L’incipit degli incipit

Ci stiamo presentando e lo dobbiamo fare nel modo giusto. Se andiamo a un colloquio di lavoro pensiamo a come vestirci. Seguiremo le formalità o vogliamo da subito essere noi stessi? Se andiamo a un party presentandoci con i bermuda e a piedi scalzi colpiremo l’attenzione degli invitati oppure faremo la figura dei cretini? E se ci facciamo tante domande per così poco perché non dobbiamo pensare a come presentare fin dall’inizio il nostro lavoro creativo?

Di getto, oppure prima ponderiamo bene la situazione, ma come al solito ci torniamo sopra e analizziamo. L’incipit trascina il lettore. Magari l’abbiamo azzeccato al primo colpo, magari ne proviamo trenta. Pensate al mio amico giornalista e al suo cestino pieno di fogli accartocciati.

Era una bella giornata di sole, come incipit, non va bene, è il più comune dei luoghi comuni. Il divieto è però così categorico? Non ci sono obblighi nella scrittura, ma solo indicazioni. La fantasia di uno scrittore supera ogni ostacolo.

Andate a leggere l’incipit dell’Uomo senza qualità di Musil. In pratica scrive Era una bella giornata di sole, ma lo fa in un modo che possiamo dire geniale. Scherza e prende in giro, trasforma. Se poi pensiamo alla cattedrale che si appresta a scrivere, di nuovo lo trovo geniale per aver iniziato un lavoro di grande impegno, che si propone di scavare nell’animo umano, con il più banale degli incipit, la famosa bella giornata di sole. Se abbiamo bisogno di esempi guardiamo in alto.

Continua il 27 luglio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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“Una bella giornata, Agnese. Da tempo non ci concedevamo una gita in barca. Qui a Villagrazia ho respirato aria buona con te e i nostri figli. La settimana prossima ci torniamo con qualche amico, un pranzo in compagnia. Ti va?” Seduto sul dondolo in terrazza, la testa di lei appoggiata sulla sua spalla, gli occhi socchiusi, respira l’odore del sale tra i capelli ancora umidi dell’ultimo bagno, le sfiora il collo con un bacio e si alza con indolenza domenicale. Ci provano Paolo e Agnese Borsellino a trascorrere una vita normale. “Ora vi riporto a casa e passo a salutare mamma e Rita. È qualche domenica che non ci vado, mi aspettano. Un abbraccio, un caffè e sarò di nuovo da voi”. La moglie lo incalza, la scorta non è adeguata. Lui alza le spalle, non risponde, le sorride. Lo sa. Preferisce non stringere troppo la protezione intorno a sé: il bersaglio può diventare qualcuno della sua famiglia. Scrolla la testa per scacciare il pensiero. Sale in auto il morto che cammina, dead man walking, dice alla scorta. Sottovoce, che Agnese non senta. Sono passati 57 giorni. Li conta: giorni di morte per Giovanni, giorni di vita per lui. Regalati. La mafia non lascia scampo alle vittime designate. È un sopravvissuto. È in pericolo, ma crede nel suo lavoro. La paura non lo condiziona. Si mette alla guida. Non vuole nessuno. Gli agenti lo seguono. Niente sirene spiegate, una passeggiata in silenzio fino a via D’Amelio. L’auto arriva davanti al portone. Uno sguardo veloce con l’occhio abituato a cercare i particolari. Si lamenta a denti stretti. Troppe auto intorno alla casa di sua madre. Aveva chiesto alla Questura di rimuoverle. Erano ancora lì. “Non sarà la mafia a uccidermi, ma i miei colleghi a permettere che ciò accada”. Chiude con cura nella valigetta l’agenda rossa, il prezioso diario con i dati di indagini e riflessioni e scende dall’auto. Deve fare in fretta. Al fianco i giovani Emanuela e Agostino, orgogliosi dell’incarico. Vincenzo, Eddi e Claudio li precedono nel portone. H.16.58: suona il citofono. La Fiat 126 verde, che non doveva essere lì come nessun’altra auto, esplode. Una bomba radiocomandata a distanza. Più di 90kg di tritolo. È l’inferno. Auto distrutte dalle fiamme, gente che urla, corpi dilaniati. Un solo sopravvissuto, l’agente Antonino Vullo. Una tragedia greca, in cui fin dall’inizio incombe l’atmosfera di morte, ma qui manca la catarsi.
19 luglio 1992
È normale che ci sia la paura, ma combattetela con coraggio (Paolo Borsellino)

di Annarosa Confalonieri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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di Maurizio Marchesi

Dicembre 2019: cominciavano ad affacciarsi le prime bugie e le prime verità. Vaghe notizie con aura di mistero e pronunciate a mezza voce, si infiltravano piano nei nostri cervelli, ancora con la sicumera che si stesse parlando di “altri”.

Poi, improvvisamente, con un crescendo degno delle scene culminanti dei grandi film d’azione, ci siamo ritrovati, attoniti, con un Presidente, che alle 23 passate di una qualunque sera di imminente primavera, ci informava che le nostre certezze di una vita, le nostre libertà più naturali e semplici – camminare, mangiare, respirare – erano sospese! Terminate! Finite! Con un colpo di teatro da film di quart’ordine, il mondo come lo conoscevamo, finì: una pandemia generata da un virus, naturale, costruito, fuggito, lasciato fuggire, si stava abbattendo sul mondo!

Prima di tutto questo, eravamo brutti e cattivi. Divisi, opportunisti, ladri e cantastorie. L’occasione, seppur spiacevole, di redimerci era lì, a portata di mano. Nemmeno per idea! I ladri hanno continuato a rubare; i cantastorie hanno continuato ad abbellire le loro storie e i brutti e cattivi sono aumentati a dismisura. Anche dove c’era una parvenza di costruttivo e solido, ci siamo dovuti accorgere, che molto della nostra vita era una recita ben congegnata; che in realtà non c’erano amici; non c’erano ultime speranze a cui aggrapparsi; non c’erano supereroi, che negli ultimi trenta secondi, avrebbero salvato la terra. Eravamo soli.

E dopo milioni di vittime – sia ahimè reali – sia superstiti con la vita o la coscienza spezzate per sempre, dopo tre anni bui – da far invidia al medioevo – ci siamo guardati e ritrovati ancora più soli e senza certezze. Piano piano abbiamo riacquisito o ci siamo ripresi, le nostre libertà. Abbiamo ristabilito, a fatica, un equilibrio precario, almeno quanto prima del disastro. Ora, tutto è tornato normale o abbiamo deciso che doveva tornare normale. Senza colpi di scena a notte inoltrata. In sordina, quasi a sussumere che forse, forse… forse! Adesso magicamente, è tutto a posto. Tutto un ricordo, che non è nemmeno sfociato in pettegoli racconti da bar e cortili di chiacchere.

Quasi a voler dimenticare non solo i drammi, ma anche quanto siamo stati pavidi, vili, deboli. Un po’ tutti noi, anche i migliori – e ce ne sono stati – ma che in qualche ora di quella eternità hanno sentito un piccolo germoglio sfiorire, in fondo all’anima.

Tra poco sarà di nuovo primavera, come “quella” primavera. Pensavamo che “dopo”, tutto sarebbe stato più bello; un nuovo rinascimento. Forse abbiamo perso un’occasione. Speriamo non ce ne siano altre.

Maurizio Marchesi. Ragioniere, marito e padre. Semplice appassionato, scrive da oltre cinquant’anni per sublimare emozioni, entusiasmi e dolori, trasferendoli sulla carta per renderli così, eterni. Ha collezionato diversi premi in concorsi letterari ma non ha mai pubblicato.

Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)


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di Monia Casadei

Sono stata pienamente felice fino a nove anni.

La guerra m’ha ghermita che non avevo dismesso i calzettoni ed i codini.

La prima ad arrivare fu la cavalleria.

Avevano muli, cavalli, carri.

Sembrava un accampamento di gitani in divisa.

All’inizio mi colse uno sbalordimento d’occhi, come di circo allestito in mezzo all’aia.

S’insidiarono da noi per la posizione svettante, una guelfa di zolle a presiedere la valle.

Dopo di loro arrivò il commando radio.

Divenimmo un presidio militarizzato, nostro malgrado. Le galline sgambavano confuse, innervosite dalle strumentazioni spanse nel cortile. Per un po’ smisero di deporre.

Vagavano disordinate, spaesate.

Poi s’abituarono, come noi.

Per cogliere le uova scavalcavo una rete di cavi, di parole incomprensibili.

I soldati mangiavano con noi, dormivano nella stanza di mio fratello, parlavano una lingua tagliente, spigolosa. Non capivamo nulla.

Col tempo furono gli occhi, i gesti ad affratellarci.

Erano giovanissimi, disorientati quanto noi alla fin fine.

Con parole ibride (che non conoscono nazionalità distinte, se non quella che si crea tra profughi d’origini diverse, come eravamo tutti in quel contesto sospeso) ci fecero capire che il nostro rifugio non era sicuro.

Scavammo un recesso più remoto, dove ci rifugiammo poi, salvandoci dall’offesa aerea americana, che, per sgominare il nemico in fuga, non si fece scrupolo di sterminare italiani innocenti, finanche partigiani resistenti. Il giorno di San Pietro le bombe cadevano dal cielo come rovesci.

Sotto la pianta di noce non riuscivo a distogliere lo sguardo.

Sembravano gocce d’oro contro sole.

Ma quando arrivavano a terra radevano al suolo tutto.

S’alzava un fumo disperato da valle, di morte e rovina.

A noi distrussero la casa. Rimase in piedi solo la stalla.

E il cavallo, dentro.

Tremò forte, a lungo.

La guerra ha leggi inumane, per antonomasia. Legittima un’empietà che l’uomo dissimula meglio in tempo di pace.

Le pene dei crimini cambiano in base al contesto.

La pena dei morti e dei superstiti, invece no.

Un vicino sparò a un tedesco introdottosi in cortile per un’operazione di perquisizione.

La regolamentazione di quella guerra voleva che, per ogni tedesco ucciso, venissero sacrificati dieci italiani.

Lo salvò (ci salvò) un conterraneo che intercedesse dichiarando che il colpevole era un mentecatto.

Fortunatamente il soldato in questione non era morto, ma solo ferito. La cosa si risolse lì, raggelante.

Oggi questi racconti sembrano iperboli. Ma basta guardare il telegiornale e li ritroviamo intatti, indeclinabili.

Io piango i miei cari assieme agli ucraini, affratellati.

Piango Dio che ogni volta muore.

Monia Casadei, nata a Cesena, è psicoterapeuta. Scrivere per lei rappresenta una catarsi incoercibile fin dai tempi degli studi classici. Con poesie e racconti consegue il primo premio in diversi concorsi letterari nazionali e internazionali.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Di Gorgio Gino Giunta


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di Alice Mantegazza

Un giorno, all’improvviso, ho capito che cos’è l’amore. Non che io non abbia mai provato prima questo sentimento, ma forse non lo ho mai capito appieno come ora. Certo, mi sono innamorata nella mia vita, come tutti. Prima di un giocattolo, di un cantante, magari anche di un’idea, di un’amicizia, di un ragazzino.

E oggi ho pure al mio fianco un uomo che amo con tutta me stessa. Ma in questi anni, forse, ho semplicemente vissuto l’amore, senza averci mai pensato fino in fondo.

Poi sei nata tu.

Anche qui… amore… amore a prima vista!

Amore nell’accudirti neonata, nel rispondere prontamente ad ogni tuo bisogno.

Amore nel ninnarti e nell’allattarti.

Amore nel leggerti le storie, amore nell’ammirarti mentre dormivi, amore nelle nenie che ti cantavo.

Amore nel vederti crescere.

Amore. E paura. Tanta.

Di perderti. Di vederti soffrire. Di non saperti proteggere.

Poi, l’illuminazione.

Sono al parco con te, bambina mia, che scorrazzi avanti e indietro sulla tua biciclettina rossa.

E all’improvviso mi sono rivista bambina. Mi sono rivista in sella anche io alla mia bicicletta, con la mamma che mi guardava da lontano, seduta sotto l’ombra di un grande albero. Come me bambina, anche tu ora pedali e pedali, veloce come una forsennata, in gara con te stessa e con il tempo. Io ti guardo, col cuore in gola, spaventata per tutta quella velocità. E tu a spingere sui pedali ancora con più forza, come se avessi fretta di arrivare chissà poi dove.

Pedali e pedali e pedali, senza preoccuparti di niente.

D’un tratto perdi il controllo della tua biciclettina. Sbandi di qui e di là, ma non smetti di pedalare.

Inevitabilmente ruzzoli a terra, tu, e la bicicletta con te. Anche tu mamma lo sapevi che sarebbe finita così, quando la piccola ero io. Lo sapevi ma non hai fatto niente.

E io solo ora ho capito il perché.

Ti vedo, bambina mia, lì a terra, con le ginocchia sbucciate, il sangue che cola fino a insanguinare le tue calzine bianche coi volant. Poi vedo una lacrima sul tuo viso. E capisco.

Capisco che non posso preservarti dai fallimenti. Non posso evitarti i dolori e le frustrazioni. Non posso sostituirmi a te perché tu non conosca mai la sofferenza. No. Amare non è questo. Amare è saper tenderti la mano dopo una caduta, dopo averti lasciato provare a farcela da sola sapendo che potrai anche sbagliare.

Amare è esserci sempre ma lasciarti trovare la tua strada. Amare è camminare sempre un passo dietro a te, come un’ombra silenziosa, e asciugare quella lacrima che inevitabilmente ti solcherà il viso, perché di certo piangerai.

E riderai. E cadrai. Ma so che ti rialzerai.

Alice Mantegazza. Nata nel 1976 a Saronno dove vive e lavora come insegnante di scuola d’infanzia. Le piace inventare storie, soprattutto quelle da raccontare ai suoi piccoli alunni.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Di Luigi Stefanazzi

Nelle luminose giornate somale la maestosa Palma, ai miei occhi di bambino, si stagliava gigantesca, mi affascinava, la guardavo da sotto e non ne vedevo la cima per l’imponenza della ramificata chioma.

Ci giocavo vicino e cercavo di abbracciarne invano il possente tronco. Sedevo sotto la sua ombra protettrice e, appoggiato al tronco leggevo, fantasticando sul magico volare di Peter Pan e sulle misteriose profondità marine, violate dal capitan Nemo. Ogni anno attendevo la stagione della nidificazione dei Tessitori che, a stormi si impossessavano del grande isolato albero e per ore osservavo maschi giallo vivo con la testa nera fare la spola fino all’Albero di Fuoco, nel mio giardino, per spogliarlo delle foglie paripennate e portarle sui rami della Palma.

Dopo mille baruffe per i posti migliori, prendevano forma, abilmente intrecciati, nidi tondeggianti aperti verso il basso, nei quali entravano femmine di color giallo smorto mentre incessante era il cinguettio, che aumentava dopo la schiusa e, che via vai per saziare i pulli. Che chiasso poi lo sbatter d’ali degli uccellini che, artigliati al nido, le rinforzavano per i primi voli.

Una mattina, come sempre avveniva, tutto era silenzio, i condomini della Palma erano volati via, restavano solo i nidi che si disfacevano al vento, mentre l’Albero di Fuoco prima di cacciare nuove foglie, fiero del suo contributo, festeggiava il buon esito della nuova covata con una fiammante fioritura, nella quale “mi era dolce il naufragar”, a cavalcioni sui rami più alti.

Nel giardino vi erano Pervinche del Madagascar, Plumerie, Melograni “dai bei vermigli fior” e una Thevetia che faceva da palcoscenico ad acrobatici colibrì che suggevano il nettare dei suoi fiori gialli. C’era poi un alto Ficus dalle grandi foglie sul quale, da adolescente mi arrampicavo fino alla cima, oltre il tetto di casa, per spaziare lo sguardo fin sul vicino villaggio di Tucul.

“Per fare l’albero ci vuole il seme”: era un giardino creato da mio padre in un ambiente semiarido ed il seme di quel giardino era stata la sua passione per gli alberi, questi poi divennero miei quotidiani compagni di gioco, educatori riguardo la sacralità della natura e dell’interdipendenza nell’ecosistema.

Luigi Stefanazzi è nato nel 1949 a Samarate, ove vive. Dall’età di 3 anni a 16 anni ha vissuto in Somalia. Tornato in Italia, dopo gli studi, ha lavorato in banca a Gallarate, Como e Varese. Pensionato, ama la lettura ed il giardinaggio.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Di Stefano Minari

Quel pezzetto di carta dorme appallottolato dentro al cestino da ieri. Il confine fra la felicità e la delusione sta nei pochi centimetri di una strisciolina di cellulosa e non so se buttare tutto nell’immondizia o dichiarare finalmente guerra al me stesso di sempre, timido, bloccato, incapace di fare il primo passo. Dieci cifre scritte su un tovagliolo possono essere la combinazione della cassaforte dove sto rinchiuso, eppure non riesco a decidere se comporle sulla tastiera del cellulare o giocarmele al Lotto, dove forse avrei più possibilità di successo.

Quando Marco mi ha chiesto di partecipare alla cena, per festeggiare i dieci anni dalla maturità, gli ho vomitato addosso un “no” di getto. Chiama proprio lui, a cui ho sognato mille volte di spaccare la faccia in mille modi diversi! Se sono passati anni senza vederci né sentirci, perché mai incontrarsi per ricordare la fine di quello schifo di liceo? Nel frattempo, nessuno ha sentito la mia mancanza ed io ho contraccambiato volentieri.

A casa dei miei c’è ancora l’impronta dei pugni che ho dato al muro dopo una festa di compleanno, maledicendo il mondo e la mia timidezza. Simona era diventata il mio pensiero fisso e Lia, un’amica comune, aveva manipolato il sorteggio dei balli di coppia, per mettermela fra le braccia. Si erano messe d’accordo? Era partito un lento anni ’80, tirato fuori da chissà dove. Le braccia di lei sul collo e gli occhi neri a una spanna dai miei. Un calcio di rigore a porta vuota.

Quel rigore non l’ho calciato. Ormai ho un ricordo frammentario di quel momento, nonostante che mi abbia tenuto compagnia per centinaia di notti. Rivedo solo quello stronzo di Marco che rapisce le mani di lei, appoggiandosele sulle spalle. Ed io lì, in mezzo alla stanza, indeciso se offrire il mio naso ai suoi pugni da rugbista o aprire la porta ed andarmene.

Alla fine ho accettato l’invito, nonostante lo stomaco attorcigliato al pensiero di incontrarla, perché anche se la cicatrice ormai è vecchia, ogni tanto, quando cambia il tempo, si fa ancora sentire. Ci siamo persi a parlare tutta la sera ed ora il suo numero di telefono è là, sepolto nel cestino. Rivedere quegli occhi neri col rimmel che cola sulle guance, mentre mi confida la sua ricerca inutile di un punto fermo, mi ha riportato in quella stanza, con il lento in sottofondo, ma stavolta coi pugni chiusi, pronto a farmi massacrare.

Marco stavolta non c’è. Devo solo dare un pugno a me stesso, digitare per l’ennesima volta quelle dieci cifre e finalmente premere il tasto verde.

Respiro.

Un solo squillo e …: «Ciao Simona, sono Micky. Ti porto a ballare.»

Stefano Minari ha riscoperto da poco la passione per la parola scritta e la voglia di raccontare storie. Quella che nei sogni di ragazzo voleva essere una professione, ora sta rinascendo come fonte di relax e di tante soddisfazioni inaspettate.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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L’INFINITO, non è di facile comprensione

Una parola che da ragazzo non capivo. Faceva paura, l’Infinito. Era ciò che c’era dopo la morte, mentre io volevo solo vivere la vita. Vivere. Vivere, e non morire. 

Poi scoprii che la vita continuava in chi veniva dopo, e allora conveniva essere grandi uomini, generali, presidenti, artisti. Uno scrittore vive sempre, e per questo ancora oggi leggiamo Omero e tutti gli altri.

Ecco il significato di Infinito: continuare a vivere negli uomini.

E quando gli uomini saranno morti tutti quanti?

Continua il 20 luglio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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RACCONTO DI GUERRA AL QUOTIDIANO

Di Pierre Ley

La guerra, o meglio le guerre, costituiscono per noi oramai un consueto sottofondo nel flusso quotidiano dell’informazione globalizzata, quasi fosse un’interferenza fisiologica alla quale ci siamo in qualche modo assuefatti. Per alcuni di noi, però, la guerra è molto più presente: è entrata nelle nostre vite con prepotenza e con tutto il suo corredo di paura e indicibile orrore. Tutti siamo rimasti scioccati dall’inimmaginabile mostruosità dell’attacco del 7 ottobre scorso e dall’inevitabile, spietata ritorsione. E tutti continuiamo a soffrire per le vittime che aumentano di giorno in giorno.

È proprio questa guerra, così orrenda e mediatica, ad essere ora parte anche della mia vita. Lo è, per così dire, per procura: mio fratello, chirurgo ortopedico da sempre impegnato sul fronte umanitario prima a fianco di Gino Strada poi sotto la bandiera del Comitato Internazionale della Croce Rossa, si trova attualmente all’interno della striscia di Gaza. Dal 27 ottobre, giorno in cui è entrato con l’unica équipe medica internazionale arrivata dopo l’inizio del conflitto, la guerra, quella guerra, è diventata una presenza costante anche nella mia quotidianità.

Non è certo la sua prima volta: dall’Afghanistan, alla Sierra Leone, alla Cambogia, all’Etiopia, la lista dei conflitti di cui è stato testimone attivo è lunga, ma mai come oggi aveva visto una tale intensità di fuoco e una tale quantità di morti, feriti e mutilati in così poco tempo e su un territorio così ridotto. Siamo al telefono, come quasi tutti giorni, quando c’è rete. “Li senti? Sono i razzi che stanno lanciando da qui vicino all’ospedale. Tra poco arriverà la replica israeliana, speriamo non ci capiti in testa, anche se ‘loro’ sanno esattamente dove ci troviamo, e la zona di sicurezza è di 150 metri. Capirai. Se cade uno di quei cosi anche a un chilometro qui saltano i vetri! Poco fa è arrivata una di quelle bombe di profondità. Si è sollevato il pavimento della sala operatoria!”. Mio fratello mi racconta così la guerra vera, e la sento come se mi stesse chiamando dal giardino di casa. In sottofondo sento anche i lamenti dei pazienti lasciati senza sedativi o analgesici, perché non ce n’è, e tutti i suoni di un ospedale allo stremo, stipato all’inverosimile.

Quando non è in guerra, siamo soliti scambiarci ricette e foto. Ha voluto farlo anche ora. Da Gaza qualche scatoletta, e le razioni umanitarie che accendono una discussione tra di noi. Vedo sull’etichetta “spaghetti alla bolognese”. “Non esistono gli spaghetti alla bolognese! È un affronto alla tradizione italiana!”, sbotto. Lui ride, “non sono così male. Che dici, vado a lamentarmi?”. Un altro giorno mi manda foto di frutta e verdura fresca appena arrivata dal valico di Rafah. Mi chiama: “mi dici la ricetta della ratatouille di mamma?”. Così inizio a spiegargliela, fornendo anche tutte le circostanze storiche, le similitudini con altri piatti del mediterraneo e di come si preparano. Ne salta fuori una versione fusion, mezza caponata siciliana e mezza ratatouille nizzarda, che battezziamo “ratatouille gazaoui”. Dall’inizio della missione ha perso peso. “L’unica cosa positiva finora” mi dice. Mi manda ogni giorno foto degli interventi, dei suoi casi. Sono abituato, ma sono inguardabili. Queste immagini non si vedranno mai né in televisione né sui giornali, non sono pubblicabili. Ma a qualcuno deve mostrare ciò che vede tutti i giorni, non può tenerselo dentro. Io non ci dormo, ma questa è la guerra, e per qualche momento durante il giorno, anche la mia guerra.

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