di Monia Casadei
Sono stata pienamente felice fino a nove anni.
La guerra m’ha ghermita che non avevo dismesso i calzettoni ed i codini.
La prima ad arrivare fu la cavalleria.
Avevano muli, cavalli, carri.
Sembrava un accampamento di gitani in divisa.
All’inizio mi colse uno sbalordimento d’occhi, come di circo allestito in mezzo all’aia.
S’insidiarono da noi per la posizione svettante, una guelfa di zolle a presiedere la valle.
Dopo di loro arrivò il commando radio.
Divenimmo un presidio militarizzato, nostro malgrado. Le galline sgambavano confuse, innervosite dalle strumentazioni spanse nel cortile. Per un po’ smisero di deporre.
Vagavano disordinate, spaesate.
Poi s’abituarono, come noi.
Per cogliere le uova scavalcavo una rete di cavi, di parole incomprensibili.
I soldati mangiavano con noi, dormivano nella stanza di mio fratello, parlavano una lingua tagliente, spigolosa. Non capivamo nulla.
Col tempo furono gli occhi, i gesti ad affratellarci.
Erano giovanissimi, disorientati quanto noi alla fin fine.
Con parole ibride (che non conoscono nazionalità distinte, se non quella che si crea tra profughi d’origini diverse, come eravamo tutti in quel contesto sospeso) ci fecero capire che il nostro rifugio non era sicuro.
Scavammo un recesso più remoto, dove ci rifugiammo poi, salvandoci dall’offesa aerea americana, che, per sgominare il nemico in fuga, non si fece scrupolo di sterminare italiani innocenti, finanche partigiani resistenti. Il giorno di San Pietro le bombe cadevano dal cielo come rovesci.
Sotto la pianta di noce non riuscivo a distogliere lo sguardo.
Sembravano gocce d’oro contro sole.
Ma quando arrivavano a terra radevano al suolo tutto.
S’alzava un fumo disperato da valle, di morte e rovina.
A noi distrussero la casa. Rimase in piedi solo la stalla.
E il cavallo, dentro.
Tremò forte, a lungo.
La guerra ha leggi inumane, per antonomasia. Legittima un’empietà che l’uomo dissimula meglio in tempo di pace.
Le pene dei crimini cambiano in base al contesto.
La pena dei morti e dei superstiti, invece no.
Un vicino sparò a un tedesco introdottosi in cortile per un’operazione di perquisizione.
La regolamentazione di quella guerra voleva che, per ogni tedesco ucciso, venissero sacrificati dieci italiani.
Lo salvò (ci salvò) un conterraneo che intercedesse dichiarando che il colpevole era un mentecatto.
Fortunatamente il soldato in questione non era morto, ma solo ferito. La cosa si risolse lì, raggelante.
Oggi questi racconti sembrano iperboli. Ma basta guardare il telegiornale e li ritroviamo intatti, indeclinabili.
Io piango i miei cari assieme agli ucraini, affratellati.
Piango Dio che ogni volta muore.
Monia Casadei, nata a Cesena, è psicoterapeuta. Scrivere per lei rappresenta una catarsi incoercibile fin dai tempi degli studi classici. Con poesie e racconti consegue il primo premio in diversi concorsi letterari nazionali e internazionali.
Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)
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