Di Andrea Bardelli

L’acqua bolliva sul fornello, le uova strapazzate sfrigolavano sulla padella, e per la casa si spandeva un odore agrodolce. Nella stanza accanto Joseph dormiva ancora, e dalla cucina Anna poteva sentire il suo respiro regolare, come di chi dorme un sonno senza sogni.

Sorrise tra sé, pensando a tutte le volte che il figlio si era svegliato di soprassalto in preda all’angoscia; con passi misurati si avvicinò alla porta e lo chiamò con un sussurro di voce. Le dispiaceva svegliarlo, ma era giorno di scuola.

Dopo aver fatto colazione, uscirono insieme per prendere il solito autobus che li avrebbe portati in piazza Khaimson dove si trovava la scuola. La luce dei lampioni illuminava ancora la strada.

L’autobus arrivò puntuale e loro presero posto uno accanto all’altro, di fianco all’autista. Lei aprì il giornale che aveva appena comprato all’edicola lì vicino e si immerse nella lettura, mentre suo figlio teneva la testa piegata sul cellulare. Nell’articolo in prima pagina un esperto di intelligence elencava alcuni elementi che lasciavano presagire una ripresa dei lanci di missili dalla striscia di Gaza verso Askelon. Alzò la testa dal giornale e fissò per un attimo Joseph, e un brivido freddo le corse lungo la schiena. Quella guerra le pareva sempre piu’ assurda e il suo lavoro era lì a provarlo, perché lei, maestra elementare, sperimentava ogni giorno la possibile convivenza tra bambini ebrei e palestinesi.

Chiuse il giornale e guardò le villette con piscina che componevano l’insediamento israeliano appena costruito nel territorio occupato. La giornata si preannunciava calda per essere nel mese di novembre e nulla lasciava intuire una ripresa del conflitto.

Arrivati alla fermata, scesero dal bus, e dopo un bacio veloce – Joseph non amava che lei facesse effusioni in pubblico – si separarono, ognuno diretto alla propria scuola.

Guardò l’orologio e si accorse che era in ritardo. Affrettò il passo e non si avvide di una buca nel terreno, che era ricoperta dalle foglie cadute dagli alberi. Il piede destro sprofondò nella piccola voragine, e la caviglia si girò in modo innaturale. Avvertì subito un dolore lancinante e cadde a terra. Si prese la caviglia tra le mani, e restò immobile ad occhi chiusi, mentre due lacrime le rigavano il volto. Quando alzò lo sguardo, la prima cosa che vide furono due occhi neri che la fissavano incorniciati da una Kefiah. Era sul punto di cacciare un urlo di terrore quando l’uomo le sorrise e allungò una mano nella sua direzione, e lei per la prima volta non ebbe paura. Il sole stava sorgendo all’orizzonte.

Andrea Bardelli, di origini lombardo-venete, è nato a Varese, e risiede ad Albizzate. Ama i cantautori degli anni Sessanta, leggere e camminare. Ultimamente ha scritto “Il pianto del capitano”, poesie di colore nerazzurro, con prefazione di Gianfelice Facchetti.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)


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di Carlo Battaglini

Prima dell’alba il cielo si capovolse; poche stelle vi palpitavano, liberate di tanto in tanto da nuvole invisibili. Il soldato Rudy le guardò attraverso la pioggia di polvere, e le vide lontane, sconosciute. Non aveva mai guardato davvero il cielo, non aveva mai avuto bisogno di sperare in qualcosa. E ora aveva fallito: per la prima volta non si era accorto di una mina, forse perché pensava a lei.

Lei.

Lei era salva; per la prima volta Rudy si era ribellato al comandante Rugoj che voleva mandarla a esplorare il campo minato sulla strada del plotone sovietico diretto verso l’Hindu Kush Afgano, dove stavano le statue del Buddha di Bamiyan.

“Sono la nostra storia…” aveva detto Rugoj parlandone.

La nostra storia.

No. La storia di Rudy era l’essere stanco di quel cerchio vizioso di guerra eterna che lo riportava sempre sopra un campo minato, sempre più stanco, più vecchio, più ignaro del futuro, almeno fino a quando lei gli aveva rivelato di avere in grembo i suoi figli. Il suo futuro. Il loro segreto.

Rugoj guardò Rudy rantolare. Non sapeva se fosse più scosso dalla sua morte o dalla sua prima disubbidienza. Era come se Rudy avesse avuto una premonizione e si fosse sacrificato per Laika. Ma perché? Rugoj li aveva addestrati a non provare emozioni, né soprattutto sentimenti. E ora scopriva che nessuno, neanche lui, l’inflessibile capitano Rugoj, ne era immune. Ripensò a Rudy quando era un cucciolo, e a quando divenne il migliore del gruppo cinofilo di sminamento. Tornò a guardare la piantagione di morte che andava illuminandosi, e la vide sfocata. Ebbe un attimo di distrazione, e Laika ne approfittò per sfuggirgli, per correre verso Rudy. E Rugoj capì. E non fece nulla se non rivolgere gli occhi al cielo, dove le stelle avevano lasciato il posto a scie rosse, come se anche il sole fosse perito di morte violenta.

Sul campo minato, ormai vicina a Rudy, Laika venne presa dal panico: anche la distanza più breve è un viaggio se ogni millimetro corrisponde a un respiro. Lanciò un ululato disperato, di terrore indomabile. La paura di perdere i figli vinceva sul desiderio di toccarne il padre.

“Non piangere amore mio,” mugolò Rudy. Non voleva andarsene con quel guaito nelle orecchie.

Non piangere.

Aveva bisogno del silenzio, per sperare: i suoi figli avrebbero dovuto guardare le stelle, sapere che possono caderti addosso come fiocchi di neve, una dopo l’altra, insieme ai ricordi e alle speranze.

Non dovevano morire come lui. Non avrebbero mai dovuto vedere il cielo capovolgersi.

Carlo Battaglini nasce a Milano il 23 maggio 1960. Si laurea in geologia nel 1985. Lavora in tutta Italia, ma perde la vista nel 2017. Scrive da sempre. Finalista in vari Premi Letterari, ne vince tre. Ha pubblicato racconti, articoli e un romanzo.

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Di Mario Trapletti

Era lì che annaspava in un incubo: alberi d’ogni genere e forma, tutti mostruosamente giganteschi, lo inseguivano in una spaventosa sarabanda. Al pari di ciclopici ragni ubriachi, agitavano scomposti i grovigli delle poderose radici.

Per buona fortuna, il loro disarticolato agitarsi ne frenava l’impeto, li faceva cozzare l’un contro l’altro, producendo un frastuono infernale, nel quale a stento si potevano distinguere le imprecazioni e le terrificanti minacce profferite da quei dinosauri vegetali.

Un incubo martellante che innescava aritmie tachicardiche nel petto della preda. Non sapeva, non capiva perché quegli alberi dalle dimensioni iperboliche ce l’avessero tanto con lui, perché lo inseguivano minacciosi e inferociti. In fin dei conti, lui era solo il progettista della nuova megalopoli modello che sarebbe stata edificata al posto di una inutile e antiestetica foresta. Il mondo era pieno di piante, per lo più inutili: che cambiava se ne avessero tolte di mezzo pochi milioni?

Era stata questa frase, pronunciata durante la posa di una simbolica prima pietra al limitare della foresta, a scatenare quella specie di Armageddon vegetale. Si era udito un tuono composto di mille, un milione di orrendi tuoni, e subito dopo si era materializzata quella armata Brancaleone composta da simulacri dei mitici Ent di tolkiana memoria, ma ben più veloci. L’incubo aveva preso forma e gambe, e aveva iniziato, scomposto e truculento come solo sanno esserlo gli incubi, a dargli la caccia senza tregua. Percepiva fisicamente il loro odio viscoso; il loro sbraitare frondoso gli sbrodolava su tutto il corpo schizzi di linfa appiccicaticcia. Li sentiva, quei leviatani di terra, percuotere il suolo con la monumentalità dei loro tronchi smisurati, facendolo vibrare come un moto perpetuo sismico.

Il bilioso astio vegetale gli rosicchiava, inesorabile, centimetro dopo centimetro. Avesse perseverato a fuggire in linea retta l’avrebbero raggiunto ben prima di attingere l’infinito. Se voleva sopravvivere almeno fino al giorno dell’inaugurazione del suo sogno megalopolitano, non aveva scelta: doveva riuscire a seminare l’esercito forestale.

E mentre l’incubo dentro di lui si dilatava fino ad accartocciargli i polmoni, ecco che, con mosse fulminee da vero stratega, riusciva a seminarli, ma più lui li seminava, più quelli aumentavano di numero. Lui li seminava, e loro crescevano, crescevano e si moltiplicavano… un vero incubo!

Sergio Endrigo si svegliò madido di sudore, e però aveva trovato il verso che gli mancava:

per fare l’albero ci vuole il seme

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Di Echo Ranzoni

Ha le mani premute sull’erba e la nuca bagnata dalla rugiada. Sdraiato, dorme, con la bocca leggermente aperta. Sopra di lui il cielo è dell’azzurro limpido che hanno le giornate di primavera. Il suo viso pallido risplende ai raggi del sole.

Dorme tranquillo, nel pieno del pomeriggio. Chi lo conosce direbbe che questo è un evento raro. Lui è sempre in movimento, sempre indaffarato. Sua madre lo ripete a chiunque voglia prestarle orecchio: i suoi primi passi lui li ha fatti correndo. E la corsa, fin dal nono mese di vita, è diventata il suo tratto di riconoscimento.

Anche per questo alcuni mesi fa gli è stato chiesto di supportare il suo paese, di agire a favore della libertà. Lui ha accettato questo impegno, con l’istinto di proteggere chi ama ogni giorno più forte, e nel giro di poche settimane è diventato una parte importante della sua comunità.

Ora lo conoscono tutti, “il velocista” lo chiamano. Che porti pane o munizioni poco importa, saperlo tornato a casa sano e salvo è sufficiente a far tirare un sospiro di sollievo a chi gli vuole bene. La sera le storie che si raccontano ai più piccoli hanno lui come protagonista; raccontano di come si prenda gioco della Milizia e sia più veloce persino delle pallottole. A lui essere lodato però non importa. Pensa solo a svolgere il suo compito e a quello che gli è stato portato via. Ci sono cose che gli mancano più di altre, come la sambuca fatta fermentare dalla vicina di casa, il rumore delle macine a lavoro, le primule di fine marzo tra i capelli di sua sorella.

Se solo aprisse gli occhi vedrebbe alcune primule crescere timide vicino alle sue scarpe consumate e si ricorderebbe di quei momenti lontani. Ma lui dorme. I nuovi odori della primavera non gli pizzicano il naso, il canto del codirosso non può dargli fastidio. Indossa abiti stropicciati da ragazzo e un fazzoletto intorno al collo. Ha due buchi rossi nel petto, leggermente a sinistra.

Echo Ranzoni è un designer grafico con un’infinita passione per l’arte in tutte le sue forme. Ha pubblicato alcuni racconti su riviste e antologie indipendenti, partecipando negli anni a diversi concorsi letterari. Echo è fatto della terra sulla quale è cresciuto, che cerca di portare in ogni suo racconto.

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di Roberto Filippini

La nostra valle è nascosta tra montagne incredibili per bellezza, un luogo sereno dove i fiumi intrecciano i loro percorsi e gli abitanti condividono segreti.

Alfio fu l’unico a combattere nel primo conflitto mondiale, e per la nostra piccola comunità la guerra era tutta nei suoi racconti. Ma gli uomini che gestiscono il potere non amano la pace e così alla prima seguì una seconda guerra, con bombardamenti sulle città e sui civili. Ogni luogo, anche il più isolato, fu in pericolo.

Un giorno, nell’aria frizzante che annunciava la primavera, il rombo sordo di aerei distanti spezzò la quiete. Il cielo, abituato alle danze di falchi e poiane, si macchiò di scie sinistre. “Sono solo di passaggio” disse Alfio, con la sua faccia triste che era l’immagine della sofferenza patita in guerra.

Aveva ragione, erano di passaggio. Un aereo però, come un uccello predatore, lasciò cadere una bomba. La chiesa, simbolo della nostra comunità, le case adiacenti e il parco dove giocavano i bambini, si trasformarono in labirinti di polvere e disperazione. Il cielo si coprì di cenere.

Tra le macerie, una giovane donna, Giulia, cercava il figlioletto. “Luigino! Luigino!” La sua voce fu una lama di dolore in tutta la valle.

I giorni passarono e divennero memoria. Il corpicino di Luigino giace ora in una piccola tomba, accanto ad altre di soldati morti al fronte.

Il paese ha ripreso la vita semplice di tutti i giorni, fatta di lavoro, sacrificio e gioie inaspettate.

Giulia vive nel ricordo, dentro di sé forse non aspetta altro di morire e raggiungere Luigino in cielo.

Il suo amore di madre oltraggiato dalla guerra è per tutti noi una ferita, una storia vera che non dà pace. Ognuno la tiene nascosta in sé, in un segreto condiviso.

Roberto Filippini, ingegnere meccanico, di norma scrive rapporti di carattere tecnico-industriale. Sportivo, pratica il kite surf sul lago di Como. Prima o poi ne scriverà un racconto

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di Susanna Fontana

Non parlare amica mia, non parlare.

Cosa credi, che io non lo sappia? Lui pronuncia parole di un copione già scritto e recitato chissà quante volte, con chissà quante donne. Il suo viso è un palcoscenico, le sue lacrime sono attricette di terza fila.

Si diverte a guadagnare terreno di giorno in giorno. A sentirsi padrone della scena, a conquistare il pubblico, una spettatrice alla volta, un applauso di cosce dopo l’altro. Probabilmente è matto o soffre di un disturbo bipolare. Se non mi trovano più, sappi che è stato lui. Cercami sotto le assi del suo laboratorio. Ma pensi che m’importi, amica mia? Se morire è il prezzo da pagare per sentirsi vivi, apro il portafoglio del mio petto. Prenditi cura dei miei affetti. Inventa bugie, non dire loro la verità, cosa se ne farebbero? La verità è sopravvalutata, non farli soffrire.

Stai calmo cuore mio, stai calmo.

Lo so che non vuoi sentire ragioni. Ti capisco, stai stretto nel mio petto. Batti forte per uscire e urlare al mondo il mio desiderio. Ma tu il tuo posto ce l’hai. È lì che devi stare. In fondo, dove vorresti andare? Non conosci neanche la strada. Non sai niente di lui. E lui non chiede mai niente di te. Non gli importa chi sei realmente, cosa fai, dove vivi, qual è la tua storia. Sei un organo pulsante come tanti altri. E lui, giocoliere, ti afferra, ti stringe nella mano e ti fa volare in alto insieme a loro.

Non dirglielo voce mia, non dirglielo.

Non dirgli che quando senti la sua, di voce, vorresti urlare mentre lui ti sussurra nelle orecchie. Ma non puoi, e allora il tuo grido si fa liquido e, invece di essere una lacrima, diventa nettare. Lo sento anche adesso, scivola giù come un fiume caldo che vorrebbe raggiungerlo. Il profumo è così intenso che si sente a distanza. Quando cammino per strada, tutti lo sentono, gli uomini si voltano e vorrebbero bermi con lo sguardo. Ma è tutto per lui. Che è qui con me, adesso. Sente l’odore sulle mie dita. Gliele spalmo piano sul suo viso, gli disegno una lacrima, mentre avvicino la mia bocca alla sua. Ma non lo bacio, ancora, no, passo i polpastrelli umidi sui contorni delle sue labbra, per fargli bere di me. Lui è ancora quasi immobile, totalmente rapito, non può fare niente finché io non lo libero. La mia coscia si apre per offrirsi a lui, il resto della gamba lo avvinghia ai fianchi e poi…

Urla pure voce mia, urla pure fino all’ultima fila.

Susanna Fontana. Si è laureata con una tesi sui titoli di testa cinematografici, e da allora è sia attratta che nauseata dal mondo del marketing e della comunicazione, settore nel quale lavora da 15 anni. Sostiene l’antispecismo e sogna un castello con 40 cani.

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Di Gianfranco Casadei.

La sirena sega l’aria. Sorpresi, i pochi passanti si allarmano agli improvvisi colpi dell’artiglieria antiaerea che rivelano l’imminente sopraggiungere dei bombardieri. Neppure l’elemosina dei pochi spiccioli di tempo concessi di solito per cercare riparo.

Maria non è pratica di quella parte di città. Si guarda attorno smarrita. La mano che si era ritrovata aggrappata ai capelli la lascia scivolare sino al collo. Catenina e santa medaglietta sono al loro posto. Trascina il suo bambinetto quasi fosse una sporta al braccio. Gli altri, sino a poco prima sulla sua stessa strada, sono svaniti in tane a loro soli note, senza che lei sia riuscita a seguirli. Ognuno per sé.

Il passo si affretta in corsa verso una chiesa. Ha il portone serrato. Stringe forte la mano del piccolo e con l’altra batte il pugno sul legno fino a farsi male. Nessuno ad aprire, nessuno. Anche così questo portale, con la sua imponente cornice di pietra, promette una qualche protezione. Maria stipa il bambino nell’angolo tra il portone e la pietra. Gli dà le spalle, si accuccia e gli fa scudo col corpo premendo più che può contro quello del figlio, offrendo il petto allo spazio aperto della via. Se ci sarà da correre potrà capire al volo in quale direzione.

Lo sconquasso delle bombe sembra svolgersi non troppo vicino. Solo qualche esplosione le fa tremare la terra sotto i piedi. Nell’aria passano sbuffi rabbiosi di polvere e calcinacci. Dietro di sé un violento boato col suo rude scossone. Qualche maceria precipita dal fronte della chiesa proprio ai suoi piedi. Una fortuna averla trovata chiusa.

Allo spegnersi del caos gli echi di quel frastuono si ostinano ad affollarle le orecchie.

Finalmente silenzio. Silenzio che in tempo di guerra sembra quasi la pace. Maria attende un po’ prima di credere che tutto, almeno per ora, sia davvero terminato. Aggiusta alla meglio per il figlio una coperta di rassicurazioni ma non osa staccarsi dalla sua posizione, il sostegno di quel contatto schiena a schiena, così aderente al suo bambino, sta confortando anche lei.

Allunga lo sguardo verso il cielo e nelle due direzioni della strada. Tutto tranquillo. Si gira verso il piccolo, è stato proprio bravo, irrequieto com’è, a restare così buono e in silenzio, fermo.

Immobile. Inchiodato da una scheggia volata dall’interno della chiesa a schiantarsi contro il portone. Capace di trafiggerne il legno massiccio. Capace di trafiggere la carne di un bambino.

Gianfranco Casadei. Architetto urbanista ed esperto di turismo, da sempre coltiva l’amore per lo scrivere, specialmente la divulgazione storica “Guida all’architettura del ventennio” per Legambiente-ER e la narrativa “A noi toccò la guerra” per l’ANMIG di Ravenna. (Presente in antologia anche con vignetta).

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Di Fabrizio Tummolillo

Quando voglio parlare con mia figlia vengo qui, alla panchina sotto quest’albero. Mi siedo e attendo che si alzi un po’ di vento. È necessario che si muova l’aria ma basta anche la brezza della sera.So no le foglie a formulare le parole ma è l’aria a portarmele. Credo funzioni in questo modo.

Non è un albero qualsiasi. È un acero di monte. Non lo sapevo, me l’ha detto il mio amico Remo.

Al vivaista avevo chiesto un albero qualunque purché avesse cinque anni d’età. Non sembrava capire la richiesta. Ha fatto storie poi me ne ha mostrato uno. “Questo è nato da seme cinque anni fa”. “Lo compro”.

“Il nome scientifico è “Acer pseudoplatanus” mi ha spiegato Remo. Lui se ne intende. “Trascorrerai le giornate alla sua ombra, fra qualche anno” ha aggiunto. Poi mi ha dato una pacca leggera sulla spalla, come un incoraggiamento. Siamo andati a piantarlo in un campo in fondo alla sua proprietà in collina. Le prime volte passavo da casa ad avvisarlo che venivo da mia figlia. Mi ha detto di non preoccuparmi, di non stare a dirglielo ogni volta.

Tempo dopo ha messo la panchina. È sempre stato un amico. Mia figlia aveva cinque anni. Per questo ho insistito con il vivaista: era nata lo stesso anno dell’albero che volevo comprare.

Le sue ceneri le ho poggiate nella buca, vicino alle radici. Ho ricoperto di terra e Remo ha dato l’acqua.

Basta una brezza leggera e riesco a sentirla. Stasera le sto chiedendo scusa per quella volta che l’ho sgridata fino a farla piangere. Aveva sbriciolato il sigaro lasciato sulla scrivania per dopo cena. “Non pensarci, papà. Non avere rimorsi. Eri stanco, avevi lavorato tutto il giorno”.

Sono passati quindici anni da quando ho piantato l’acero. In questo tempo la sua voce è diventata quella di un’adolescente poi di ragazza poi di una giovane donna.

“Non preoccuparti. Davvero. Ti voglio bene, papà”. “Anch’io”. Oggi con le sue parole il vento ha portato un seme. Sembrava una piccola elica, è sceso ruotando su se stesso. “È la samara, il frutto dell’acero di monte – ha detto Remo quando gliel’ho mostrato -. Ognuna contiene due semi. La forma permette al vento di portarle lontane”.

Invece a me era scesa nel palmo della mano e questo mi ha fatto impressione perché se l’avessi piantata in un vaso e poi in terra come ha consigliato Remo, se me ne fossi preso cura, sarebbe nato un nuovo acero e tutto questo sembrava avere senso compiuto, come un cerchio che si chiude, per farmi fare pace con il padre che non sono riuscito a essere, per lasciare fluire le cose. Con leggerezza, come l’abbraccio dato a quell’albero prima di andarmene sentendoci dentro il respiro di mia figlia.

Fabrizio Tummolillo è nato nel 1970 a Milano. Vive nel Piacentino con moglie e figli. Lavora come educatore ed è giornalista professionista anche se ormai l’unico editore che ne pubblica gli articoli è il prete del paese sul bollettino parrocchiale.

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di Anna Ditta

“Questa è la volta buona, dopo tanto rimandare”: l’ho appena pensato che il medico – ne ho scelto appositamente uno giovane che non conosco – mi dice di togliermi il maglione e accomodarmi sul lettino e allora mi viene di nuovo quell’istinto di fuggire via con una scusa, come è successo le ultime tre volte, e così da sdraiata, mentre il dottore districa i fili elettrici del macchinario, penso già a quando si chiederà il motivo per cui le mie lacrime continuano a scendere durante un esame semplice e indolore come l’elettrocardiogramma, che mica è un’estrazione dentale, e poi allo sguardo di compassione che mi rivolgerà quando leggerà nitide sul tracciato le condizioni precarie in cui mi trovo – e intanto lui mi disinfetta le zone interessate, suscitandomi un brivido di freddo che però è niente rispetto al ghiaccio degli elettrodi attaccati a ventosa sotto e sopra il seno, e alle pinse sulle caviglie e intorno ai polsi, ed ecco che di colpo realizzo che non posso più alzarmi, sono costretta a stare qui e tanto vale stringere i denti, ma non posso controllare la testa, quella va proprio dove non deve andare, a questi identici gesti che lui – e lui solo – ha fatto con me tante di quelle volte in questi trent’anni, e io – che sciocca – mai a pensare che potesse farli un giorno qualcun altro, mai a prepararmi all’evenienza di perderlo, e a quella battuta – sempre la stessa – che faceva ogni volta: “Signora, mi pare evidente che il suo cuore batte molto forte per qualcuno qui presente” e allora io restando seria gli rispondevo che era colpa del mio cardiologo che mi faceva incazzare troppo e da troppi anni – che a pensarci adesso quelle parole me le inghiottirei, le manderei giù per questa gola che ora è stretta, e non ci passerebbe neanche uno spillo – e mannaggia a questa fissa per i controlli, perché nella vita non si sa mai, e dopotutto mica è servito tutto questo scrupolo quando si è trattato di te, che sei sempre stato attento a prevenire ma poi sei finito sotto una macchina che correva all’impazzata e niente, tutto è finito così di colpo, ma ecco che anche il dottorino qui ha finito, ed è evidente che si è accorto di qualcosa: “Non so come dirglielo, signora…il suo cuore non c’è, semplicemente non esiste più” e io, che in fondo lo sapevo, gli rispondo calma: “Lo sospettavo, ma io devo vivere, sa dottore, per i ragazzi”, lui sta quasi per parlare ma poi non dice altro e capisco che non c’è proprio niente che si possa aggiungere, allora mi alzo e ora è come se ci conoscessimo da moltissimo tempo, quindi gli stringo la mano e vado via.

Anna Ditta. Giornalista siciliana, vive a Roma. È autrice dei libri “Belice” (Infinito edizioni, 2018) e “Hotel Penicillina”, con M. Passaro e A. Turchi (2020). Dal 2023 cura il progetto di approfondimento letterario “WeltLit. – Letteratura oltre ogni confine”.

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di Daniele Crotti

Aveva parlato con sei persone in tutta la settimana: tre al mercato, una il giovedì e una il sabato al bar. Con il prete, la domenica mattina. Ascoltò persino le letture dal Vangelo, cosa che non faceva mai. Quando andava a messa con Ingrid, durante la predica si distraeva contemplando gli affreschi sul soffitto. Uscito dalla chiesa raggiunse il parcheggio. Aveva smesso di piovere, faceva freddo. Paolo salì in auto, prese una penna dalla giacca e scrisse qualcosa sulla pelle del sedile vuoto alla sua destra, quello di Ingrid. Poi accese il motore. L’aria calda cominciò a invadere lo spazio sotto i pedali. Si diresse verso il lago. Lungo la strada c’erano solo foglie schiacciate a terra oltre il ciglio dell’asfalto. Nel tragitto diede qualche occhiata ai fiori autunnali nei giardini. A Ingrid piacevano le ninfee bianche che affioravano sul lago dopo l’estate. E così, da ormai tre anni, lui gliele lasciava tutte le mattine nel campo vicino ai tigli. Dopo una curva, Paolo imboccò la stradina che portava all’approdo per le barche. Il piccolo molo di legno sembrava l’ingresso dell’albergo in cui l’aveva conosciuta. Allora spinse il piede destro, per non fare tardi. E fu come entrare dalla grande porta girevole di vetri e legno lucido. Paolo aveva con sé ancora qualche banconota. Bastavano per la stanza e un paio di whisky. Il resto lo aveva usato per i fiori di Ingrid, adagiati sui sedili posteriori. Ninfee bianche, naturalmente. Come tutte le mattine. Il tettuccio cerato dell’auto cominciò a sfondarsi e l’acqua torbida filtrò velocemente. – Mamma mia, che disastro, – pensò Paolo, – chissà cosa pagherò di riparazione: i vetri, il tetto, e anche dallo sterzo entra l’acqua… -. Ma l’albergo era così bello che non ci pensò troppo. Un cliente al bar somigliava a suo fratello. Faceva battute a voce alta, quindi non poteva essere lui. Due ragazze salivano dalle scale, con l’aria stanca, ma ridendo fra loro. Le luci nel salone, quadri e cornici d’oro sulle pareti. Come quella sera di tanti anni prima, quando conobbe Ingrid. In abito lungo, mentre il pianista suonava. Sentì allora un facchino che lo chiamava e lui capì che la camera era pronta. Salì le scale verso la stanza in cui aveva baciato la sua Ingrid per la prima volta, così forte da far arrossire anche la Luna. – Guarda quanto lago che entra. Chissà cosa costerà riparare tutto. Chissà cosa dirà Ingrid… – pensò Paolo prima che l’acqua sempre più buia lo avvolgesse. Dai sedili posteriori, una foglia si staccò da una ninfea bianca e gli passò sul viso. Pareva una carezza.

Daniele Crotti è un ricercatore universitario in Economia, con la passione per le arti espressive. Quelle che liberano l’energia e la poesia dentro noi stessi. Musica jazz e racconti fulminanti sono le cose di cui si nutre con maggior curiosità.

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