di Ingrid Confalonieri

Scosto la tenda della cucina, è mattina. Molti di noi sono già usciti di casa, chi al lavoro, chi a scuola, accecati da lampade a led. I miei cani raggomitolati come gatti sulla brandina del balcone. Il freddo umido della città li unisce, la coperta in pile arruffata, stanno al caldo. Sollevo gli occhi, cielo grigio oggi, unico spicchio tra i palazzi, grigi pure loro. Le previsioni meteo ci illudono sempre, l’aspettiamo da un po’. Da anni. La neve dell’infanzia, la ricordo e sorrido. Guardo l’orologio. Abitudine. Gli alberi spogli, il vento ha spazzato via le ultime foglie, paiono scheletri. Le siepi sono ancora verdi, lo sono sempre. I pini in giardino soffrono, troppo caldo quest’estate, la poca acqua li ha provati, dovrebbero stare lassù sul Monte Rosa, nel gelido bianco. Mi volto, il calendario è appeso sul fianco del frigorifero, non ho pareti degne di accoglierlo, di carta, nasce da un albero, amico-nemico dello scorrere del tempo, parente lontano del mio orologio elettronico, smart. Uno sguardo fugace alla ricetta del mese riletta mille volte nei trenta giorni passati. Devo voltare pagina, nuovo mese, nuova ricetta, ultima del 2023. Una torta. Tanti giorni rossi! Le feste di Natale si avvicinano. I parenti, gli amici, i regali. Cosa manca, a chi. Cosa serve. Dove. Le clementine nel cartone del supermercato, le ho lasciate al freddo della notte, frutti di piante del caldo sud, a Gianluca piacciono così, ai miei denti no. Faccio entrare i cani. Il maltese, nel cappottino imbottito rosso, ringrazia. Un campanello, il microonde suona, il mio latte è caldo, poco caffè, zucchero di canna, giusto una punta di cucchiaio senza esagerare. Caffè, canna da zucchero, ma come ci sono finiti nel mio latte? Piante nel latte, che bontà. E le clementine dalla Calabria, viaggiano in camion, raccolte immature. Dovremmo tutti avere una pianta del cuore. Che ci faccia stare bene, in sintonia col tempo, il clima e gli umori. Tante nuove piante che ci riportino le stagioni di quando ero bambina. Oggi ci sono bambini che non hanno mai visto la neve, non tanta quanta ne ho vista io, nel 1986! Clic, si accende una luce, un’idea in testa. Il motivo di una canzone che cantavo da piccola, con mia sorella e la mamma. Quest’anno regalerò alberi, ad ognuno il suo. Mi divertirò a sceglierli. Li pianteranno per noi, piccoli semi, e li lasceremo crescere là dove devono stare, dove è giusto che stiano, nella loro terra, bagnati dalle loro acque e riscaldati dal loro sole. Che respirino con noi, per noi. Per il futuro della Terra.

Ingrid Confalonieri. Nata a Milano, classe 1970, vive a Varese, studia e lavora come ragioniera, ma da sempre coltiva una passione per l’arte, la poesia e la letteratura gialla. Amante degli animali e del giardinaggio oggi si diletta a scrivere poesie e racconti brevi.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)


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di Silvia Faini

C’erano giorni, lassù in collina, in cui le raffiche di libeccio erano così forti da far gemere di dolore le canne. La salvia e la lavanda, invece, assaporavano il profumo salmastro del vento che solleticava loro le foglie.

Io – radici salde come funi – me ne stavo piantato in mezzo al giardino, incurante delle folate che mi scompigliavano la chioma e strappavano piccole olive verdi dai rami più esili. Guardavo zia Santa, che usciva in fretta da casa, sprangava le ante e sfiorava con dita premurose i gerani. Aspettavo una sua carezza, che non mancava mai, poi la osservavo rientrare, sedersi accanto alla finestra, inforcare gli occhiali e leggere, lasciandosi andare al sonno, nei pomeriggi afosi, quando attorno al rosmarino in fiore ronzavano ansiose le api.

Dal poggio il mio sguardo si spingeva, oltre il borgo di case in pietra, fino al lecceto, all’uliveto grande e infine al mare, lucente e liscio come seta nei giorni di bonaccia, infuriato e livido nei giorni di maltempo.

Il fuoco, però, non lo vidi arrivare. Lo sentii nell’aria, me lo sussurrarono ginestre e lentischi terrorizzati che avvistarono le lingue rossastre lambire i primi cespugli. Tremavo.

Folle di paura, inerme e impotente, lo guardavo salire, mangiarsi sorbi e allori, carpini e sambuchi. Avrei voluto sradicarmi da lì, fuggire, salvarmi.

Zia Santa, trafelata, i corti capelli bianchi ritti sul capo, pompava l’acqua dalla cisterna e ci bagnava, ci bagnava in continuazione, mormorando fra sé: “Fatevi coraggio, fatevi coraggio”. “Vattene almeno tu!” le gridai, ma lei mi passò accanto, mi accarezzò il tronco nodoso, poi, quasi avesse capito, scosse la testa e mi restò accanto, guardando insieme a me il fuoco che lambiva il borgo, respirando con me l’odore acre del fumo, piangendo.

Inatteso, un frastuono esplose sopra la collina e un enorme elicottero, gravido d’acqua, si precipitò verso le lingue roventi e le annegò in una cascata di pioggia. Zia Santa, stordita e felice, cominciò a ridere asciugandosi le lacrime, poi, con dolcezza, batté la mano sul mio tronco. “Siamo salvi – mi disse infine sospirando – siamo salvi!”.

Silvia Faini ha lavorato come insegnante, traduttrice, redattrice; ha scritto fiabe, racconti, romanzi brevi. Ha partecipato a numerosi concorsi letterari classificandosi al primo posto e ha pubblicato con Mondadori e con editori meno noti.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Il presente microracconto è un tributo a una delle coppie più controverse e mai ufficializzate dall’autrice all’interno del Fandom potteriano: lasciando correre la fantasia a briglia sciolta, Draco Malfoy suona in memoria del suo amore, Hermione Granger, perduta a causa dell’inesorabile. A causa dell’Oscuro Signore.

Di Jessica Tommasi

Sollevò il mento, la cinerea luce ne investì il viso quando dense ombre marcarono i lineamenti del giovane, consunto dal dispiacere.

La tramontana ne sferzò gli zigomi affilati come pugnali, ululò tra i merli del mastio, scompigliò le vesti del pianista. Questi sfiorava con trasporto lo strumento d’ebano: ogni gesto, ogni postura eseguita con plateale austerità.

Per un istante pensò di essere perduto e vacillò, poi però gli sembrò di percepire quell’odore, quell’effluvio di pino. Il ricordo era nitido, un indelebile affresco nel flusso della memoria.

Lame di luce gli offuscavano lo sguardo, colori caleidoscopici giocavano creando riflessi sui propri capelli biondissimi. Ciononostante…

Lei era lì, e ciò era sufficiente.

Lei era lì, avvinghiata a lui sopra una trapunta di aghi secchi. Per Merlino se pungevano la schiena, ma lei era di nuovo lì, con lui, e ciò rappresentava più di quanto avrebbe mai potuto desiderare. Sussurrò qualcosa all’orecchio, quindi baciò le labbra di lei.

Teneri petali vermigli, vellutata materia dei sogni.

«E se dovessi spiccare il volo? Se dovessi raggiungere le stelle, lassù, e unirmi a esse per vegliare su di te?»

La voce riecheggiò carica di turbamento, le braccia risvegliate da un tremito, i riccioli bruni scossi da un Oscuro Presagio. Eppure ebbe la determinazione di stringerlo a sé, annegando nel pregnante profumo di colonia e di verdi mele appena colte.

In quell’algida atmosfera ove tutto è destinato a concludersi o forse a rinascere, v’erano i loro cuori a sancire un ritmo differente: vivace, andante, poi largo e presto.

Battiti che si incespicavano in sinusoidi (im)perfette. «Ti accompagnerei senz’altro. Continuerei a comporre sinfonie che portino il tuo nome. Nel perpetuo perpetrarsi.» Un gufo bubolò in lontananza.

Dischiuse gli occhi, rivelando due abbacinanti acquitrini azzurri, ed ebbe la fugace visuale delle dita in movimento, degli arti in preda alla trascinante passione che nutriva per il pianoforte.

Era come estraniato dal mondo, distaccato dalla mesta, caduca dimensione terrena.

Scrutò gli astri rifulgere nell’incommensurabile volta celeste, al cui confronto ognuno non è che un chicco di miglio, rivolgendo loro una preghiera muta.

Ardono ora le lacrime, tizzoni ardenti, con l’ennesimo cingere d’arti che doni all’atmosfera, l’ennesimo sospiro che vira nel tacito nulla di parole trattenute a stento.

(Soprav)vivi nell’infimo spazio a cui altri ti hanno designato.

La solitudine sarà l’unica ad attenderti, senza sconti di sorta. E in ogni momento una stilla di cadmio liquido lorderà il tuo cuore, reso di fuliggine, goccia dopo goccia.


Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Mita Bolzoni

Morivano tutte all’ombra delle nostre foglie.

Si accovacciavano senza un lamento e lasciavano che la vita le abbandonasse.

Nessuno riusciva a capire perché.

Noi potevamo solo custodire tra i rami il silenzio che le avvolgeva e le conduceva lontano, nel posto da cui nessuno torna. Vennero uomini vestiti di bianco, parlavano sottovoce, compievano i pazienti gesti necessari per scoprire le cause, per rimuovere i corpi che di giorno in giorno aumentavano. Anch’essi godevano della nostra ombra, nel duro lavoro senza risposte.

La recinzione che proteggeva la riserva, di cui gli uomini vestiti di bianco andavano fieri, in quei giorni finì per delimitare un misterioso inferno.

Sono state avvelenate, dicevano, qualcuno vuole distruggere il nostro paradiso.

Le nostre foglie oscillavano giocose nel breve vento del mattino, cullando i loro dubbi rabbiosi.

Intanto i corpi si ammucchiavano con solenne dolcezza ogni notte, sotto una stupefatta luna, poggiando le lucide schiene ai nostri tronchi nodosi, tentennando le grandi corna ritorte, guardando un punto distante.

Indagarono, capirono, non era come sospettavano.

Nessun bracconiere le aveva avvelenate, i loro stomaci erano risultati vuoti.

Le antilopi si erano lasciate morire di fame.

Fu così che la recinzione del paradiso cominciò ad essere guardata con occhi nuovi, perché avrebbe dovuto preservarle da ogni pericolo ma si era rivelata la loro tomba.

Erano morte le antilopi, sempre di più, erano morte ai nostri piedi e nessuno aveva potuto fare nulla.

Tra i nostri rami restava impigliato soltanto il loro ultimo desiderio: fuggire.

Ma anche noi non possiamo fuggire, siamo alberi di acacia, e le antilopi prigioniere in quel paradiso non facevano che nutrirsi di noi, continuamente.

Non avevamo scelta, dovevamo difenderci.

Le nostre foglie predate oltremisura reagirono producendo tannino, che le rese impossibili da digerire, mentre dai nostri pori si sprigionava rapido il gas etilene, che raggiunse le nostre sorelle e le avvertì del pericolo, cosicché anch’esse potessero difendersi nello stesso modo.

La tossina aumentava nelle foglie, ogni giorno di più. Nessuno poteva fermarci, eccetto le antilopi, che avrebbero potuto bloccare la produzione di tannino semplicemente spostandosi a cercare altre piante.

Ma non potevano.

Prigioniere della riserva, si nutrirono di noi finché capirono che eravamo cambiate.

Allora pur di sfuggire al veleno si lasciarono morire di fame. Cadevano all’ombra delle nostre foglie, cercando con gli occhi umidi alberi irraggiungibili, che crescono solo dove la terra è libera.

Mita Bolzoni è nata a Como il 24 giugno 1970. Si occupa di teatro, scrittura e pittura. Il lavoro sul corpo in scena guida e ispira anche i suoi racconti e i suoi quadri. Vive sulle montagne del Lario e la natura è la sua fonte di ispirazione quotidiana.

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di Alda M.C. Torri

Boschina di Crenna, autunno 1996 Mi trovo in tinello nella casa dei nonni di Sabrina. Ho un piano decorato di foto, tre cassetti e due sportelli. Tazze da tè, pacchetti di biscotti, bicchieri di ogni tipo e una grappa al miele all’interno delle ante. In un cassetto ci sono i centrini lavorati a uncinetto dalla nonna, bottoni e delle lettere. Nell’ altro si mescolano i coltellini da intaglio, le sigarette e altre cianfrusaglie del nonno.

Nel cassetto centrale c’è il mio segreto.

I nonni non riescono ad aprirlo. Non possono. Hanno smesso di provarci e ritengono che sia bello così. Nonna Vittoria ha avvitato un pomello in rame con al centro un cuoricino azzurro smaltato. Ora è perfetto.

Il mio destino va oltre all’immaginazione, perché io, in realtà, non sono ciò che si vede in questa casa.

Primavera 1973

Sabrina è una bimba di otto anni e vive dai nonni in campagna. Gioca in solitudine, disegna o lavora a maglia con la nonna sempre all’ombra di un maestoso albero di noce, vicino alla casa di Vittoria e Dino.

Si accuccia tra le radici del fusto e racconta all’albero tutto quello che le passa per il cuore. Il noce l’ascolta e lei percepisce le sue risposte. Gli anni passano, Sabrina cresce, il mondo intorno è cambiato e un po’ lo teme. Una delle certezze, che vibra nella sua anima, è la pace che avverte tra le fronde, i malli e l’ombra del suo albero di noce.

Quella pianta sono io.

Estate 1994 In un afoso lunedì Sabrina cammina in città e una macchina non la vede. Ci vorrà più di un anno per recuperare i danni subiti. Durante la convalescenza torna sempre nel mio abbraccio e le sue lacrime si confondono tra questi forti rami. Una notte, però, la mia sorte arriva violenta. Il temporale si abbatte per la campagna e un fulmine mi squarcia il tronco. Il fuoco è stato un’implosione dolorosa. Nonno Dino mette insieme quello che rimane di me e costruisce ciò che sono ora. Non è possibile, tuttavia, aprire il cassetto centrale. È lo spazio sacro del segreto che devo custodire.

Inverno 1997

Una sera Sabrina coglie il mio richiamo.

Si avvicina e con delicatezza disegna i contorni del cuore inciso sul pomello. Guidata dalla nostra magia, prova a tirare il cassetto che si apre. Trova un pacchetto di carta velina nel quale è avvolto il maglioncino fatto da lei tre anni prima e che, da allora, è sparito. Lo stringe stretto al cuore.

Capisce che dal giorno dell’incidente lo spirito del suo bambino ha dimorato nell’albero tanto adorato, il Signore delle Drupe.

Sente l’amore pervadere ovunque in un intenso profumo di mallo e ritrova la pace.

Alda M.C.Torri, 56 anni, vive in provincia di Varese. Ama disegnare e scrivere. Nel 1990 vince un concorso con la raccolta di poesie “L’epopea dell’illimite ” edito da Lalli Editore. Scrive di sogni, stranezze e ironiche avventure per chi ha voglia di stupirsi e di essere imprevedibile.

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di Sabrina Colombo

Da qualche anno mi racconti di te, di quanto tu sia infelice e delusa.

Hai condiviso le tue emozioni in una primitiva rabbia ma poi sei sempre tornata la donna piena di attenzioni che un tempo mi teneva tra le mani e che, con un piccolo gesto d’amore, mi ha fatto fiorire.

Mi hai curato e potato con immenso rispetto. Sapevi sempre quale era la cosa giusta da fare fino a trasformarmi, con una fitta chioma, in un bellissimo faggio.

Nei lunghi anni passati insieme mi abbracciavi ed io, con movimento impercettibile, mi muovevo nell’aria per avvicinarmi a te con ogni piccola frasca.

Meditavamo insieme e mentre sentivi la musica delle foglie mi sussurravi che ero il tuo maestro. Il tuo respiro è diventato il mio e nel mio c’era il respiro della vita.

Un rumore assordante mi fa sussultare e sento svanire il leggero ed universale filo di unione tra me e gli altri alberi del bosco.

Non posso più tenerti all’ombra dei miei rami perché sono stato abbattuto da chi pensa di averne il diritto.

Ora non sono altro che un foglio di carta, dedicami ancora le tue più intime emozioni e magari scrivi una lettera d’amore, per me.

Sabrina Colombo ama stare nella natura, osservarne i dettagli e ascoltare il suo silenzio. Disegna e dipinge ma le sue passioni più grandi sono la cucina e la fotografia.

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Di Anna Di Narda

La maniglia girò lentamente senza fare rumore, la porta d’ingresso si schiuse lasciando fuori la notte giovane e argentata. Mi infilai nell’ ingresso odoroso di fumo come un fantasma, una creatura angosciata che voleva nascondersi. Puzzavo di vomito e vergogna. Non so se quest’ultima abbia veramente un odore, non lo saprò mai, ma io me la sentivo addosso: qualcosa di dolciastro e acre al tempo stesso! Ti vidi riflessa nello specchio vicino alla porta del bagno. Non mi colpì solo l’innaturalezza della tua posizione, qualcosa brillava alla luce gialla dell’abat-jour. Una lacrima si faceva strada, piccola e luminosa, là dove le ciglia si diradano e lo smeraldo dei tuoi occhi si accende. L’immagine mi si stampò in fondo alla cornea, attraversò il nervo ottico e si riprodusse nel mio cervello: fu come ricevere un pugno diritto nello stomaco, un colpo basso inatteso, una realtà che volevo dimenticare, stordendomi di fumo e alcool. Da maledetto giocatore d’azzardo incallito, per quattro assi avevo venduto tutto: la mia casa, il mio matrimonio, la mia vita. Mi ero umiliato elemosinando soldi, costringendoti a fare più lavori per pagare l’affitto. Tu, che non meritavi uno come me, incapace di vincere la sua ingorda speranza!  Perché in fondo noi non facciamo altro che credere che la prossima volta andrà bene, che non è possibile che vada ancora male. L’attesa, è il tormento più grande. Non t’importa neppure che carte usciranno nella prossima mano, se tu chiuderai una volta per tutte i sospesi. No! Nella tua mente sei impegnato a pensare dove trovare altri soldi, dove giocarli e con chi!”. “Vale ancora la pena di vivere? Che domande ti fai Gino, certo che vale – mi risposi senza pensarci su. “Ma c’è qualcosa di strano! Giada è troppo tranquilla, non ha alzato lo sguardo pur avendoti sentito – continuai a dirmi. Ero sicuro di questo ci avrei scommesso una mano a poker persino!  Ma non avevo più nulla da dare in pegno, nulla! Mi ero giocato la nostra utilitaria il giorno prima e quella sera chiesto un prestito al “Nero” un personaggio che speculava sulle dipendenze altrui. “Cinquecento euro e a fine serata te ne do mille”! – lo avevo supplicato a lungo. E lui a non crederci e io a promettere, a dare il mio indirizzo di casa, a giurare che mia moglie aveva i soldi nel cassetto, lo stipendio appena riscosso! Neppure i vermi strisciano così in basso. L’ho fatto e all’una di notte ero fuori dal “Chris” disperato che piangevo come da bambino quando vedevo mio padre lanciare piatti e stoviglie, assestare due sberle a mamma e a me e poi sbattere la porta di casa diretto al pub. “Non diventerò mai come lui” – avevo giurato a me stesso! Sulla soglia della camera, i capelli appiccicati al viso, ti guardai. Fu allora che mi accorsi di cosa nascondevi nell’incavo fiorato del copriletto, tra le ginocchia: la mia berretta di guardia giurata, per anni custodita in cassaforte era tra le tue mani, puntata verso me. Sorrisi, alzai le braccia quasi a schernirti, ma tu non dicesti nulla. Silenzio… e solo quel clic, un piccolo rumore a finire la mia vita all’improvviso, come quando nei film appare la scritta “End” mentre ci aspettiamo una spiegazione, un chiarimento, vogliamo ancora capire. “Non che non me lo fossi meritato!” – pensai e negli occhi mi rimase quell’ultima immagine: un grande squarcio attraversava il cassetto bianco accanto al letto, come se qualcuno con forza lo avesse sfondato!

Anna Di Narda, impegnata nel sociale e innamorata del suo Friuli e dell’Italia, scrive in italiano e in friulano. Ha pubblicato poesie e racconti, e il suo primo romanzo “Storie ordinarie di donne straordinarie” nelle Edizioni La Gru. Ultimamente “I colori del tuo amore”.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Di Alberto Oggero

Fianchi larghi, carnagione chiara e sguardo sensuale. Gli parve una bella donna, d’altri tempi, fiera della sua corona e del suo scettro, ma incurante del tributo di sangue di milioni.      Rivolse lo sguardo verso l’enorme cono di pacchi argentati. Impilati uno sopra all’altro con su il logo di un noto stilista, al centro dell’ottagono piuttosto che un albero di Natale, erano un monumento alla decadenza occidentale. Guardò nuovamente la rappresentazione dell’Europa che adornava la lunetta e gli sembrò decente. Fu solo un attimo.

     Fece scivolare il cappuccio del parka sulla testa rasata prima di farsi largo tra la folla frenetica d’acquisti, ennesimo insulto alla spiritualità che gli ortodossi a differenza di altri, erano stati in grado di proteggere. 

     Si infilò le mani in tasca, aprendo e chiudendo ritmicamente i pugni per riscaldarle. Non era certo il freddo al quale era abituato, ma anche quello di Milano si faceva sentire.

    Non si ricordò di quando viveva al paese, in Friuli. Non si ricordò delle giornate trascorse a spaccarsi la schiena nella segheria di famiglia, e dei momenti di svago al bar, sempre più frequentato da gente diversa che non si sapeva da dove arrivasse.

    Non si ricordò di quando in paese in tanti lo schernivano per la sua balbuzie, sostenendo che parlasse peggio di tutti quelli là. Non si ricordò di quando sua madre l’aveva lasciato, solo nella solitudine.   

     Si ricordò invece dei suoi compagni, dei momenti trascorsi insieme nella neve e nel fango, delle difficoltà e della paura. Si sentì fiero, ma durò poco. Il volto di quell’uomo gli apparve chiaro agli occhi della mente. Sentì una vampata di calore, il cuore a mille, e per un attimo gli mancò il respiro.

    Si ricordò della trincea, nel Donbass, di quando baionetta in canna, era corso avanti urlando, come gli avevano insegnato. Si ricordò dell’odore dell’erba quando si era trovato per la prima volta faccia a faccia con il nemico, più giovane di lui, la mimetica nuova e la fascia azzurra al braccio. Il ragazzo inciampando era caduto rovinosamente a terra, offrendogli la preziosa opportunità. Rivide gli occhi azzurri che lo fissavano. Si ricordò del sudore che gli aveva pervaso le mani, dei muscoli bloccati nel gesto di affondare la baionetta. Si ricordò di non essere stato all’altezza. Si ricordò di non essere stato capace ad uccidere.

    Da quel giorno i suoi commilitoni avevano preso a chiamarlo “Il dolce italiano”, parole quelle che non gli avrebbero più dato pace.

   Scomparve tra la gente mentre la Madonnina, impassibile, risplendeva di luce lassù sulla Guglia Maggiore. Non era scomparso nessuno.

Alberto Oggero è un esperto di politica e sicurezza internazionale. Inter alia, è stato funzionario del Servizio Diplomatico UE e della NATO. Ha lavorato nei Balcani, Turchia, territori Palestinesi, Cina e Belgio dove vive e lavora al momento.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)


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Di Ilaria Mainardi

La porta del vecchio bistrot era quasi del tutto scolorita. Resisteva un pizzico di rosso sulla cornice superiore. Era stata risparmiata dalle intemperie grazie alla preminenza di una tettoia, fissata appena sopra, sul resto della soglia. E poi si notava qualche screziatura bluastra, virata ormai al grigio antracite, intorno al pomello d’apertura. La conformazione casuale delle scrostature di vernice imprimeva sull’impiallacciato il senso di macchie di Rorschach: pianeti ignoti all’astrofisica, continenti sommersi, l’Isola del Diavolo, che assomiglia a un cucchiaino da tè. La donna entrò, lasciandosi dietro una brutta giornata. Si sedette nel posto di sempre e ordinò un caffè lungo. Non aveva mai notato che sul ripiano alto dei liquori stava incastrato un piccolo mappamondo le cui condizioni non erano troppo migliori di quelle degli infissi.

«Quello? Eh, quello me lo ha regalato un viaggiatore. Saranno… quarant’anni, almeno. Se esci di qua e vai verso la fontana, ecco, lì c’era una specie di ritrovo di camminatori, gente che abbandonava le strade come le speranze, ma non si perdeva d’animo. C’erano parecchi rifugi come quelli lungo il fiume.» Il proprietario agguantò uno sgabello e solo una volta sopra si rese conto che una delle gambe era più corta delle altre di almeno un paio di centimetri. Imprecò, ma riuscì ad agguantare il suo reperto.

L’ellissoide di legno, imbrunito dal tempo, emanava un intenso odore di alcol, che copriva a stento quello di muffa. La donna fece un respiro profondo. L’asse doveva essersi cementato per le incrostazioni. Forse invece era colpa di alcune schegge rialzate che ne inibivano il movimento: per risolvere l’empasse galileiano si correva il rischio di ferirsi. Tanto valeva accettare il fatto che la terra non girasse più intorno al sole, almeno non in quel bistrot di provincia. Il viaggiatore aveva segnato delle croci rosse in corrispondenza di ogni luogo che aveva visitato (o che avrebbe voluto visitare, chi lo sa).

«Sembra una costellazione di viaggi. Non ti sembra la forma di Orione, questa?»

«No, no, stai a sentire, la particolarità è dentro. Non mi dire che non si riesce ad aprirlo da sotto… dai qua, fai vedere.» All’interno del mappamondo era conservato un foglietto ripiegato in due parti. Giallo, rigido: dalla cellulosa era nata una pietra graffiata dall’inchiostro, rosso, come le croci. Le parole non si leggevano più, scolorite, ammucchiate, quasi un cimelio svanito fra i recessi della memoria.

La donna si terse gli occhi umidi e provò da sola a decifrare l’enigma: “amore mio, ci rivediamo su Rigel”.

Ilaria Mainardi è nata e vive a Pisa, ma grazie a viaggi mentali si sente cosmopolita. Passioni: calcio e cinema. Ha pubblicato libri di narrativa, anche per ragazzi e bambini, e saggistica. Pep Guardiola e Quentin Tarantino l’aspettano da tempo.

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Di Davide Di Lorenzo

La domenica sera muoio sempre.

Risorgo il lunedì mattina. Preparo il caffè anche se la caffettiera è guasta. Forse sono guasta io. Ho dei crampi strani al mignolo del piede. Fumo imbronciata sul balconcino la prima sigaretta. Valuto lo stato dei lavori del cantiere che mi sta di fronte. Vorrei scriverti a che punto sono, è da tempo che non dormi da me.

Ho pochi giorni di vita. Questa settimana mi pare interminabile. Domani sarà martedì e mi farà male la stanza. Mi farà male guardare dalla finestra. Mi farà male vedere i bambini andare a scuola, gli universitari all’università, la gente fare la spesa. Avranno tutti un posto e soltanto io non saprò dove andare. Sono disabituata a un’esistenza taciturna. Sono disincantata senza i tuoi lamenti. Era ciò che mi dava motivo di arrabbiarmi, di distinguermi a prescindere, di piangere senza lacrimare.

Mercoledì lavorerò ma non lavorerò, penserò alle tue smagliature. Ricorderò i suoni di cui hai cosparso il mio cuscino negli ultimi mesi, gli odori che hai impresso sugli asciugamani. Camminerò per quattro ore al giorno. Quando mi farà male camminare mi fermerò e prenderò l’autobus, se passerà. Pulirò il bagno in maniera maniacale. Non riconoscerò i miei capelli. Lavorerò ma non lavorerò. Presentarmi sarà doloroso e faranno tutti finta di niente. Sorriderò, poi spegnerò le luci e smetterò di colpo. Le proiezioni dei miei desideri saranno talmente deboli che mi coprirà il buio. Mi addormenterò. Anche questa notte sarà solo mia.

Giovedì le strade diventeranno immense. Eviterò i marciapiedi per dare senso alla mia passeggiata. Alle otto di sera sentirò il primo freddo e indosserò il primo cappotto. Sarò felice. Imparerò ad amare i miei capelli e berrò quel vino rosso che piace soltanto a me.

Mi sveglieranno i muratori venerdì mattina. Non avrò dormito neanche un secondo. Ti scriverò, ti aggiornerò sullo stato dei lavori del cantiere.

Sabato andrò al mare da sola. I passi affonderanno sulla sabbia tiepida. Piangerò senza lacrimare. Cercherò di non far uscire nemmeno mezza lacrima. I miei pensieri cesseranno. Mi dirò che la mia rabbia non mi appartiene, che odio te in quanto me e me in quanto te, che voglio stare da sola anche se non so più se so farlo, ma soprattutto che tutto ciò non è un problema. Io non sono un problema.

Domenica ci vedremo per cinque, sei ore, troppo poco per parlare, abbastanza per tacere, tenerci per mano, guardarci negli occhi. Nel pomeriggio ti lascerò di nuovo. Mi convincerò di aver fatto la scelta giusta. Avrò dei crampi strani al mignolo. La sera morirò.

La domenica sera muoio sempre.

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