A cura di Abramo Vane

PER SCRIVERE BENE, impariamo a riscrivere

E per riscrivere con efficacia dobbiamo trovare motivi per fermarci a riflettere quando rileggiamo il nostro capolavoro che, vi garantisco, capolavoro ancora non è, ma può diventarlo, nel nostro piccolo.

È pieno d’imperfezioni e, in modo particolare, di potenzialità da sviluppare. Partiamo dal cogliere le
occasioni per fermarci a riflettere, e prendiamo come riferimento i suggerimenti delle buone grammatiche che dicono: non abusate degli avverbi, soprattutto di quelli che finiscono in mente, e nemmeno dei gerundi. Gli aggettivi sono un’illusione e se ne fate a meno è meglio, per un semplice rispetto dei sostantivi, dei significati che contengono. I verbi servili e quelli fraseologici, se li evitate, otto volte su dieci il testo ci guadagna.
Questi sono gli esempi più vistosi che cito all’inizio, perché più facili da individuare, ma poi ognuno troverà per proprio conto qualsiasi altro motivo per riflettere in modo serio su quanto è sceso sulla pagina bianca. E riscrivere in modo più incisivo. Cerchiamo un metodo di lavoro, che è personale, come lo è la scrittura, e non una semplice tecnica che è impersonale e sterile.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


Continua il 28 ottobre 2023


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Di una cosa vi sarei riconoscente, e so di apparirvi insensato, ma vi invito ad avere rispetto per le pagine bianche e perciò a non gettare i fogli di carta, essi hanno due facciate e su ognuna scorre la vita… E mi ricordo, e non era molto tempo dopo la guerra, io andavo all’asilo e non sapevo nemmeno che cos’era la guerra, e ai miei fratelli e a me non mancava niente, e i quaderni per tutti papà li portava a casa dall’ufficio, e su di essi facevo i miei disegni perché i bambini si esprimono con il disegno, e poi a otto anni scrissi la mia prima poesia, e la scrissi su una carta che avvolgeva il formaggio, quel giorno erano finiti i quaderni, e io sono arrivato alle scuole superiori senza mai comprarne uno, e a sedici anni di poesie ne scrivevo una marea e le regalavo a una ragazza, e così non ero mai solo e avevo sempre la speranza dentro di me, crescevo l’amore, e sentivo di diventare qualcuno, e la libertà me la conquistavo, e su quelle pagine bianche vedevo una strada, era la mia, quella e non altre, dal niente veniva fuori la vita dei pensieri, e i pensieri travolgevano la vita, erano loro la vita, e davanti alla pagina bianca si emozionavano, e anche quando divenni adulto i pensieri davanti a quella pagina si emozionavano come bambini, e come il fiume a un certo punto avverte il rumore del mare vicino a sé allo stesso modo le pagine bianche sentivano l’infinito, e riempiendosi, finalmente scritte, ritornavano da dove erano partite, da quell’unica pagina bianca che le avvolgeva tutte quante.

di Abramo Vane e illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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Il giovane scrittore amava Bukowsky e beveva birra con l’amico Franz, e in uno di quei magici momenti scrisse che Charles era morto, e tutti noi ce lo ricordiamo ancora quando venne in redazione con quel suo pezzo e tremava come a un esame, e il più comico di noi, il miglior cavallo di razza che la redazione avesse mai avuto, ne ebbe a male perché anche lui scriveva libri e si chiamava Charles, e allora a sua volta buttò giù quella pagina meravigliosa che si intitolava Ti amo, tenera tata, e l’art-director, un tipo che sullo stomaco aveva un pelo lungo così, disse… una stronzata del genere non l’ho mai letta in vita mia, tranne quella di quel farmacista che si credeva un genio e ci aveva spedito un racconto pulp, quella nessuno poteva superarla, e allora nella mente mi passò un pensiero e subito lo fermai su un foglio bianco, lo leggevo e rileggevo e nel mio piccolo lo trovavo formidabile, e chissà quanti altri prima di me, nel fluire dell’energia vitale, avevano osservato quel pensiero passare lì davanti e non lo avevano colto, e quanti invece l’avevano sì fermato, su un pezzo di legno, su di una tela, oppure proprio su un foglio di carta, e quel pensiero era di sicuro già stato formulato, in altro modo, nella letteratura… E la letteratura circolava da una testa all’altra, da un’anima all’altra, e ognuno trovava uno spiraglio personale, una comprensione che era la sua, e nella nostra rivista l’energia era un fiume in piena, e se una sera ci trovavamo in dieci c’erano dieci discorsi diversi e simultanei, e ognuno li seguiva tutti, e se c’erano dieci bottiglie era un disonore se tutte e dieci non toccavano il fondo, e l’editore diceva sempre cribbio, qui non si vende una copia, e aveva ragione, quando si parlava di soldi sembrava che non avesse mai fatto altro nella vita, e la nostra esistenza assomigliava sempre più a quella dell’amico Franz che viveva in una catapecchia come un barbone, e forse lui aveva già capito quello a cui noi stavamo arrivando, ma per un’altra strada, perché le cose stanno in un certo modo e ci sono mille strade che portano a comprenderle. E questa, di nuovo, è letteratura.

di Yuri Sansilvestro, illustrazione di Renato Pegoraro

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un podcast a cura di Jacopo Bravo

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A cura di Jacopo Bravo


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Nell’aula al secondo piano regnava il caos da primo giorno di liceo, grida risate, sedie per terra.
Poi il silenzio. No, non era il professore di greco con fama di cerbero, né la bidella che ci chiedeva di star zitti, solo un’improvvisa ventata d’aria fresca che sapeva di mare.
Indossava una camicia trasparente e pantaloni morbidi che disegnavano forme generose per la sua età; i capelli color del grano le cadevano in massa sulle spalle, gli occhi verdi un poco divergenti, la pelle candida, bellissima.
Era Venere, ma ancora non lo sapevamo.
Noi ragazze, adolescenti bruttine degli anni Settanta, con i jeans a zampa d’elefante, maglioncini girocollo stile “marines” comprati al mercatino americano di Livorno, i capelli corti, la guardammo smarrite.
Lei invece non ci degnò di uno sguardo e raggiunse il gruppo dei ragazzi, trasformati in statue di cera con le gote arrossate e la bocca aperta, un intenso afrore adolescenziale.
“Mi chiamo Mariella”. Un nome banale, ma che importava in tanto splendore?
Marcello, il belloccio moro e litigioso, le sorrise accattivante. Valerio, il figlio del preside, brutto e brufoloso, si alzò: “Ciao, ti stavo aspettando”.
La prese per mano e l’accompagnò al banco vicino al suo, capimmo che la conosceva già. Le famiglie, si seppe poi, avevano deciso per loro.
Solo Nando rimase di spalle; lineamenti fini capelli lisci lunghi fino alle spalle si guardava compiaciuto nel vetro della finestra: “ma quanto sono bello?”.
Iniziò cosi e negli anni a venire fummo testimoni un po’ invidiose, tanti amori, troppa bellezza: il fedele Valerio, il bellicoso Marcello e poi Giovanni, Marco magari anche il professore di ginnastica, chi può dirlo?
Nando non si curò mai di lei e così pensammo che avrebbe amato una di noi e fu solo il primo di tanti che incontrammo poi, capaci di amare solo sé stessi. Nessuno la sentì mai ridere, né scherzare.
L’anno della maturità, Mariella non tornò dopo l’estate: diciott’anni anni soltanto e si era buttata dalla scogliera, sparita nel mare dove era nata. Un amore infelice, avevano detto, un amore non corrisposto.
“Perché, Mariella? Bellissima e amata da tutti” Troppo giovani per comprendere.
L’abbiamo ritrovata agli Uffizi di Firenze, in gita scolastica.
Una sala affollata, sul fondo “La nascita di Venere”: capelli color del grano, occhi verdi, la pelle candida, bellissima.
Nata tra i flutti, venduta a Vulcano, amata da Marte e ignorata da Narciso. Ci aspettava con un accenno di sorriso e abbiamo capito.
Per sempre Venere, dea dell’amore, morta per amore.

di Alessandra Stifani, illustrazione di Alessandro Boscarini

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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Uncle Goose ascoltava il desert rock sulla sedia a dondolo, dondolando nel Texas sotto al sole; scricchiolava la sedia, scricchiolava il vinile. Uncle Goose era il proprietario di una pompa di benzina quando ancora la benzina non esisteva. Ogni settimana una diligenza gli consegnava sigarette non ancora chiuse, buste, caramelle e pezzi di mondo importati dal futuro che a lui piaceva collezionare. Giusto quel martedì Uncle Goose guardava soddisfatto quell’insegna: “pericolo di morte”, creata per avvisare i viaggiatori di non toccare i fili della corrente di un treno che da lì a qualche decennio sarebbe arrivato. Il teschio, ivi presente, incrociò le ossa e soffiò beffardo qualche granello di sabbia. Uncle Goose, sibilando, lesse “pericolo di notte”, tirò fuori la pistola dal fondello e sparò al sole. Colpì quell’astro, sempre alto in quella terra, giusto in faccia. La caduta del corpo celeste fu perpendicolare al suolo terreste e la bocca di un pozzo accolse quella pillola gialla. Ovviamente s’inghiottì anche la sua luce poi ruttò. Fu così che Uncle Goose conobbe la notte.
Dopo una settimana si stufò del buio e cercò delle candele in magazzino. Tra insegne di sali dal Marocco, copertoni usati da Bobet per scalare l’Izoard, una stecca da biliardo spaccata in testa all’imbattibile automa Giorgio e una fasciatura per il mal di denti usata da Van Gogh sporca di giallo girasole, Uncle Goose trovò un richiamo per coyote. Uscì, e sotto la veranda, sotto il coperchio plumbeo, fischiò.
Passati sette giorni, Uncle Goose, sempre dondolandosi nell’oscurità e chiedendosi dove la diligenza fosse finita, vide arrivare un vecchio coyote. Gli si sedette ai piedi. Divennero amici.
La terza settimana arrivò un indiano alla guida di un uccello truccato. Si tolse il casco e chiese se avesse visto il sole. Il coyote strabuzzò gli occhi. Uncle Goose fece girare sull’indice destro la sua pistola e si mise a ridere. L’indiano capì, risalì sull’uccello e tornò a casa dove l’attendevano le sue api.
Fu un bambino, incaricato di andare a prendere un secchio d’acqua fuori dal paese, a imbattersi nel sole addormentato in fondo al pozzo. E quando sporgendosi, vide quella luce, pensò di averla combinata grossa e tornò a casa veloce come la paura. La madre lo accolse con quattro calci nel culo. La mancanza d’acqua infatti impedì di cucinare il risotto con salsiccia per lo zio Goose, venuto apposta dal deserto per mostrare al cognato una rarità che nessuno aveva in città: i lacci delle scarpe con le quali Elvis inciamperà a 16 anni, la sua prima volta su di un palco! Il nipote chiese allo zio: “Ma se tu hai i lacci delle scarpe, come farà a inciampare Elvis?”. Uncle Goose fece girare sull’indice destro la sua pistola e si mese a ridere.

di Paolo Negri, illustrazione di Paolo Negri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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A cura di Abramo Vane

LAVORIAMO IN MODO EFFICACE, e maturiamo qualità

Vivono in noi, le qualità. Portiamole in superficie, analizziamole eda loro traiamo forza. Fra tutte ne indico due che mi sembrano più importanti:
l’umiltà e il senso del distacco.

Se non siamo umili non andremo da nessuna parte, in alcun lavoro, e in primo luogo in un impegno come questo che scava dentro di noi. L’umiltà, come dice qualcuno, è la virtù sulla quale si fondono tutte le altre. Nel nostro caso la sperimenteremo e frequenteremo ogni volta che andremo a riscrivere un nostro testo, che magari prima ci sembrava perfetto, ma nel quale abbiamo trovato “qualcosa che non va” o “qualcosa che scritto in altro modo potrebbe rendere meglio”. Se poi non maturiamo il senso di distacco, quando rileggiamo la nostra pagina penseremo sempre che sia straordinaria. Se invece l’affrontiamo come se fosse quella di un altro vi troveremo tutte quelle imperfezioni che contiene e andremo a porvi rimedio e, quel che è più interessante, a sviluppare situazioni, descrizioni e
psicologie rimaste inespresse. La nostra fantasia, che per poca cosa c’era sembrata grandiosa, mostrerà i suoi limiti attuali, e troverà spunti per arricchirsi.


Continua il 21 ottobre 2023


Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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Io lo conoscevo bene, era un bravo ragazzo, ma di quelli proprio bravi, ed era anche il ragazzo più buono e pacifico che avevo mai incontrato… un giorno, pensate, camminavo con lui e a un certo punto cambiò passo solo per non calpestare un insetto che gli attraversava la strada, e in vita sua non aveva mai fatto male ad anima viva, e anche con gli amici era generoso e non chiedeva mai niente in cambio, e anzi faceva buone azioni di nascosto, come quella volta che aveva messo i suoi risparmi in una busta sotto la porta di casa di una compagna di classe il cui padre aveva perso il lavoro, e io lo avevo scoperto per caso perché aveva usato un tipo di busta che gli avevo regalato io, e quel ragazzo era singolare, era uno che pensava con la sua testa, e anche quella sera non chiese niente a nessuno, e fu coraggioso, e uscì di casa con la carabina a piombini di suo fratello maggiore e la scure dello zio che lavorava in campagna, e li fece fuori tutti, in un raggio di dieci chilometri, e forse avrebbe ripulito l’intera provincia se non l’avessero colto sul fatto, e i babbi natale di plastica li fece esplodere come rane gonfie d’aria, e quei babbi natale sagomati che si arrampicavano sulle finestre li squartò come le prostitute di Jack lo squartatore, e infatti quei babbi natale erano prostitute e con il Natale non c’entravano niente, così come tutte quelle luci che addobbavano le vie della città un mese e mezzo prima, e anche in questa azione risolutiva lui aveva dato prova della sua immensa bontà, e se noi fossimo una società per bene gli daremmo una medaglia come a un eroe che salva la patria uccidendo i nemici, ma siccome siamo quello che siamo, lui adesso giace in una cella oscura… e i commercianti urlarono che volevano essere ripagati del danno, e la televisione, che vive sugli spot della pubblicità, affermò che era un criminale, e i giornali scrissero che un ragazzo dall’infanzia infelice aveva ucciso il Natale, e siccome ogni azione trova sempre dei proseliti, io l’altro giorno al bar dissi che quel ragazzo rappresentava il risveglio delle coscienze… e questo è il motivo fondamentale per il quale la mia scrittura è tanto incerta, trovandomi io disteso, con un occhio nero e un braccio ingessato, in un letto di ospedale.

di Riccardo Ventolin, illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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