“Insieme a te non ci sto più
Guardo le nuvole lassù”

Guardo le nuvole, in quest’isola dal profumo di vaniglia dove la giornata ha il passo lento e gli occhi trovano sempre il cielo. Cammino tutti i giorni sui sentieri che portano al mare e sciolgo il peso che la vita con te mi ha lasciato sul cuore. A ogni grido di uccello nel bosco o nuovo panorama che si offre mi sento più leggera. Non ho nostalgia del tempo passato con chi confonde il possesso con amore, con chi non conosce la tenerezza né condivide un momento di allegria.
Ero abbagliata dalla tua personalità, dalla tua energia e da tutto quello con cui mi hai circondata, le sbarre dorate di una gabbia che mi hai costruito intorno a poco a poco. Sono stata debole, senza la forza di volare via da un rapporto avvelenato dalla prepotenza, dalle parole usate come armi contro di me, dalla gelosia malata.
Ma un giorno ho riconosciuto le ferite che avevo sul cuore e ho preso l’aereo, sono venuta qui. Non sei riuscito a fermarmi.
Dalla finestra della mia stanza che lascio aperta giorno e notte vedo quando le strisce di nuvole bianche attraversano il cielo, si colorano di grigio e promettono la pioggia oppure quando i cumulonembi si alzano come montagne e le barche dei pescatori si affrettano in porto. Le voci del mercato che riempie le vie del paese mi fanno compagnia.
Qui la gente è cordiale e discreta. Non mi chiede perché sono sola, sa che non sono triste.
E i lividi sulla mia pelle non si vedono quasi più, coperti da questo sole che scalda e abbronza. Mi sono organizzata e sono stata brava, ho disposto tutto per restare sull’isola. Non so per quanto, ma non ha importanza. Non tornerò da te, questo è l’importante, né in una città dove mi hai isolato da tutti e reso una vittima.
Ora smetto di scrivere questa lettera, che comunque non ti spedirò mai.
Non ho tempo, devo uscire a guardare le nuvole e fra me canto questa canzone.

“Io cerco boschi per me
E vallate col sole più caldo di te
Insieme a te non ci sto più
Guardo le nuvole lassù”

di Angela Borghi, illustrazione di Marzia Nigro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

«Con la costruzione del muro non possiamo più accedere ai nostri terreni. Tutto quello che avevamo ci è stato rubato. Piangiamo, ma nessuno vede le nostre lacrime» dice l’uomo intervistato. Il microfono torna alla giornalista, che spiega: «Iniziata nel 2002, la barriera che separa Israele e Cisgiordania è lunga 570 Km ed è stata costruita quasi interamente sulle terre palestinesi».
Khaled ripensa alla sua infanzia, e incide il cartoncino. Agli oliveti del nonno, e cambia direzione alla lama. Al kanafeh* della mamma, e fa l’ultima rifinitura: una sagoma emerge dal niente.
Anche la sua famiglia aveva subito l’esproprio della casa. Da quel momento tutto era cambiato: i genitori erano emigrati al nord, suo fratello si era stabilito in Grecia e lui si era trasferito nel quartiere arabo a Gerusalemme. Non li aveva più rivisti, solo qualche telefonata.
L’appartamento che condivide con Hassad, è ricavato in un vecchio capannone industriale. Entrambi appassionati di street art, hanno creato un laboratorio, un alveare di lamiere in cui nutrire le proprie idee. L’area è diventata un punto di riferimento per altri writers a cui piace sperimentare.
Il suo ulivo di carta è lì, disteso, riposa. Ma al posto delle olive ha intagliato delle bombe. Khaled guarda la sua creazione con un misto di apprensione e adrenalina. E’ la sera giusta. Non vede l’ora di vederla abbracciare la parete. Si preparano, il furgone viene stipato di secchi di vernice, bombolette, rulli… Sulla barriera ci sono telecamere e mitragliatrici controllate da soldati nelle torri di controllo ogni pochi metri. Tutto si gioca su chi è più veloce: l’artista o i soldati. Hassad e Khaled si arrampicano su una porzione di muro sgombra. La telecamera si gira verso di loro, inizia il conto alla rovescia. Assemblano lo stencil e lo incollano. Compaiono dei poliziotti in lontananza. Khaled spruzza la bomboletta del nero sugli “ordigni”. I soldati sono già a cento metri da loro. Un’ultima spolverata di verde alle “foglie” e poi la scala scompare nel veicolo, che sgomma verso il buio delle case assonnate, tallonato dalla camionetta mimetica.
Quando sono sicuri di non essere più seguiti, si fermano. Arrivano allo skate park, rifugio di artisti e sbandati. Aprono il portellone con gli occhi accesi, sono euforici. L’alba proietta le loro ombre sulla strada e le nuvole corrono veloci, svegliate dalla luce solare. Khaled guarda in alto. Quelle forme astratte sono la sua fonte di ispirazione, la loro libertà trascende ogni confine.

*dolce palestinese simile al cheese cake

di Olga Riva Rovaglio, illustrazione di Silvia Gabardi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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Grape Creek, in mezzo al nulla texano. Quattro case, un saloon, uno spaccio che vende di tutto, il maniscalco. La mainstreet si srotola davanti a me, una lingua di terra che è polvere d’estate e fango d’inverno. E in fondo alla strada lui, che mi urla metti mano alla pistola, se non sei un codardo. Mezzogiorno è passato da un pezzo, e quel bastardo si è posizionato nel migliore dei modi. Ho i raggi del sole negli occhi, un bel limite che si aggiunge alla mia giovane età e all’inesperienza con le Smith&Wesson. Come ero finito lì, a difendere la mia vita? Al solito, come tutti i maschi di questa terra. Per una donna. Mezz’ora fa entra nel saloon questo sgherro vestito di nero e acciaio, l’ambiente ammutolisce e il mio vicino mi fa quello ha già fatto fuori un paio di sceriffi. Gli dico beh tanto noi lo sceriffo non ce l’abbiamo mai avuto, ma poi mette gli occhi su Jane. Già, la mia Jane. Stiamo assieme da un anno, e stiamo risparmiando qualche dollaro per costruire un piccolo ranch. Vorremmo cominciare con poco, e poi magari allargarci, se tutto andrà bene.
Ormai sono cotto a puntino, lei lascerà il saloon dove canta e serve ai tavoli e sarà solo mia. Insomma, lui le si avvicina e comincia a toccarle il braccio, ma lei si ritrae. Il padrone del saloon gli fa Jack lascia stare la ragazza, è promessa. Lui gli risponde che non gliene frega nulla e che si sarebbe preso quello che voleva, e cinge Jane per la vita dicendole vieni qui bella pollastrella.
Sparo un paio di colpi in aria, tanto per far capire che non sarei rimasto lì a guardare, e lui si gira verso di me e dice bene, vedo che c’è qualcuno a cui non va come mi comporto. Ride mostrando i suoi denti marci e mi fa un giorno senza sangue è come un giorno senza sole, esci fuori e combatti da uomo, se davvero lo sei.
Ed eccoci qui. Il mio futuro contro questo imbecille. In strada, nessuno. Le finestre del paese chiuse sprangate, ma so che tutti sono lì dietro, ad aspettare.
Spalla contro spalla, venti passi e poi si spara. Uno, due tre, quattro… penso al nostro primo ballo, a quando ti ho stretto e tu mi hai baciato… dieci, undici, dodici…e al pezzo di terra dove sogno la nostracasa, e i nostri figli che razzolano davanti alla porta… diciotto, diciannove, venti.
Mi giro, un’esplosione.
E la voce di mio fratello che mi prende in giro dopo aver fatto scoppiare un palloncino: scemo, ti sei addormentato al sole! Anche con la pistola ad acqua sul petto, ma chi ti credi di essere, John Wayne? Io mi guardo attorno, mi tocco le gambe, il petto, la pancia. Sono ancora vivo. E di Jack non c’è l’ombra.

Racconto di Gianluca Fiore, illustrazione di Benedetta Fiore 

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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“Il signor Lucas è atteso al gate 10, il signor Lucas è atteso al gate 10”.
Il signor Lucas fissa la moquette blu della sala Lounge, luogo insolito per chi non ha mai accumulato miglia. Sta usufruendo di quelle del genero, un rappresentante che vanta un passaporto pieno di timbri. Il suo invece è immacolato, le pagine rigide tagliano le dita. Settantasei anni, di cui molti passati a lavorare nel calzaturificio di famiglia, dopo gli studi di ragioneria e qualche sogno nel cassetto infranto dalla leucemia del padre. Due figlie, e una villa bisognosa di manutenzione.
Adelaide, la moglie, aveva provato per anni a convincerlo. Lei amava esplorare luoghi lontani, per lui tutto ciò che non era percorribile con la sua Citroën era fuori questione, la diagnosi chiara: un’illogica paura di volare.
Non erano serviti i racconti sui colori acerbi dell’alba o sui solidi tramonti stagliati sulle cime delle Alpi. “Papà, dal finestrino ho visto la cima delle montagne, dove non arriva nessuno!” Gli aveva raccontato Mirna, la più grande, quando era diventata la compagna di viaggio fissa delle madre. A sedici anni distingueva la Jungfrau e lo Schilthorn, scenario di uno dei film di James Bond. Aveva provato così ad accendere la fantasia di un amante di Ian Fleming ma nonostante il signor. Lucas in quell’occasione avesse chiuso gli occhi e immaginato l’incanto degli occhi di Mirna per qualche secondo, l’idea di salire su un aereo gli aveva fatto arricciare il naso, in quel gesto di fastidio che non riusciva mai a nascondere.
Eccolo ora lì il signor Lucas, per i suoi cari Tancredi, in coda al Gate; le mani sudate gli fanno sgusciare il passaporto, la hostess sorridente ne percepisce l’agitazione e lo rassicura, andrà tutto bene.
Il decollo con stupore si rivela piacevole, la spinta lo incolla al sedile, gli sembra di essere su una giostra. La borsa scivola indietro, non se ne accorge; è troppo impegnato a pensare ad Adelaide, si sente più vicino a lei, per la prima volta dopo la sua morte, vicino al cielo e a quella sua curiosità di esplorare.
A velocità di crociera le assistenti di volo si preparano con i carrelli per il servizio. Sul sedile lato corridoio il signor Lucas si sporge verso il posto accanto al finestrino, rimasto libero. Ha acquistato due biglietti, non gli sembra giusto condividere quell’evento con qualcuno che non sia lei. Le cime si vedono a malapena ma ai suoi occhi si svela qualcosa di meraviglioso: nuvole e nuvole dipinte di arancio e rosa lasciano intravedere timidi triangoli di roccia. Ora ha capito. Come ha potuto aspettare così tanto, come ha potuto vivere sempre e solo al di sotto delle nuvole.

Racconto di Elena Bulgheroni, illustrazione di Silvia Bulgheroni

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Ai primi corsi di Scrittura mi presentavo con una dispensina lunga una pagina. Avevo l’attenuante che il corso si chiamava SCRIVERE IL CORTO, e così rispettavo il tema. Dall’altra facciata del foglio un raccontino sul valore dell’umiltà, che ho riportato in questa pubblicazione. E non solo, avendolo usato in rappresentazioni teatrali o di semplici presentazioni. Anch’esse nella formula del corto, massimo quindici minuti.

L’infinito salva tutti gli scrittori è un bel titolo, poetico, e rende il concetto. Non è adatto a un marketing su google dove si vende fumo, come i tanti che spacciano istruzioni di volo per aquile e polli.

É nato da un’esperienza condivisa in anni di frequentazione ai corsi, un lavoro di gruppo, tanto che nelle future pubblicazioni in qualità di autore sarà indicato il Progetto Florentis. Dunque un percorso che da qui è partito, e ha poi vissuto tanti sviluppi.

Ma l’Infinito dov’è?

Fiorenzo Croci



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L’amico si ferma, riflette,

non teme il vento e la notte,

ma teme la solitudine,

e del poco che ha da dividere,

apre la mano e lo disperde.

Dal mare davanti s’inarcano onde,

le ho viste cadere a pochi passi da lui,

lacrime scendono sulle guance incavate,

gocce luminose sulla superficie del mare,

e caro amico che cosa sei?

Ora che la durezza del tuo cuore non le ha trattenute,

ora che le sue mani si stringono ad altre mani

e non sono le tue.

Il bicchiere riempito già troppe volte

non reca sollievo ma pensieri di morte

l’ultimo sorso ha spianato la via

tolto infine il dissenso alla follia.

I piedi si avvicinano alla schiuma rabbiosa

son quelli di chi non ha più niente da offrire,

e tra le nubi la luna curiosa

lascia lo sguardo vagare nel chiaro,

così da notare solo un bicchiere,

dove prima stava l’amico mio caro.

Di Mauro Speri

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A cura di Abramo Vane

Premessa

Ci siamo. Scriviamo questo benedetto romanzo. Ognuno il suo. Nel modo migliore. Una cosa importante è che abbiate letto il precedente “L’INFINITO SALVA TUTTI GLI SCRITTORI – Suggerimenti e idee in un corso di scrittura”. Per chi non l’avesse letto, ma anche per chi l’ha letto e riletto, riporto i concetti principali.

Se vogliamo impegnarci in una simile avventura, costruiamo una buona base e un metodo di lavoro.


SCRIVERE, un percorso di conoscenza

Scriviamo per conoscere. Conoscere gli altri, il mondo, ma innanzitutto noi stessi. Forse qualcuno pensa di scrivere per gli altri. Non è così. Pensate davvero che il mondo aspetti le nostre pagine? No di certo. La scrittura per chi scrive è un grande arricchimento, una strada privilegiata rispetto ad altri lavori. Miglioriamo, e conosciamo. Tutto il resto (la pubblicazione, il successo, ecc.) viene dopo. Ed è meno importante. E comunque, se non saremo noi forti, sicuri della nostra pagina, che cosa potremo dire agli altri?

Nella riscrittura, intervenendo su tutto ciò che può essere scritto meglio, si innesta un meccanismo di stimolo alla fantasia e a nuove creazioni, e tutto ciò fa parte di un percorso di conoscenza.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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I pensieri di quell’americano con la giacca di pelle nella veranda del Continental riempivano la notte de Il Cairo.
Hanno ritrovato Emelius Brown, l’insigne egittologo, a vagare senza meta nel deserto dopo oltre una settimana dalla sua scomparsa, in preda alle allucinazioni.
Versa ancora in condizioni critiche per le gravi ustioni riportate.
Nessuna notizia, invece, dei membri della sua spedizione: se e quando Brown si sveglierà, potrà chiarire il mistero della loro sorte. Di tanto in tanto ha degli improvvisi, violenti attimi di lucidità.
Si riscuote, fissa il vuoto con gli occhi sbarrati, emaciato in viso; la pelle bruciata lo rende grottesco, una sorta di spettro abbronzato.
Farnetica, una litania che gli sale dallo stomaco, e in mezzo poche frasi appena comprensibili.
Quelle parole mi hanno convinto che il professore e la sua squadra fossero sulle tracce della vera sepoltura della regina Baketurel, grande sposa reale del Faraone Ramesse IX.
Sembra che un papiro rinvenuto da Brown raccontasse l’inganno con cui lo scriba Amenemopet fosse riuscito a nascondere la tomba della sua signora.
La soluzione si cela dietro il bassorilievo di un disco solare rinvenuto dal professore. Raffigura l’Occhio di Ra -il dio Sole dalla testa di falco -stretto tra due serpenti ornati della corona delle regine d’Egitto. Immagine insolita, sosteneva Brown, ma identica a un’altra presente nella falsa sepoltura: certo la prova di quanto affermava il papiro.
Il professore ripete ossessivamente questa frase: “…all’ora in cui Ra-Horakhty sarà al suo apice, fissa lo sguardo del cobra volto in direzione di Osiride e quegli ti rivelerà la via… “.
Credo sia la chiave per risolvere questo rompicapo.
L’americano afferrò il fedora posato sul tavolo accanto al whiskey e se lo mise in testa. Sono noto per il mio scetticismo verso ogni forma di magia o superstizione, continuò versandosi un altro mezzo bicchiere, ma questa convinzione ora vacilla.
Il mito narra che l’Occhio fu inviato da Ra nelle vesti della terribile figlia Sekhmet, “La Potente”, a punire gli uomini che gli si erano ribellati.
Feroce e spietata, quasi sterminò l’intera umanità bruciandola con il suo respiro di fuoco.
L’insolita gravità delle ustioni ritrovate sul corpo di Brown mi ha rammentato quella leggenda e suscitato un brivido di terrore.
Un uomo gli si accostò: – Il professor Jones? Henry Jones Junior?
L’americano annuì portandosi il whiskey alle labbra.
– Vengo dal Dipartimento delle Antichità. Il professor Brown è morto. Prima di spirare ha ripetuto a lungo questa parola: sekhem… Jones trasalì: Potenza!

Racconto di Daniele Bin, illustrazione di Lucia Casavola

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di Angela Borghi

UN DELITTO AVRA’ LUOGO*

Siamo in tanti ad amare le storie di delitti, da quando E.A. Poe, tra i primi a raccontarle e a indicarne i percorsi, inventava gli enigmi di una camera chiusa. È stato un successo in crescendo dalle molte ragioni, riconoscibili già nella definizione di narrativa poliziesca nelle diverse lingue e paesi.

Il noir dei francesi rimanda al fascino oscuro di torbide atmosfere, di ritmi violenti, del sangue che scorre. La parola thriller sa di brivido, di ricerca del pericolo, di emozioni scatenate dalla suspense.

In Italia li chiamiamo gialli, per tradizione, dal colore della copertina di un settimanale che ha quasi cento anni e sembra immortale.

Nei mistery anglo-sassoni protagonista è il mistero. Indispensabile in un buon racconto o romanzo. Un gioco di occultamenti e illuminazioni fino alla rivelazione finale.

La crime story ci ricorda invece che alla base di ogni narrazione del genere c’è il crimine, meglio se uno o più delitti. E’ il delitto che ci attrae e ci interessa, segno della complessità della realtà e del lato oscuro della natura umana.

Ma il giallo è molto di più, contiene interi universi, storia passata e futuro, filosofia e temi sociali, sentimenti e ragione che vince sulla confusione del mondo.

Gli appassionati di storie di delitto e mistero vogliono mettersi alla prova. E’ una prova insidiosa perché si tratta di lanciare una sfida al lettore.

Leggere aiuta chi scrive. Diffidiamo di ricette infallibili: regole per il racconto di genere sono state scritte in passato ma puntualmente disattese da altri autori. Invece suggestioni dalle pagine dei grandi ci guidano a trovare gli ingredienti, gli accordi e i modi della nostra storia “gialla” che, pare incredibile, può essere racchiusa anche in un corto di poco più di duemila battute.

Possiamo imparare a iniziare dal finale senza sentirci eretici, permetterci di scardinare l’aristotelica unità di tempo e di luogo o magari assumere il punto di vista dell’assassino e simpatizzare con lui. Iniziamo i nostri discorsi sul giallo, che speriamo risultino lievi come deve essere la scrittura. Non bisogna dimenticare che, come dice Patricia Highsmith, “scrivere narrativa è un gioco e uno ci si deve divertire”.

*Agatha Christie 1951

Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.


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