Di Miranda May

Un semplice giro di giostra. Senza neanche pensarci, bastava solo salire. Eppure non si mosse.

Come ha fatto a non capire? Non chiedevo altro che essere seguita. Ma io non chiedevo, non lo facevo mai. Restavo ad aspettare che i sorrisi arrivassero, mi accontentavo di quelli. Sorrisi composti e ben educati. Veri, ma così pallidi da sembrare smorfie sul mio viso.

L’amore è iniziato quando la nostra storia è finita. Amore per me stessa, per la mia vita e tutte le cose meravigliose che ne fanno parte, anche per quello che è stato. Lo penso tutti i giorni, so che non troverò nessuno come lui, e mi sta bene. Finalmente so cosa voglio.

Sembrerà strano scrivere un racconto d’amore senza una storia romantica. Ma il romanticismo è sopravvalutato. Non ho mai voluto promesse, smielate dichiarazioni, baci sotto il vischio e cenette a lume di candela. Non un costoso abito bianco, bomboniere, damigelle e al diavolo i fiori e i fotografi. Nulla di tutto questo. Io voglio le risate, voglio ballare, voglio lasciarmi cadere sapendo di essere presa. Pretendo qualcuno che salga con me su quella stupida giostra, e nulla di meno. Gli anni passavano, i ricordi sbiadivano, la vita procedeva come un fiume in piena, e tra le rapide mi scontrai con qualcuno di inaspettato. Un uomo disposto a fare tutto il necessario per guadare le acque al mio fianco, o così credetti di sentire. Forse lo scrosciare dell’acqua era troppo forte, forse lessi male le sue labbra, forse pensai di udire semplicemente quello che desideravo sentire. Quando scomparve non fui sorpresa.

Non provai nemmeno a seguirlo, sarebbe stato come nuotare controcorrente, sfiancante e assolutamente inutile. Lo sapevo bene ormai, ricordo ancora cosa si prova ad annegare piano, giorno dopo giorno, fino a toccare il fondo. Meglio non opporsi, meglio lasciarsi trascinare via dalla corrente.

E adesso lo capisco, il fato voleva che io oggi fossi qui, e guardassi intorno a me con lo stupore dei bambini. L’acqua riflette il verde brillante degli alberi e una farfalla vi si specchia, il cielo è terso e la canoa mi culla danzando sul fruscio delle foglie. Il vento sta cambiando, ma anche la pioggia sarebbe incantevole in questo momento. Ogni respiro sembra un miracolo, e mentre una lacrima scorre libera, risuonano nella mente le parole del mio anziano maestro. L’amore non usa parole, non ha etichette, non lo si può dare per ricevere. L’amore non è per qualcuno o qualcosa che definiamo nostro. L’amore non ha un fine e non ha fine.

Amore è quel sentimento che proviamo di fronte alla bellezza, puro e semplice. Non porta a nulla, se non alla vera felicità.

Miranda May, classe ‘93, vive in libri e biblioteche, luoghi sacri e venerabili. Impiegata di giorno, studentessa di notte e lettrice a tempo pieno, almeno nei suoi sogni. Talvolta si diletta a imbrattare pagine bianche.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Monia Casadei

A distanza di mesi, lì si sentiva ancora un deportato.

Il tempo trascorreva in attesa della domenica (non tutte) in cui i nipoti avrebbero varcato l’uscio col passo indolente – una gita a Mauthausen avrebbe destato maggior entusiasmo.

Nel frattempo, avendone a disposizione in quantità, la mente spaziava su perimetri di ricordi: le balere e le gambe svelte delle donne; la mietitura e le fiasche di vino a fine giornata; la polenta tirata a mano nel paiolo (il suo profumo per tutta la cucina); i semi spansi nella paziente attesa di germogli; le partenze e i ritorni (a volte no ed è tragedia); le mani callose e i volti cotti; la perdita d’un figlio nella pancia, quando nascere non era una certezza; il raccolto distrutto dalla grandine, col figlio appeso al seno vuoto della madre (ed era stato inevitabile vendere la mucca per arrangiare i pasti); l’incendio della stalla che aveva concorso con la grandine, battendola; le nascite e le morti, a chiudere cerchi.

Come imbucati a una festa, lo visitavano persino gli anni della guerra, che aveva strappato a una generazione l’infanzia, la spensieratezza e, più spietata, gli affetti: la paura gialla per la vita della moglie e dei figli, come di chioccia che tenti di schermire i pulcini sotto l’ala; i bombardamenti a gramolare i campi e, in un istante orrido, anche la vita della sua bambina (che non aveva otto anni e non li avrebbe più compiuti); la fame cronica in risalita dal ventre alle tempie; i partigiani nascosti nelle perquisizioni dei tedeschi – che poi erano poco più che bambini anche loro, gli occhi molli sotto l’elmetto duro, e fu solidale rifocillarli con la polenta, figli d’altre madri disperate ad uopo vicariate oltre confine.

Seguì il duro lavoro di rinascere e, con l’amore che si riserva ai salvi, dare un futuro al figlio che, dopo gli studi, migrò a Berlino e si costruì una famiglia bionda.

E quando si potevano dire scampati, la moglie aveva preso a smangiarsi brani di vita partendo dalle bagatelle recenti fino alle memorie antiche – persino il suo volto, ormai per lei straniero, così da sentirsi masticato anche lui da quella maledetta malattia.

Ma peggio era stato il vuoto enorme che l’aveva sfiatato il giorno in cui lei non s’era più svegliata.

Ora, nella sala collettiva, le scene allo schermo lo sconsolavano: conosceva quella disperazione muta di rovine, di pietre sottosopra, di morti riversi, di lacrime e sguardi persi nella paura, nell’angoscia.

Nella rabbia. L’uomo era rimasto lo stesso. Forse sua moglie aveva ragione: la dimenticanza è la sola protezione possibile contro le umane atrocità senza memoria.

Monia Casadei, nata a Cesena, è psicoterapeuta. Scrivere per lei rappresenta una catarsi incoercibile fin dai tempi degli studi classici. Con poesie e racconti consegue il primo premio in diversi concorsi letterari nazionali e internazionali.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Nicoletta Manetti

Non riusciva a dormire: un po’perché pensava che il babbo doveva ripartire il giorno dopo per il fronte, la sua licenza era già alla fine. Ma soprattutto non riusciva a dormire per la fame.

Avevano passato quel pomeriggio giù nel rifugio per l’allarme aereo, e a cena, dopo, da mangiare c’era solo una patata a testa. Ora il suo stomaco reclamava e si era alzata al buio per cercare qualcosa nella madia. Il corridoio era gelido, dalle imposte si insinuavano gli spifferi della guerra in inverno, taglienti da togliere il fiato.

Dalla soglia della cucina in penombra per il coprifuoco, intravide le due ombre abbracciate: la mamma, piccola e coi capelli scomposti, il babbo scalzo e le maniche della camicia arrotolate, con quel freddo. Senza musica, si bisbigliavano all’orecchio una canzone e ballavano.

Lei rimase immobile, zitta, non l’avevano vista e si nascose dietro la porta trattenendo il respiro. Il cuore le batteva all’impazzata, lei aveva fame, batteva i denti, e loro ballavano.

Sopra la credenza lì nell’ingresso vide la macchina fotografica di suo padre, grossa, col fodero di pelle marrone. La prese, l’aprì, ci guardò dentro, lui le aveva spiegato un giorno come funzionava, lei non l’aveva mai fatto, ma provò, li vide ondeggiare dentro l’obiettivo e scattò. Non si aspettava neppure lei quel lampo di luce azzurra che li fece voltare di scatto. Corse via, abbandonando la macchina fotografica sulla credenza. Si infilò di furia sotto la coperta, a pancia vuota. E loro di sicuro continuavano a ballare. Non capiva proprio cosa avessero da ballare. Le facevano rabbia, lei era sola, e aveva fame.

Un anno dopo, la mamma con una lettera in mano, seduta al tavolo di marmo di quella stessa cucina, terrea sotto la luce della lampada al neon, lo sguardo perso nel vuoto, le disse che il babbo non sarebbe più tornato. 

Sono passati tanti anni. E  ancora oggi, lei e sua madre, sono sedute in quella cucina. Ѐ domenica, la badante è libera, e per passare un po’ di tempo, ha tirato giù dall’armadio la scatola delle fotografie.

Si rigira tra le mani quella foto in bianco e nero, i bordi smerlati, le due facce sorprese dal flash. La passa a sua madre, che la prende con le mani che tremano, guarda a lungo, alza uno sguardo senza espressione: “Bei giovani, ballano. Li conosci?” chiede.

“Sì, li conosco bene. Sono bellissimi.”

Solo ora capisce quel loro ballare senza musica, nella penombra della cucina, a piedi scalzi, durante il coprifuoco.

Nicoletta Manetti, fiorentina, avvocato, si dedica da tempo alla scrittura, ottenendo diversi riconoscimenti. Recentemente ha pubblicato, per Ed. Pontecorboli, “Anja e Dostoevskij a Firenze”, “D. H. Lawrence e Frieda a Firenze” e “Gertrude Stein e Alice B.Toklas a Firenze”.

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DI BIRRA E DI SCRITTURA, e anche di branzino

Come distinguere una buona birra da una ottima? Dalle mie parti c’è la Poretti, che ha inventato i 3, i 4, 5, 6 luppoli. Poi i 7, distinti nelle diverse stagioni, e via con gli 8, i 9 e, incredibile, i 10, esclusivamente in bottiglia da champagne. Più volte mi capita di sentire disquisire sull’argomento, qualcuno che sentenzia sulle differenze dei molteplici luppoli. Chi dice loro che ci sono ottime birre con un luppolo solo? Grande marketing, grande Poretti. Vendono una birra industriale facendo credere che sia artigianale. Tanto di cappello. Ha battuto tutte le altri industriali, che si ingegnano in trovate.

E la stessa cosa per gli scrittori che raggiungono la televisione. Cabarettisti che si trasformano, intrattenitori che primeggiano nelle classifiche. I soliti nomi. Lasciamo perdere, a loro non levo il cappello.

Ma allora come capire la differenza fra una birra e l’altra, fra un testo e un altro? Si procede con lo stesso metodo: il confronto sul posto. Sorseggiate una 4 luppoli, e poi bevete una lagher di proclamata tradizione oppure una buona artigianale (attenzione: non tutte le artigianali sono all’altezza del nome, ma quelle buone sono davvero un’altra cosa), e dite.

Assaggiate un branzino di allevamento, e vicino uno pescato in mare libero.

Leggete una pagina di un raccomandato della tv e quella di un classico. Ecco, questo è il metodo con il quale procedere per migliorare la nostra scrittura. 

La nostra scuola propone la riscrittura. Bene. Mettete a confronto la prima stesura con quella che ne è uscita dall’aula del corso o dal vostro stesso lavoro individuale. Confronto sul posto.

Detto ciò, confesso di preferire una vera birra artigianale, un branzino pescato in mare, una pagina scritta che gronda sudore.

Continua il 21 settembre

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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Di Natalia Rovera

Quella lacrima sul viso aveva detto tutto. Raccontava di un amore taciuto per troppo tempo, di tanti “ma si dai poi passa”. Come se fosse un’influenza o uno fastidioso sfogo, che poi tanto danno non fanno. Quante volte Pier incrociando il suo sguardo avrebbe voluto confessarle il suo amore! Le aveva anche contate poiché così facendo, si diceva, avrebbero fatto da sprone alla sua ritrosia. Una, due, cinque, dieci volte, ma niente proprio non ce la faceva. Rimuginava tra sé e sé: “l’altro giorno era di corsa”, “ieri era troppo accigliata”, “oggi poi proprio no, pioveva troppo!”. Quando le scuse si esaurirono iniziò a sfuggire al suo sguardo, quasi i suoi occhi avessero il potere di pietrificarlo all’istante. C’era sempre qualcosa che cascava provvidenzialmente di mano, un passante da salutare o un raggio di sole ad infastidirlo. Gli anni passavano e Pier vide Juliette trasformarsi in una giovane splendida donna, che egli venerava in devoto silenzio, quasi fosse l’incarnazione di una divinità e lui un misero mortale al suo cospetto.  Venne poi l’inesorabile giorno in cui la vide scendere le scale per salire nella carrozza adornata a festa. Non era stata mai così bella, pensò, ed in quel momento seppe che mai più avrebbe provato quello smarrimento, quel senso di totale impotenza dinanzi ad un’altra donna. Lei era il suo amore, la sua musa, il suo eterno tormento. E mentre le porgeva dolcemente il braccio a suo sostegno, nell’esatto momento in cui i loro occhi si incrociarono capì di averla perduta per sempre. Lei saliva in carrozza e lui fu come trafitto da mille pugnali. Quel dolore fu così acuto tanto da causargli un mancamento. Juliette se ne accorse mentre si voltava sventolando il suo fazzoletto come si confà agli addii in grande stile. Fece fermare subito la carrozza, scese di corsa quasi inciampando nell’abito e si precipitò a soccorrerlo. Avvicinandosi a Pier, che si era accasciato sui gradini, si inginocchiò dinanzi a lui e fissandolo con occhi indagatori lo vide forse realmente per la prima volta per ciò che era. Quelle lacrime, quello sguardo, valevamo più di mille parole. Ed ella tacque, sforzandosi di mantenere quel regale contegno che il suo ruolo imponeva e per il quale tanto si erano adoperati i suoi educatori negli anni addietro.  Asciugò dolcemente le sue gote con un tocco estremamente delicato, quasi temesse sfiorandolo di cagionargli altro dolore. Poi strinse le sue mani e con voce tremolante disse “forse in un’altra vita, in altri luoghi, avremmo potuto essere noi”. E se ne andò.

Natalia Rovera è una varesina di 53 anni. Odia il freddo, i ragni, la prepotenza. Ama il mare, i gatti, la gentilezza. Scrivere per lei è un’esigeza viscerale, che le permette di catturare il suo mondo interiore tanto turbolento quanto sfuggevole.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Amelia Di Corso

Sotto il balcone di casa dei miei, c’è un pezzo di terra. Affacciandomi dal primo piano, ho sempre visto questo rettangolo poco più ampio del balcone, circondato da un metro di muretto sopra il quale spuntano, a cornice, piante di alloro. Quando torno a casa e guardo giù, mi ricordo di me.

Sono cresciuta su questa lingua di terra. Quando ero piccola se un giocattolo cadeva giù, era un’avventura scendere e scavalcare il muro per recuperarlo, certe volte lo lanciavamo apposta; quando è morto il criceto di mia sorella, lo abbiamo messo in una scatola di scarpe e lo abbiamo seppellito lì, con una croce di rametti; da che io mi ricordi, dopo i pasti, le briciole sulla tovaglia sono sempre state sbattute al di là del balcone, in quel giardinetto. Una volta ci ha sorpresi una mano di foglie che salutava, spuntava più alta del nostro parapetto: uno stelo lungo e flessibile si muoveva al vento, era un limone altissimo, nato chissà come in quel terriccio e cresciuto fino a noi. Poi l’hanno tagliato a metà, ché per bellezza del palazzo nessuna pianta poteva superare l’alloro.

È stato in quel periodo che ho iniziato a porci attenzione. Buttavo giù tutti i noccioli della frutta che mangiavo. Intere estati in cui ho soffiato raffiche di semi, mentre appoggiata alla ringhiera mordevo fette di anguria, il succo che correva lungo le braccia fino ai gomiti, immersi in una pozza sul ferro battuto. Ma nessun cocomero o melone è mai nato, nessuna pesca, nessuna mela. Solo quel limone, sempre lì, ad altezze alterne. E allora le briciole della tovaglia sono diventate per lui, il gesto si è fatto rito, nutrire la terra, condividere il cibo; se non pioveva, anche l’acqua versavamo. E ci è venuta voglia di assaggiarli quei limoni, e l’attesa è stata lunga, ogni giorno erano sempre ancora verdi. Poi una mattina sono diventati gialli. I nostri limoni. Mica del palazzo, che ne sapevano quelli di sopra, loro in quel giardinetto non ci hanno lanciato che qualche molletta dei panni caduta per caso. Io e mia sorella siamo scese emozionate, bisbigliavamo senza motivo, quatte quatte abbiamo saltato il muretto, l’alloro che ci graffiava. I limoni erano nostri, ovvio, ma sembrava comunque un furto. Mi ricordo i brividi. Non esageriamo, solo i due più grandi, gli altri facciamoli crescere. Quando a casa abbiamo mostrato il bottino, papà non l’ha voluto assaggiare, chissà che ci sta in quella terra, sotto a un palazzo, a un centimetro dalla strada. Le nostre facce.

Poi mamma ci ha fatto una limonata fresca. È la più buona del mondo, ci siamo dette noi due, piazzate nelle nostre sedioline di plastica, davanti alla sigla di Bim Bum Bam. Bevila piano, così ti dura fino alla fine dei cartoni.

Amelia Di Corso. Sceneggiatrice e drammaturga. Fonda L’Avvelenata e produce contenuti teatrali, letterari e cinematografici. Crea il Premio Letterario L’Avvelenata (in giuria Daniele Mencarelli, Alessandra Carati, Paolo Zardi) e il podcast letterario «Aperte Virgolette».

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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IL FUMO E L’ARROSTO, cosa ci interessa davvero?

Riprendo il concetto, e non per una semplice operazione di marketing. Nello slogan c’è tutta l’illusione legata allo scrivere, che è la grande barriera da abbattere per entrare in un percorso serio di formazione. Sembra assurdo, ma il fumo attira più dell’arrosto. Ci caschiamo tutti. Anch’io, confesso. A vent’anni lessi un annuncio sul Corriere della Sera e pensai che se avessi mandato le mie poesie sarei diventato ricco. Poi scoprii che i massimi poeti italiani, quelli che pubblicano con i grandi editori, vendono al massimo duemila copie, nonostante abbiano vinto una gran quantità di premi nazionali e internazionali, e compresa la candidatura al Nobel. Chiarisco un particolare. Il fumo non viene nemmeno dall’arrosto. È invece creato a parte con rametti di pino mugo, bacche di ginepro, essenze di erbe aromatiche. Se seguiamo la scia da dove proviene, l’arrosto non lo troveremo.

Continua il 14 settembre

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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di Elisabetta Antichi

La donna si muove con passo lento; è anziana, fatica a camminare, ma vuole percorrere quella strada di campagna un’ultima volta. Non sente la stanchezza, non ha paura, sa solo che deve andare.

Quando raggiunge l’olivo, è stremata dalla fatica ma felice; l’albero è grande e rigoglioso, l’ombra la accoglie come una vecchia amica. La donna accarezza la corteccia, avvolge le braccia intorno al tronco, chiude gli occhi e accenna un sorriso.

Quando il gatto morì tra le sue braccia, la ragazza, seduta per terra in un angolo della casa, pianse a lungo. La ragazza e il gatto erano cresciuti insieme: si erano trovati lungo una strada di campagna in un giorno di primavera, lei una bambina solitaria, lui un mucchietto di pelo magro e sporco, e non si erano lasciati più. Lei se n’era presa cura come la creatura più preziosa dell’universo. Lui per tanti anni era stato il suo migliore amico, la presenza affettuosa, discreta e costante che non l’aveva mai fatta sentire sola.

La ragazza sapeva che questo momento sarebbe arrivato: il gatto aveva avuto una vita lunga e felice ma era vecchio e malato, era giusto lasciarlo andare. Eppure il suo cuore era spezzato; le era impossibile pensare che il suo compagno fosse andato via per sempre.

A un certo punto, asciugandosi le lacrime, la ragazza si alzò, avvolse il gatto nella sua coperta preferita e lo portò con sé in giardino. Colse un’oliva dall’albero, la ripulì, la preparò per la semina, la mise in una tasca. Infine prese una vanga e si incamminò verso la campagna.

La ragazza raggiunse un piccolo oliveto, poggiò il gatto per terra e scavò una buca in uno spazio tra gli alberi. Poi aprì la coperta, accarezzò il gatto per l’ultima volta, lo avvolse di nuovo nella coperta e lo depose con delicatezza nella buca. Lo coprì di terra e piantò il seme.

La ragazza rimase seduta accanto alla piccola tomba; immaginò l’olivo che sarebbe cresciuto da quel seme, dal suo amico perduto, e il suo dolore sembrò sollevarsi al pensiero di quella nuova vita.

La donna è ancora stretta al tronco dell’olivo. Sa che non dovrebbe essere lì: è consapevole del pericolo, quel pericolo con cui lei e il suo popolo sono abituati a convivere e che oggi è più forte che mai. La donna tiene l’albero tra le braccia come se potesse ancora stringere a sé il suo gatto, il compagno di tanti anni prima mai dimenticato, che tuttora vive nella chioma splendente, mossa dal vento e scintillante al sole.

La donna rimane abbracciata all’albero, con gli occhi chiusi e il sorriso stanco, mentre il rumore delle bombe si fa più vicino.

Elisabetta Antichi. È nata a Pisa nel 1970 e vive a Cagliari con un marito e quattro gatti. Scrive per passione da sempre; ha partecipato a numerosi concorsi e ha pubblicato racconti e poesie su antologie e riviste.

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di Edoardo Cossu

Un suono di guerra corre nel vento: sono gli zoccoli dei cavalieri che battono sulla terra divelta dalla lunga avanzata. Uomini d’acciaio sfrecciano coi propri destrieri nel nero manto lunare a incendiare con le loro lanterne il limitar dell’orizzonte. Il fuoco nei loro occhi fa intendere che a breve arriveranno a destinazione, ma grondano lacrime dagl’elmi scarlatti pensando alle voci nell’aria lontana di chi attende il loro rientro. Conoscono già le parole del Fato: nessun più ritornerà.

Batu, assiso al centro dell’impero sul proprio trono d’avorio, li aveva inviati a riconquistare i lontani confini, dove da tempo eran comparsi cacciatori feroci con pelle diafana ed occhi di ghiaccio. Genti atterrite nel loro pallore che non volsero mai uno sguardo ad Oriente, eppure infiammate da un cieco rancore, inneggiavano contro il loro imperatore con il canto della rivolta. Perciò il Khan con le sue grosse mani inanellate puntò il dito verso il crepuscolo: non una parola, ma un cenno annoiato e l’esercito corse negl’ultimi raggi d’un sole invernale in cerca di teste per le picche regali. I sudditi dovevano ricordare: agli uomini mai sarà concessa l’arroganza d’essere liberi.

L’Orda d’Oro sarebbe arrivata prima che i raggi dell’alba avessero blandito la rugiada distesa nella prateria e le città ribelli crollate inermi entro quello stesso tramonto di fuoco, ma gli uomini d’acciaio galoppano ancora nei campi adombrati. Calcano terre da settimane sui loro cavalli, pronti a imberciare le città dolenti. Con loro v’è la tristezza del viaggio, la certezza d’una morte solitaria, intonata nella brezza con le note dell’antica canzone. La Tradizione voleva che anche le donne, ch’attendevano a casa il ritorno dei loro mariti, avrebbero cantato ogni notte nell’aura l’inno d’addio perché le voci provenienti da Oriente e Occidente s’incontrassero in un soffio di malinconia a colmare la steppa infinita e riunirsi un’ultima volta.

L’imperatore la sera ode il canto della rivolta sfiorarlo nei sogni, ogni luna avverte il suo potere affievolirsi, le sue mani assottigliarsi e questa notte sente le anime dei suoi cavalieri sfrecciare nell’Ovest. Ascolta le anime varcare l’Ignoto oltre il quale anche lui le avrebbe raggiunte in un giorno di primavera, ma ai margini dell’impero giungono arie rotte dai pianti di giovani vedove, là dove un popolo di fantasmi galoppa feroce recitando nel vento antiche parole d’amori perduti. Sorge a Occidente il canto della rivolta: sono soldati che tornano in cerca di pace.

Edoardo Cossu (Varese 1998) è un appassionato di scienze e letteratura. Laureato in Neurobiologia, lavora come docente al Liceo Sereni di Luino, città in cui fonda e presiede Utòpia APS, associazione con l’obiettivo di costituire un polo culturale.

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Di Giulia Carloni

Ero nel paese dove tutto era finito e dove avevo sognato di costruire la mia vita. Ero solo nella stanza che sapeva di polvere e di muffa. Dondolavo sulla sedia scricchiolante e in mano avevo il bicchiere di bourbon. C’era il camino tenuto acceso dall’ultimo pezzo di legna.

Me ne stavo andando perché poco era rimasto per me. Dovevo dire addio e a me gli addii non sono mai piaciuti. Da quando sono arrivato a Varese tante cose sono cambiate. La stanza nella palazzina novecentesca mi ricorda casa di mia nonna, con la carta da parati a fiori e un parquet scheggiato. «Di buon gusto», direbbe Agata con una risata, ironica. Ha girato quasi tutto il mondo. Le appartiene il senso del bello e della scoperta. È l’anima della festa.

A me, invece, piace la routine; le abitudini mi fanno stare comodo in un luogo e le persone non sono sempre necessarie. Amo la persona che ora è lontana da me, che odora di bruciato e di rosmarino. Agata è morta con le margherite nella mano sinistra e l’ombrello nella destra. Odio gli ombrelli, le strade trafficate e la pioggia. Odio quando le goccioline entrano nella giacca e ti scivolano sulla schiena come piccole gocce di pianto. Da quel giorno indosso un cappotto impermeabile e arrivo in ufficio zuppo di umidità. Non mi importa perché lei non c’è.

Le lacrime che verso hanno il gusto amaro del rimorso e della solitudine. Di qualcosa che ho perso per sempre. Detesto i “per sempre” ma in questo caso non c’è modo migliore per descriverlo. Indosso il trucco della persona in grado di sopravvivere, di scomparire, di iniziare da capo. Le lacrime sciolgono la maschera durante le notti di quiete, di sgambetti emotivi e di dolore.

Verso il the nella tazza e Varese è baciata dal sole primaverile. Sono arrivato per dimenticare, per costruire da capo, per rimediare agli errori del “per sempre” e del “mai”. E ora che i miei piedi calpestano l’acciottolato dei Giardini Estensi, scopro che sul viso si è fermata la voglia di sognare.

Nell’orecchio un farfugliare giocoso di momenti che urlano, che mi chiamano. Agata è la parte di me che non mi guarderà più, eppure che resterà sotto la pelle, nel sangue, nel midollo osseo di questa mia esistenza.

Gli addii non mi piacciono, talvolta hanno il colore del sollievo, altre di tormento. Salgo con i piedi pesanti le scale, i sentieri, tra i carpini, con le mani in tasca. Mi siedo su una tiepida panchina, con una luce timida sul viso. Sono pronto a provare la sensazione del lasciare andare, del ricominciare. E una lacrima sul viso mi dona il coraggio di dire addio.

Giulia Carloni. Classe 1990, crede nei diritti di partecipazione, di esistenza e di felicità. Nel 2022 ha pubblicato un libro, “Un mondo a colori”, edito da Porto Seguro Editore. Lavora come educatrice con Coop Lotta Contro l’Emarginazione.

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