SCRITTO COL SANGUE *

Quando terminiamo il nostro racconto o il nostro romanzo giallo ci accorgiamo che non abbiamo finito. Siamo arrivati all’ultima pagina, procedendo con il vento favorevole in alcune fasi, più lenti con “lacrime e sangue” in altre e, vale per tutti, con terrificanti battute d’arresto in alcuni momenti. Abbiamo già, diligentemente, in corso d’opera, riletto, corretto e cambiato il testo, siamo ritornati indietro, abbiamo aggiunto o tolto frasi, modificato nomi. Ma c’è ancora del lavoro da fare perché basta un particolare fuori posto per far perdere credibilità a tutto l’impianto narrativo. Rileggiamo dunque più volte, magari a voce alta, magari come se fossimo lettori che non hanno mai visto il libro.

Con due finalità principali. Prima: cogliere l’impressione d’insieme e il ritmo della narrazione. Sentiremo allora quando qualcosa non va, come un meccanico che avverte un rumore strano in un motore.

Seconda: identificare gli errori o, come li chiama Patricia Highsmith, gli “intoppi”: una frase ripetitiva, piatta o confusa, una via in cui ci si è infilati senza uscita, un particolare tecnico che si è dimenticato di verificare (esistevano nel 1600 i crisantemi? Il sonnifero che ho usato può davvero durare più di 24 ore? Ho fatto viaggiare troppo veloce il treno che ha preso l’assassino?). Non mancheranno anche gli errori materiali da correggere: abbiamo chiamato il personaggio con un nome diverso, scritto un termine straniero in modo errato, citato un falso dettaglio di un luogo. E dobbiamo rivedere la punteggiatura, una specie di incubo…

Il consiglio è di non demandare troppe correzioni a un eventuale editing, ma consegnare al mondo un prodotto che ci soddisfi, senza avere fretta. Un altro suggerimento è di non avere paura di limare il nostro “manufatto” e neppure di tagliare senza pietà, se sentiamo che, più snello, funziona meglio. I lettori ce ne saranno grati. Come dice William Faulkner: Leggete! Assorbirete. Poi scrivete. Se è buono lo vedrete. Se non lo è, gettate tutto dalla finestra.

Leggete! E quindi termino con i miei piccoli consigli di autori da non perdere. Ne cito alcuni dei molti che vorrei nominare: P.D. James per la ricchezza delle trame e l’atmosfera, Fred Vargas per la genialità e stravaganza dei personaggi, Ben Pastor per la ricostruzione storica e per aver pensato Martin von Bora, Alessandro Robecchi per lo stile di scrittura immediato, J. Simenon per lo sguardo sulle anime e ancora per l’atmosfera. E poi la “regina” Agatha Christie, Camilleri, Arturo Perez Reverte, Davide Longo, E. George, Carrisi, Malvaldi. Da tutti possiamo imparare, anche da quelli che non ci sono piaciuti.

* Thomas Cook 1991

Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.


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di Giorgio Gino Giunta

Benedetto Croce sosteneva che l’artista indica una sua visione, e il fruitore dell’opera è libero di svilupparla secondo la propria sensibilità.
La vignetta di Giorgio Gino Giunta, risultata vincente nel Concorso, si apre a diverse letture.
C’è chi, nella figura del tennista, ha visto un famoso campione che ha rinunciato a un torneo internazionale in difesa delle proprie convinzioni. Altri hanno notato la canottiera da ragazzino, o magari di una ragazza, e non la maglietta di un professionista. Altri ancora si sono riconosciuti nel gesto forte e perentorio di mandare lontana quella palla a forma di Coronavirus e andare oltre, e chi ha pensato non solo all’epidemia, ma a tutti i mali che ci affliggono, in un lancio verso la pace e la libertà.

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Di Anna Iemma

In un piccolo villaggio al confine tra Russia e Ucraina, la vita scorreva tranquilla tra i campi di grano e le case di legno. Il sole sorgeva ogni mattina, risvegliando gli abitanti con i suoi raggi dorati e promettendo una giornata di lavoro e di semplici gioie. Tuttavia, il destino aveva in serbo una prova difficile per questo angolo di mondo.

Un giorno, senza preavviso, il ronzio lontano degli aerei e il rumore sordo delle esplosioni interruppero la pace. La guerra tra Russia e Ucraina era arrivata anche qui, portando con sé paura e incertezza. Gli abitanti del villaggio, sorpresi e spaventati, si trovarono a dover fare scelte difficili. Alcuni decisero di fuggire, cercando rifugio in luoghi più sicuri, mentre altri scelsero di rimanere, radicati alle loro case e alle loro terre. In mezzo a questo caos, due amici d’infanzia, Maksym e Ivan, si ritrovarono su fronti opposti. Maksym, con le sue convinzioni forti e il suo amore per l’Ucraina, decise di unirsi ai difensori del suo paese. Ivan, invece, trascinato dagli eventi e dai legami familiari, si trovò a vestire l’uniforme russa.

La guerra, con la sua brutalità, non risparmiò il villaggio. Le case furono danneggiate, i campi bruciati, e la vita di ogni giorno fu interrotta da continue minacce e pericoli. Ma in mezzo a questa oscurità, la luce dell’umanità continuava a splendere. I villaggi si aiutarono a vicenda, condividendo cibo e rifugio, e mantenendo viva la speranza di giorni migliori. Una notte, mentre le stelle brillavano debolmente in un cielo offuscato dal fumo delle battaglie, Maksym e Ivan si trovarono faccia a faccia. Entrambi armati, entrambi stanchi e segnati dalle esperienze vissute. Per un lungo momento, si guardarono negli occhi, riconoscendo l’amicizia e i ricordi che li legavano. In quel silenzio carico di emozioni, capirono che la loro umanità comune era più forte di qualsiasi conflitto. Quella notte, Maksym e Ivan fecero una scelta coraggiosa. Deposero le armi e, insieme, decisero di lavorare per la pace, cercando di portare un barlume di speranza nel cuore oscuro della guerra. Il loro piccolo gesto divenne un simbolo, un promemoria che, anche nei momenti più bui, la luce dell’umanità può trovare il modo di brillare. E mentre il sole sorgeva su un nuovo giorno, il villaggio iniziò lentamente a tessere di nuovo i fili di una vita spezzata, ma mai del tutto perduta.

Anna Iemma è nata al Sud, ma da bambina è emigrata al Nord. Oggi si sente una di mezzo. Passa dodici ore al giorno in internet. Otto a dormire. Le altre quattro top secret.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)


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I PUNTI DI INTERPUNZIONE, come usarli

Non ho mai capito il doppio uso della grammatica che fanno in molti. Da una parte un mostro sacro: lo dice la grammatica! Dall’altra la negazione di principi e suggerimenti.

Vorrei affrontare questo tema, in una paginetta, pur sapendo che ci potrei scrivere un libro, e allora scelgo un solo capitolo per accennare all’argomento, ed è quello della punteggiatura e dei punti d’interpunzione.

Tutto è risolto dalla grammatica stessa, che si esprime in modo molto chiaro: non vi sono regole nella punteggiatura.

L’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce, quello di Penelope, settanta pagine senza un segno di punteggiatura, fu scritto nel 1922, cent’anni fa. Ciononostante ci sono ancora professoroni, che oggi hanno trovato in internet il terreno a loro più adatto, che disquisiscono su ogni singola virgola.

La cosa però più deprimente è quando costoro, di norma analfabeti in materia, si spendono in messaggi di marketing per richiamare l’attenzione di altrettanti analfabeti, con lo scopo, a volte addirittura dichiarato, di essere i depositari di sacri riferimenti, gli unici a garantire l’editing che trasformerà i suddetti in scrittori di successo.

Un elemento della formazione di questi autentici venditori di fumo è di conquistare innanzitutto la fiducia della vittima. Tanti libri e tanti film ne hanno parlato. Cito La casa dei giochi di David Mamet con Joe Mantegna (1987), che affronta in modo diretto l’importanza di acquisire fiducia da parte della vittima designata.

Il capitolo che più si presta è quello dei segni di interpunzione nei discorsi diretti. I professoroni fanno copia e incolla da una qualsiasi grammatica e mettono in guardia i neofiti aspiranti scrittori che guai, se si usano i caporali, guai a mettere il punto finale all’interno, va fuori! Per chi usa il trattino, guai a…  Ne ho letto uno che diceva: questa informazione ve l’abbiamo data gratis, se ne volete altre sono a pagamento.

La grammatica è una guida, un’indicazione indispensabile, ma non è legge scritta su pietra. Tanto è vero che le regole cambiano secondo l’uso corrente.

Le case editrici, di norma, nei discorsi diretti impongono le proprie scelte, per cui i caporali, le virgolette o i trattini che vi trovate sono per tutti uguali.

Nella nostra piccola casa editrice lasciamo invece libertà all’autore, perché ci sembra giusto rispettare le sue preferenze, al quale magari i caporali non vanno giù e si sente a proprio agio con le virgolette o i trattini. È ovvio che se Mondadori fosse interessato a una mia pubblicazione e mi chiedesse i caporali, io userei i caporali. Ragazzi! Non sono questi i problemi della scrittura. Dopo il punto esclamativo di “Ragazzi !” ci va la virgola? Non sono questi i problemi. La grammatica, ve lo assicuro, non si offende. Anzi, da quella grande madre che è, ama i figli che prendono iniziative e vanno ad abitare da soli.

Vi porto la mia esperienza. Per i discorsi diretti fra virgolette, trattino e caporali io ho scelto il trattino. So bene che la grammatica indica il trattino lungo, per distinguerlo da quello breve che ha significato di unione e non ha relazione con il dialogo, ma a me piace di più quello breve. Alla fine, dovete ammetterlo, non si confondono, così come la grammatica dice di non accentare il do verbo perché nel contesto non può essere scambiato con la nota do.

Sento già il raglio provenire dai social specializzati, che campano sulle inezie.

Alessandra dice che i simboli vanno rispettati. Beh, a questo punto, se riuscirò a capire come si fa sulla tastiera, adotterò il trattino lungo.

continua l’11 maggio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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di Maria Novella Lombardi

Ci sono frasi che evocano in chi ascolta un’immediata adesione emotiva. Hanno in sé gli elementi di convalida di quanto enunciato, tanto da far apparire inutile ogni approfondimento critico. Capolavori della retorica, nella pubblicità costruiscono per il prodotto un primato di bellezza/desiderabilità associato a superiorità/qualità morali, in un binomio Kalòs Kai Agathos retaggio dell’antica Grecia.

Si pensi ai natalizi panettoni e pandori capaci di generare magicamente buoni sentimenti.

Una pretesa di veridicità che si estende oltre la relazione fra il claim e l’oggetto reclamizzato, investendo aspetti del vivere che con esso non hanno relazione.

Un tipo di frasi proprie anche della comunicazione politica, bandiere di posizioni giustificatorie di idee o condotte, delle quali, proprio in virtù di tali frasi, si afferma l’incontestabilità. Attualmente chi supporti l’ineluttabilità della reazione di Israele al brutale attacco di Hamas del 7 ottobre, ne cita una di Golda Meir, premier Israeliana al tempo della guerra dello Yom Kippur, “Noi potremo un giorno perdonarvi di avere ucciso i nostri figli, ma non potremo mai perdonarvi di averci costretto ad uccidere i vostri”. Potente, suggestiva, pronunciata a nome di un intero popolo, può essere suddivisa in due parti distinte.

La prima, che sancisce la magnanimità, superiorità e clemenza di un certo gruppo, “Noi potremo un giorno perdonarvi…”, funge da premessa alla seconda, in una sorta di sillogismo nel quale, dando per vera la prima parte, quella in cui ci si dice capaci di perdonare persino l’uccisione dei propri figli, diventa automatica la “verità” della seconda, ovvero che sia più dolorosa per chi la commette, l’uccisione dei figli altrui, esaltando ancora la superiorità morale prima sostenuta.

Ne deriva pure che la causa dell’impossibile perdono per le morti provocate, risieda non in sé, ma nella perfidia del nemico, tanto mostruoso da non lasciare spazio ad alternative e a “costringere” alle uccisioni dei suoi figli.

Si dà per comprovato che non vi siano altre scelte rispetto alla guerra, alla vendetta e all’annientamento, e che le possibili soluzioni siano state davvero tutte esperite.

Oltre alla demonizzazione, al nemico viene attribuita anche la disumanizzazione e la colpa, suggerita implicitamente, di non amare a sufficienza i propri figli, così da evitargli l’uccisione da parte di chi è stato “costretto” a farlo, non condannabile perciò per tale azione. Quel che più fa riflettere, è che attualmente la frase viene citata mentre l’operazione su Gaza è ancora in corso. È come se si pretendesse l’assoluzione preventiva per essere nuovamente “costretti” ad impietose azioni di guerra che causano la morte di civili e bambini, si badi, non già accadute, ma in corso d’opera e ancora da commettere! E lo si fa richiamandosi, loro come i loro nemici, ad un Dio ridotto a meschino tifoso dell’una o dell’altra squadra. Apparentemente costruita con una logica similare, di grande efficacia comunicativa, è un’altra frase, di Gabriel Garcia Marquez, che pare da segnalare. Anch’essa in un certo senso basata su un sillogismo e costituita da due parti correlate. La prima parte pare affermare un altezzoso privilegio, un dato di superiorità morale o materiale “Un uomo ha diritto di guardare un altro uomo dall’alto in basso…”, ma conclude imprevedibilmente negando la premessa, mutandone così il senso profondo: “… solo in un caso. Aiutarlo a rimettersi in piedi”. Nessuno fraintenda però, senza per questo sentirsi autorizzati ad averlo prima steso.

Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)

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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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di Roberto Filippini

La nostra classe, la terza D del Liceo di Saronno, era divisa in due quartieri, a destra quello delle ragazze e a sinistra i maschi. Angela era in prima fila vicino alla porta e quando si voltava verso di me, che stavo in fondo dall’altra parte, trovava sempre i miei occhi su di lei.

Un giorno il burbero insegnante di scienze la richiamò: “Signorina Angela ma lei ha il torcicollo?” Angela temette di essere stata scoperta e la sua sensibilità non resistette. Dalla mia postazione notai che si asciugava una lacrima.

Anch’io mi sentii offeso dal professore, e la vulnerabilità di Angela risvegliò qualcosa dentro di me, un coraggio che non sapevo di avere. La lacrima è una silenziosa confessione, un linguaggio che va oltre le parole.

Scrissi su un foglietto: “Al tramonto, al Parco della Pianeta” e glielo feci arrivare come si faceva nei compiti in classe da un banco all’altro. 

All’appuntamento giunsi mezz’ora prima e ripassai tutte le frasi che mi ero preparato, ma quando comparve in fondo alla stradina ero già senza parole.

Ci sedemmo su una panchina. Il sole non sapeva più come aiutarci con i suoi riflessi sugli alberi. Ogni respiro diventava un dialogo nascosto.

Angela era accanto a me, il calore della sua presenza come una promessa non ancora svelata. Le parole danzavano sulla punta della mia lingua, ma il timore di rompere un incantesimo mi tratteneva ancora. E poi accadde, finalmente. Dalla tasca della giacca presi lo smarphone e dissi: “Ti voglio far sentire una canzone che piaceva ai miei genitori quando erano giovani”.

Lei mi guardò, i suoi occhi lucidi riflettevano la luce del tramonto e dissolvevano i miei dubbi. “Il peso di tutto ciò che non diciamo è troppo da portare”, disse con una certa commozione che di nuovo le procurò una lacrima.

In quel momento compresi che il nostro silenzio non era una barriera, ma un desiderio che entrambi temevamo esplodesse distruggendo l’amore.

Due anni dopo ci iscrivemmo all’Università. Lei biologia, io ingegneria meccanica. L’anno scorso è nato Roberto, che noi chiamiamo Bobby.

Roberto Filippini, ingegnere meccanico, di norma scrive rapporti di carattere tecnico-industriale. Sportivo, pratica il wakesurf sul lago di Como. Prima o poi ne scriverà un racconto.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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IL FINALE, una stoccata di classe

C’è poco da dire, dopo tutta l’attenzione che abbiamo messo per arrivarci. Magari il finale l’avevamo in mente fin dall’inizio, magari è maturato nello sviluppo, magari è saltato fuori inaspettato, oppure è rimasto volutamente sospeso. Va tutto bene. Un pericolo che ho notato nei nostri racconti è che a volte il finale ha condizionato tutto lo sviluppo. Vale a dire, siamo partiti con il finale già in mente, una bella stoccata, e non abbiamo visto l’ora di arrivarci, senza cioè curare lo sviluppo. Il giorno in cui avremo in mente un romanzo commetteremo lo stesso errore. E un conto è aver lavorato per un raccontino, che possiamo facilmente riscrivere, un altro se cento pagine sono rimaste vuote in attesa del tocco finale che probabilmente nessuno arriverà a leggere, sopraffatto dalla noia. Al contrario, avere in mente un buon finale deve essere lo stimolo per tenere alta la tensione.

Arriverà il finale, concentrato in due pagine oppure nell’intero ultimo capitolo, e sarà una luce su tutto quanto è stato raccontato prima.

Mi aspetta una bella Guinness, e non mi dilungo oltre. Solo l’esempio di un allievo che mi ha consegnato un racconto di 10.000 battute, con un finale buttato lì, senza una conclusione all’altezza della storia narrata. Il racconto era stimolante e mi sentivo il finale nelle mani. Gli ho detto di riscriverlo lui. È chiaro, vero, che il finale di questo corso lo scrivete voi?

continua il 4 maggio

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Il cielo mi aveva aspettato, senza nuvole, per la arrampicata al Sass de Stria. Una salita ripida, tra le rocce, con il fiato che stentava, ma arrivato in cima mi sedetti ai piedi della croce e ritrovai il Lagazuoi, la Tofana, la Marmolada. Quel giorno dividevo però le Dolomiti con un altro uomo. Non ero solo, lassù.
Mi aveva rivolto la parola, lo sconosciuto, in un modo come se non fosse affatto uno sconosciuto. Un giovane, con il viso ovale da vecchio, il naso sottile e occhialini rotondi come non vedevo più dagli anni settanta. Mi raccontava un episodio della Grande Guerra. Pensai che fosse un’improbabile guida, messa lì ad accogliere i turisti, ma lo strano era che narrava in prima persona, come se avesse assistito agli eventi. Ma raccontava bene e io ero stregato dalle sue parole:
– … la selletta qui in basso era presidiata dagli Austriaci, il 3° reggimento dei Kaiserjäger. Perciò era importante che conquistassimo il Sass de Stria dove avevano sistemato un osservatorio. All’alba potevamo sorprenderli e proteggere, con il fuoco dall’alto, l’arrivo del nostro plotone. Ci offrimmo in quattordici volontari e partimmo dal Castello di Andraz la sera del 17 ottobre 1915. Iniziammo la scalata dalla parete occidentale che gli Austriaci ritenevano inaccessibile. Arrivammo, stremati, alle due di notte, e trovammo la cresta deserta. Ma, poco prima della luce, ci scoprì un gruppo di Kaiserjäger saliti all’osservatorio. Non riuscimmo a catturarli tutti e diedero l’allarme. Ci attaccarono in più di cinquanta quando il plotone non era ancora giunto. Ci riparammo nelle trincee ma era un inferno di fuoco. E il plotone tardava. –
Il discorso era terminato, bruscamente. Vidi che erano comparse delle nuvole grigie spinte da una brezza gelida. Avevo freddo, ma volevo ancora ascoltare.
– E poi? –
– Troverà la fine sui libri di storia. – mi disse sorridendo – ora è tardi, devo andare.-
E con due passi sparì dalla parte opposta alla via che avevo percorso io per salire.
– Come si chiama? – gridai assurdamente nella sua direzione, al suono che i suoi scarponi non avevano fatto, all’aria che non aveva trattenuto alcun odore, al terreno che non portava traccia del suo passaggio.
– Mario – mi rispose una voce, lontana come un’eco.
– Mario Fusetti –
E la fine della storia l’avevo poi trovata davvero, la storia di quel gruppo di coraggiosi che erano saliti al Sass de Stria e di cui pochi erano sopravvissuti. Il loro comandante, fulminato da un proiettile austriaco in piena fronte, era il sottotenente Mario Fusetti, il cui corpo giace ancora, senza riposo, nei crepacci del Sass de Stria.

di Angela Borghi, fotografia di Ettore Borghi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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