana signora era molto nota per essere stata, da giovanissima, il primo violino dell’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Un’artista di talento con un grande avvenire. Alla tragica e prematura scomparsa del marito, il maestro Raimondo Lanza di Trabia, aveva fatto scalpore la decisione della musicista di abbandonare l’orchestra e di non suonare mai più il violino.
I due poliziotti si guardano confusi, non sanno che cosa dire. Dalla pagina due occhi chiari già visti li fissano con un sorriso complice.
(Ispirato a Vecchio frac, Domenico Modugno, 1959)

di Angela Borghi, Illustrazione di Marzia Nigro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

di Anna Ditta

“Questa è la volta buona, dopo tanto rimandare”: l’ho appena pensato che il medico – ne ho scelto appositamente uno giovane che non conosco – mi dice di togliermi il maglione e accomodarmi sul lettino e allora mi viene di nuovo quell’istinto di fuggire via con una scusa, come è successo le ultime tre volte, e così da sdraiata, mentre il dottore districa i fili elettrici del macchinario, penso già a quando si chiederà il motivo per cui le mie lacrime continuano a scendere durante un esame semplice e indolore come l’elettrocardiogramma, che mica è un’estrazione dentale, e poi allo sguardo di compassione che mi rivolgerà quando leggerà nitide sul tracciato le condizioni precarie in cui mi trovo – e intanto lui mi disinfetta le zone interessate, suscitandomi un brivido di freddo che però è niente rispetto al ghiaccio degli elettrodi attaccati a ventosa sotto e sopra il seno, e alle pinse sulle caviglie e intorno ai polsi, ed ecco che di colpo realizzo che non posso più alzarmi, sono costretta a stare qui e tanto vale stringere i denti, ma non posso controllare la testa, quella va proprio dove non deve andare, a questi identici gesti che lui – e lui solo – ha fatto con me tante di quelle volte in questi trent’anni, e io – che sciocca – mai a pensare che potesse farli un giorno qualcun altro, mai a prepararmi all’evenienza di perderlo, e a quella battuta – sempre la stessa – che faceva ogni volta: “Signora, mi pare evidente che il suo cuore batte molto forte per qualcuno qui presente” e allora io restando seria gli rispondevo che era colpa del mio cardiologo che mi faceva incazzare troppo e da troppi anni – che a pensarci adesso quelle parole me le inghiottirei, le manderei giù per questa gola che ora è stretta, e non ci passerebbe neanche uno spillo – e mannaggia a questa fissa per i controlli, perché nella vita non si sa mai, e dopotutto mica è servito tutto questo scrupolo quando si è trattato di te, che sei sempre stato attento a prevenire ma poi sei finito sotto una macchina che correva all’impazzata e niente, tutto è finito così di colpo, ma ecco che anche il dottorino qui ha finito, ed è evidente che si è accorto di qualcosa: “Non so come dirglielo, signora…il suo cuore non c’è, semplicemente non esiste più” e io, che in fondo lo sapevo, gli rispondo calma: “Lo sospettavo, ma io devo vivere, sa dottore, per i ragazzi”, lui sta quasi per parlare ma poi non dice altro e capisco che non c’è proprio niente che si possa aggiungere, allora mi alzo e ora è come se ci conoscessimo da moltissimo tempo, quindi gli stringo la mano e vado via.

Anna Ditta. Giornalista siciliana, vive a Roma. È autrice dei libri “Belice” (Infinito edizioni, 2018) e “Hotel Penicillina”, con M. Passaro e A. Turchi (2020). Dal 2023 cura il progetto di approfondimento letterario “WeltLit. – Letteratura oltre ogni confine”.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org