Di Giuseppe Geneletti

Israele ha uno dei sistemi di intelligence più avanzati al mondo. Come è possibile che sia stato sorpreso dall’attacco di Hamas con una dimensione mai vista prima? Essendo la narrativa il primo obiettivo militare dei tempi moderni, sembra che il vero scopo dell’attacco terroristico di Hamas sia infrangere il mito della supposta invincibilità israeliana. Data l’infinita disparità di forze in campo, anche un esito limitato può essere considerato un successo capace di infiammare le velleità e il sostegno degli attori geopolitici ostili ad Israele.

Israele ha visibilità ovunque nel mondo e si muove per proteggere i propri civili e interessi. Ma ha un buco nero, la Striscia di Gaza. La più grande “prigione” del mondo, un rettangolo costiero di 360 chilometri quadrati (il doppio del comune di Milano), è abitata da 2 milioni di persone e completamente controllata da Hamas. È il braccio palestinese dei Fratelli Musulmani, un’organizzazione fondamentalista araba presente in vari Paesi, che si propone di combattere Israele con attentati terroristici.

La striscia è una spina conficcata nella parte sudoccidentale di Israele, come, paradossalmente, Israele è un cuneo della civiltà occidentale nel cuore del mondo arabo. Israele controlla lo spazio aereo e i confini marini e terrestri della striscia (tranne per il tratto egiziano), isolandola dal resto del mondo. La permeabilità della Striscia non è, però, zero. In superficie, ogni giorno migliaia di palestinesi vanno a lavorare in Israele e gli aiuti umanitari fluiscono dentro i territori. Sotto la superficie, inoltre, una rete di cunicoli collega internamente la striscia, estendendosi sotto il territorio dello stato ebraico. Sono strutture che hanno origine negli anni ’80 per facilitare i traffici illeciti e superare i vincoli dell’asfissiante controllo militare israeliano.

I tunnel hanno giocato un ruolo importante nell’effetto sorpresa dell’attacco dell’7 ottobre, fornendo basi logistiche per occultare la gran quantità di missili e gli spostamenti delle milizie. Pur essendo noti e sorvegliati da tempo, forse proprio per questo sono stati ritenuti non letali.

Due ricercatrici qualche anno fa analizzarono il fenomeno dei tunnel costruiti da Hamas per penetrare anche in territorio israeliano. Nicole Watkins e Alenia James hanno studiato lo sforzo sorprendente per realizzarli, concludendo: “Strutturalmente i tunnel sono ben costruiti e hanno permesso ad Hamas di portare a termine varie operazioni di attacco alle postazioni delle Forze di Difesa Israeliane.

L’idea che il gruppo sia stato capace di infliggere un danno, fisico, psicologico o politico, potrebbe essere considerato un successo”.

Israele non è stata a guardare. Come riporta Il Post: “Nel corso degli anni per Hamas divenne sempre più difficile costruire tunnel in territorio israeliano, anche perché Israele iniziò a progettare un muro sotterraneo, in cemento, per circondare la Striscia. Il muro è stato completato a marzo 2021: non si conosce la profondità esatta a cui arriva, ma i giornali israeliani hanno parlato di ‘decine di metri’. Israele sta inoltre costruendo ulteriori barriere in superficie lungo il percorso del muro sotterraneo, come una recinzione alta sei metri, che si estende per 65 chilometri”.

Tutto necessario e insufficiente. Mentre i servizi israeliani e italiani affondavano tragicamente lontano da casa nelle acque del lago Maggiore, brindando al successo di un’operazione anti-iraniana, lo Stato degli Ayatollah stava disegnando una micidiale mossa sullo scacchiere domestico.

Giuseppe Geneletti è un giornalista pubblicista, associato alla redazione di VareseNews.it. Esperto di cambiamento organizzativo e innovazione, pubblica settimanalmente su temi di attualità economica, sociale e di interesse locale.

Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)


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di Maurizio Marchesi

Dicembre 2019: cominciavano ad affacciarsi le prime bugie e le prime verità. Vaghe notizie con aura di mistero e pronunciate a mezza voce, si infiltravano piano nei nostri cervelli, ancora con la sicumera che si stesse parlando di “altri”.

Poi, improvvisamente, con un crescendo degno delle scene culminanti dei grandi film d’azione, ci siamo ritrovati, attoniti, con un Presidente, che alle 23 passate di una qualunque sera di imminente primavera, ci informava che le nostre certezze di una vita, le nostre libertà più naturali e semplici – camminare, mangiare, respirare – erano sospese! Terminate! Finite! Con un colpo di teatro da film di quart’ordine, il mondo come lo conoscevamo, finì: una pandemia generata da un virus, naturale, costruito, fuggito, lasciato fuggire, si stava abbattendo sul mondo!

Prima di tutto questo, eravamo brutti e cattivi. Divisi, opportunisti, ladri e cantastorie. L’occasione, seppur spiacevole, di redimerci era lì, a portata di mano. Nemmeno per idea! I ladri hanno continuato a rubare; i cantastorie hanno continuato ad abbellire le loro storie e i brutti e cattivi sono aumentati a dismisura. Anche dove c’era una parvenza di costruttivo e solido, ci siamo dovuti accorgere, che molto della nostra vita era una recita ben congegnata; che in realtà non c’erano amici; non c’erano ultime speranze a cui aggrapparsi; non c’erano supereroi, che negli ultimi trenta secondi, avrebbero salvato la terra. Eravamo soli.

E dopo milioni di vittime – sia ahimè reali – sia superstiti con la vita o la coscienza spezzate per sempre, dopo tre anni bui – da far invidia al medioevo – ci siamo guardati e ritrovati ancora più soli e senza certezze. Piano piano abbiamo riacquisito o ci siamo ripresi, le nostre libertà. Abbiamo ristabilito, a fatica, un equilibrio precario, almeno quanto prima del disastro. Ora, tutto è tornato normale o abbiamo deciso che doveva tornare normale. Senza colpi di scena a notte inoltrata. In sordina, quasi a sussumere che forse, forse… forse! Adesso magicamente, è tutto a posto. Tutto un ricordo, che non è nemmeno sfociato in pettegoli racconti da bar e cortili di chiacchere.

Quasi a voler dimenticare non solo i drammi, ma anche quanto siamo stati pavidi, vili, deboli. Un po’ tutti noi, anche i migliori – e ce ne sono stati – ma che in qualche ora di quella eternità hanno sentito un piccolo germoglio sfiorire, in fondo all’anima.

Tra poco sarà di nuovo primavera, come “quella” primavera. Pensavamo che “dopo”, tutto sarebbe stato più bello; un nuovo rinascimento. Forse abbiamo perso un’occasione. Speriamo non ce ne siano altre.

Maurizio Marchesi. Ragioniere, marito e padre. Semplice appassionato, scrive da oltre cinquant’anni per sublimare emozioni, entusiasmi e dolori, trasferendoli sulla carta per renderli così, eterni. Ha collezionato diversi premi in concorsi letterari ma non ha mai pubblicato.

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RACCONTO DI GUERRA AL QUOTIDIANO

Di Pierre Ley

La guerra, o meglio le guerre, costituiscono per noi oramai un consueto sottofondo nel flusso quotidiano dell’informazione globalizzata, quasi fosse un’interferenza fisiologica alla quale ci siamo in qualche modo assuefatti. Per alcuni di noi, però, la guerra è molto più presente: è entrata nelle nostre vite con prepotenza e con tutto il suo corredo di paura e indicibile orrore. Tutti siamo rimasti scioccati dall’inimmaginabile mostruosità dell’attacco del 7 ottobre scorso e dall’inevitabile, spietata ritorsione. E tutti continuiamo a soffrire per le vittime che aumentano di giorno in giorno.

È proprio questa guerra, così orrenda e mediatica, ad essere ora parte anche della mia vita. Lo è, per così dire, per procura: mio fratello, chirurgo ortopedico da sempre impegnato sul fronte umanitario prima a fianco di Gino Strada poi sotto la bandiera del Comitato Internazionale della Croce Rossa, si trova attualmente all’interno della striscia di Gaza. Dal 27 ottobre, giorno in cui è entrato con l’unica équipe medica internazionale arrivata dopo l’inizio del conflitto, la guerra, quella guerra, è diventata una presenza costante anche nella mia quotidianità.

Non è certo la sua prima volta: dall’Afghanistan, alla Sierra Leone, alla Cambogia, all’Etiopia, la lista dei conflitti di cui è stato testimone attivo è lunga, ma mai come oggi aveva visto una tale intensità di fuoco e una tale quantità di morti, feriti e mutilati in così poco tempo e su un territorio così ridotto. Siamo al telefono, come quasi tutti giorni, quando c’è rete. “Li senti? Sono i razzi che stanno lanciando da qui vicino all’ospedale. Tra poco arriverà la replica israeliana, speriamo non ci capiti in testa, anche se ‘loro’ sanno esattamente dove ci troviamo, e la zona di sicurezza è di 150 metri. Capirai. Se cade uno di quei cosi anche a un chilometro qui saltano i vetri! Poco fa è arrivata una di quelle bombe di profondità. Si è sollevato il pavimento della sala operatoria!”. Mio fratello mi racconta così la guerra vera, e la sento come se mi stesse chiamando dal giardino di casa. In sottofondo sento anche i lamenti dei pazienti lasciati senza sedativi o analgesici, perché non ce n’è, e tutti i suoni di un ospedale allo stremo, stipato all’inverosimile.

Quando non è in guerra, siamo soliti scambiarci ricette e foto. Ha voluto farlo anche ora. Da Gaza qualche scatoletta, e le razioni umanitarie che accendono una discussione tra di noi. Vedo sull’etichetta “spaghetti alla bolognese”. “Non esistono gli spaghetti alla bolognese! È un affronto alla tradizione italiana!”, sbotto. Lui ride, “non sono così male. Che dici, vado a lamentarmi?”. Un altro giorno mi manda foto di frutta e verdura fresca appena arrivata dal valico di Rafah. Mi chiama: “mi dici la ricetta della ratatouille di mamma?”. Così inizio a spiegargliela, fornendo anche tutte le circostanze storiche, le similitudini con altri piatti del mediterraneo e di come si preparano. Ne salta fuori una versione fusion, mezza caponata siciliana e mezza ratatouille nizzarda, che battezziamo “ratatouille gazaoui”. Dall’inizio della missione ha perso peso. “L’unica cosa positiva finora” mi dice. Mi manda ogni giorno foto degli interventi, dei suoi casi. Sono abituato, ma sono inguardabili. Queste immagini non si vedranno mai né in televisione né sui giornali, non sono pubblicabili. Ma a qualcuno deve mostrare ciò che vede tutti i giorni, non può tenerselo dentro. Io non ci dormo, ma questa è la guerra, e per qualche momento durante il giorno, anche la mia guerra.

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LEZIONE DALLA PANDEMIA COVID-19

Di Giuseppe Geneletti

Cosa avremmo fatto o sarebbe accaduto nelle nostre vite senza la pandemia? Non è certo presto per una riflessione personale in merito.

Forse non avremmo cambiato casa, conosciuto persone ora importanti, iniziato una nuova sfida professionale, chiuso l’attività di famiglia, smesso di fare i pendolari o di fumare. Io non avrei cambiato città, non lavorerei da remoto, non starei così tanto in famiglia, avrei viaggiato di più, ma incontrato meno persone online.

A livello globale, l’isolamento fisico di Vladimir Putin, ossessionato dal rischio di contagio, e l’aridità delle comunicazioni diplomatiche esclusivamente a distanza, forse hanno contribuito all’invasione russa in Ucraina. I colli di bottiglia delle catene di approvvigionamento globali non si sarebbero manifestati con l’intensità e longevità che ancora oggi condizionano gli scambi internazionali. Non lo sapremo mai con certezza, perché non c’è la prova del contrario. 

Abbiamo forse riscoperto l’importanza della salute, dei legami familiari, delle relazioni con le persone che contano, a volte troppo tardi. Abbiamo imparato che non si può dare per scontata la libertà di movimento e di lavoro, il diritto alla privacy e alle cure. Credevamo che non fosse possibile fare scostamenti di bilancio oltre il 3% in Europa. Invece sono arrivate risorse con così tanti zeri che quasi ogni mese ci sono decreti che valgono come una finanziaria dei tempi pre-Covid. Abbiamo riconfermato le nostre profonde differenze e divisioni sociali. Qualcuno, che era già forte prima, ha trovato il modo di avvantaggiarsi, qualcuno, che era già sull’orlo del precipizio, è andato a picco. In generale si è acuita la polarizzazione, le differenze tra chi ha e chi non ha più, e non ne può più. Possiamo iniziare a metabolizzare se la pandemia ha modificato il nostro pensiero. Cosa crediamo sia essenziale nella vita. Se ci fidiamo degli altri, delle istituzioni, della scienza. Possiamo riflettere su come abbiamo cambiato idea nel tempo. Quali dubbi abbiamo sciolto e quali rimangono dilemmi. Abbiamo imparato che le vaccinazioni funzionano, ma non durano per sempre; che il tasso di mortalità dipende dalla capacità delle terapie intensive, che alcuni ospedali non avevano nemmeno; abbiamo imparato che la pandemia non uccide solo gli anziani e i malati. È stato un tempo straniante e inatteso, con alcuni più scettici e cinici, altri spaventati e arroccati, altri ancora impermeabili e intoccabili.

Sarebbe stato meglio che non ci fosse, ma dato che c’è stata, meglio cercare di trasformarla in un’opportunità. Come canta Bruce Springsteen: “Se la vita non ti dà altro che limoni, fai della limonata”. Spesso ci attardiamo in un tempo che non esiste più o ancora. Il tempo della vita è il presente: l’attimo in cui decidiamo chi siamo, cosa vogliamo e lo mettiamo in pratica, liberandoci dai fantasmi del passato e dribblando le nuvole che oscurano il futuro. Se c’è una lezione che il Covid-19 ha offerto a tutti è che l’ora d’oro è ora. Quell’idea nel cassetto per una vita più felice, tiriamola fuori; quel gesto di unione con il prossimo, che abbiamo ignorato sul lavoro, nel vicinato, nella famiglia, intraprendiamolo con fiducia; quel ringraziamento interiore per tutto quello che la vita ci offre, esprimiamolo con gioia. Il passato ci fagocita col rammarico. Il futuro ci spaventa con l’indeterminatezza. In un mondo in cui sembra che la velocità sia tutto, il tempismo vale molto di più. Cogliere l’attimo è il nostro potere magico.

Il tempo è tutto attaccato

Natale Geneletti (mio papà)

Giuseppe Geneletti è un giornalista pubblicista, associato alla redazione di VareseNews.it. Esperto di cambiamento organizzativo e innovazione, pubblica settimanalmente su temi di attualità economica, sociale e di interesse locale.

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E I “DIRITTI SENZA PACE”

di Davide Maria De Filippi

Per andare alla radice dell’attuale situazione di urgenza e di fatica nella realizzazione della pace in Ucraina dovremmo partire dall’analizzare il complesso rapporto tra guerra e pacifismo.

Pacifismo e pacificazione sono le due facce di un’unica medaglia il cui fulcro centrale è, da sempre, la storia dell’idea che la “guerra giusta” non esista.

Oggi la “pace spezzata” non è il vero problema dell’Unione Europea perché il suo vero problema è la “pace impossibile”.

Per poter ambire ad una “pace per tutti” urgerebbe l’instaurazione di un “nuovo umanesimo” basato proprio sui concetti di pace e di giustizia.

La vera “patologia” della contemporaneità, oggi, infatti, è l’evoluzione etica delle istituzioni politiche e del loro patrimonio valoriale, come la vera “sfida politica” è tradurre l’assioma che segue la linea che parte dal Kant, del “Progetto per una pace perpetua”, e passa per il Kelsen, de “Il problema della sovranità”.

Il processo di democratizzazione del sistema internazionale, tappa fondamentale per il raggiungimento della “pace perpetua”, non può discostarsi dalla “cura” di questa “patologia” in una dimensione sovranazionale.

La guerra in Ucraina ha bisogno “dell’astratto” perché essa stessa, almeno nella modernità, scaturisce “dall’astratto” poiché altro non è che una “rivolta” compiuta contro “l’immanente”, contro uno “stato di cose” ed un “determinato” stato dei fatti.

Le organizzazioni delle Nazioni Unite si sono poste, a salvaguardia dello “jus gentium” proprio per evitare che la guerra diventasse una aggressione immotivata che calpestasse il diritto internazionale che, nella contemporaneità, ha sostituito il cosiddetto “vincolo religioso”.

Effettuare una riflessione sul senso della pace necessita inevitabilmente farne anche una sul concetto di “spiritualità di guerra” interrogandosi sul senso ultimo di cosa, realmente, rappresentino la spiritualità e la pace.

La pace, quindi, come “il risultato” della priorità delle esigenze spirituali su quelle materiali e sulle disuguaglianze sociali, vere “radici” dei conflitti moderni.

Effettuare una riflessione sul “senso” della pace e della spiritualità non può, pertanto, che partire proprio dal concetto di “vivere in uno spirito di cooperazione e di servizio”, condotta che, da sola, potrà cambiare le coscienze e riuscire a trasformare il mondo intorno a noi.

Compiere un atto gentile e disinteressato ha sempre un impatto enorme, anche se semplice, perché il potere accumulato da questi “gesti invisibili di servizio” potrebbe definire l’intera vita di una persona, lasciando “le cose” in una condizione migliore di quella di partenza.

I due polmoni d’Europa, Mosca e Roma, hanno avuto, negli anni scorsi, davanti a loro l’occasione di ricomporre la secolare frattura fra occidente ed oriente cristiano, nonostante i peculiari caratteri dell’identità e della geopolitica ortodossa.

L’ennesima occasione, ad oggi, purtroppo, mancata con una faglia che si allarga sempre di più giorno dopo giorno, esplosione dopo esplosione, vittima dopo vittima. La realtà, purtroppo, è sempre quella e continuerà ad esserla anche dopo che il “teatrino del bene” avrà chiuso il sipario. Perché la società alla fine è solo un gioco le cui regole sono scritte nel codice morale anche se nella vita forse ci dovrebbero essere delle cose più importanti degli “sfregi”. Ci dovrebbe essere, per esempio, il pensiero con la p maiuscola, quello “della teoria e della giustizia”. Quello di una Ucraina pacificata, ricostruita e “migliore” di quella di prima.

Davide Maria De Filippi è nato a Marsala l’8 settembre 1983. Nel 2006 consegue il titolo di dottore in Relazioni e politiche internazionali alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Palermo. Appassionato d’inchieste giornalistiche, ha vinto premi in vari concorsi.

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di Laura Fornaroli

Con la Pandemia, le mascherine chirurgiche sono diventate obbligatorie. Con il volto parzialmente nascosto, la cinetica facciale non ha avuto modo di manifestarsi appieno. La socialità è divenuta problematica e la perdita di una parte dell’informazione ha avuto pesanti ricadute sull’interazione umana. Le barriere comunicative imposte dalle mascherine hanno portato il mondo a riflettere su metodi alternativi di espressione, come la valorizzazione di forme di comunicazione non verbale, e per ciascuno di noi è stato inevitabile diventare attore e guidare le conversazioni anche attraverso lo sguardo. Con questo mezzo, muovendo le sopracciglia e facendo vibrare le palpebre, ognuno ha affinato una certa sensibilità nel percepire l’altro, presagendo il consenso oppure la disapprovazione. Abbiamo testato a caro prezzo quanto sia complesso di punto in bianco spogliarsi di abitudini consolidate e ricodificare la vita in modo non convenzionale. Questa comunicazione filtrata ha messo in dubbio le nostre competenze, ma in particolare il grado di flessibilità e predisposizione al cambiamento di ciascuno. Nessuno è uscito indenne dalla Pandemia, eppure è bene ricordare che il termine “crisi” trova la sua etimologia nel verbo greco krìno, che significa distinguere con giudizio e che rimanda all’idea di scelta ponderata. Esso viene utilizzato da Erodoto, padre della storiografia, per indicare dapprima la mondatura del grano, in seguito la ciclica variabilità di un assetto politico. Di rado capita che parole così potenti si ritrovino ad essere tanto ben allocate nella nostra lingua: dal canto nostro, ciò che abbiamo potuto fare di fronte ad un evento tanto sconvolgente ed inatteso è stato ripulire il termine dal connotato pessimista che si concentra sulla paura. In tempi di Coronavirus, la crisi ci ha portati ad accettare la sfida di una più concreta capacità previsionale nel tentativo di cogliere la direzione del mutamento. Se tuttavia, guardare con benevolenza il prossimo orientando le informazioni veicolate è parte di una felice relazione umana ed un’ esperienza comunicativa che sospende il giudizio imparando a sostare in brevi silenzi, vero è che improvvisamente ci siamo trovati nella condizione di imparare come guardare il prossimo: qui lo sguardo si è rivelato lo strumento cardine per creare empatia, laddove chi fornisce informazioni si pone nell’atteggiamento di coinvolgere l’altro attraverso un messaggio in cui egli stesso è portato a immedesimarsi. Non è un caso che l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia deciso di consacrare l’empatia a porta di accesso al conseguimento del benessere collettivo. Essa influenza i comportamenti e gli stili di vita, condiziona numerose abilità sociali, ad esempio l’inclinazione a risolvere controversie all’interno di un gruppo. E se è provato che, attraverso il sistema dei neuroni a specchio, noi sappiamo ciò che gli altri fanno, c’è motivo di credere che il nostro agire sia in grado di attivare negli altri un meccanismo simile e reciproco. L’empatia diventa dunque il primo passo nella scelta della via dialogica, nel senso che mettersi nei panni di qualcuno e assumerne la prospettiva significa di fatto posizionarsi sullo stesso asse emotivo. Lo sguardo consapevole verso il prossimo è una lente da pulire ogni giorno e va rieducato a cogliere l’oltre che si cela dietro ogni dinamica. Se non ti liberi da immagini preconfezionate e non ti interroghi se il tuo modo di osservare le dinamiche dell’altro sia uno tra i possibili, dimostri di essere più centrato sull’essere visto che sul voler vedere.

Laura Fornaroli. Pubblica Funzionaria e docente free lance di italiano per stranieri, scrive per passione per una rivista che si occupa di diritto amministrativo e per un trimestrale di educazione e cultura.  Nel tempo libero viaggia e compone poesie.

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di Paolo Crugnola

Fallita l’avanzata delle truppe ucraine, persiste la guerra fra Russia e Ucraina. Oscurato dal conflitto israelo-palestinese, quello in Ucraina sembrerebbe in una fase di stallo. In realtà si continua a combattere e a morire.

Al di là di una risoluzione sul campo, che al momento parrebbe possibile solo con una netta vittoria delle truppe dell’Armata Rossa e la resa incondizionata da parte dell’Ucraina, alcuni analisti, con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, intravedono un potenziale cambiamento di scenario in un’ipotetica vittoria di Donald Trump.

La situazione in Ucraina è complessa e sfaccettata, e ogni prospettiva di risoluzione richiede un’analisi equilibrata e multidimensionale. Di certo l’elezione di uno piuttosto dell’altro candidato alla presidenza negli Stati Uniti introdurrà dinamiche significative nella politica estera americana, e quindi possibili ripercussioni sulla crisi Russia-Ucraina.

Con una vittoria di Biden e dei democratici è difficile vedere un cambiamento radicale, mentre Donald Trump in questo scenario apparirebbe come “l’uomo della pace”, in grado di interrompere la sequenza di morti fra migliaia di giovani soldati russi e ucraini, e ancor più di civili.

 Il biondo presidente, secondo la visione di una stampa alternativa che naviga in prevalenza nel web, parrebbe in grado di promuovere un tavolo di trattative.

Durante il suo primo mandato, Donald Trump ha adottato un approccio alla politica estera notevolmente diverso dai suoi predecessori. La tendenza al dialogo diretto con leader come Vladimir Putin ha sollevato interrogativi, ma anche speranze di nuove vie diplomatiche. Alcuni ritengono che la sua propensione a evitare interventi militari diretti e a favorire accordi bilaterali potrebbe creare un contesto favorevole per rinnovati negoziati tra Russia e Ucraina.

Inoltre, l’approccio “America First” di Trump ha spesso portato a una riduzione degli impegni internazionali degli Stati Uniti, una politica che potrebbe, paradossalmente, ridurre le tensioni in alcune aree geopolitiche. Una minore pressione diretta da parte degli Stati Uniti potrebbe incoraggiare le parti in conflitto a cercare soluzioni regionali, magari con il coinvolgimento di altre potenze europee o internazionali. Da considerare però anche le criticità di tale prospettiva. Il periodo di presidenza di Trump non è stato privo di controversie, e le sue politiche hanno spesso polarizzato l’opinione pubblica internazionale. Inoltre, la dinamica del conflitto Russia-Ucraina è profondamente radicata in questioni storiche, etniche e territoriali, e non può essere ridotta unicamente a una questione di diplomazia internazionale.

Il mantra “Trump uguale a guerre zero” può davvero ritrovare conferma nei prossimi anni? La complessa posizione geopolitica è diversa, molto più intricata di quando il presidente dalla lunga cravatta alla moda era l’uomo più potente al mondo. L’ipotesi che una sua rielezione possa portare a una risoluzione del conflitto Russia-Ucraina è intrigante, ma è necessario affrontarla con cautela e un’attenta analisi. La diplomazia internazionale è un terreno complesso, dove le personalità dei leader possono influenzare gli eventi, ma non determinarli completamente. Al momento, per chi non vorrebbe più sentire notizie di guerra e di morte, è possibile sperare in un’ipotesi più realistica?

Paolo Crugnola. Amante e studioso di filosofia, unisce la teoria alla pratica nel lavoro manuale come artista del legno e batterista.

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di Paolo Crugnola

Anno 24 del nuovo millennio.

L’emergenza guerra ha prontamente sostituito l’emergenza pandemica: i “no-vax” sono diventati “putiniani”, ultimamente persino “antisemiti”, a seconda del pensiero unico dominante a cui di volta in volta si oppongono. Non è più lecito farsi domande in questo presente occidentale, progredito e globalmente libero e democratico. Di fatto le minoranze che osano “pensare altrimenti” sono etichettate, accusate, ridicolizzate, infine addirittura emarginate, mentre paradossalmente ci riempiono la testa della parola “inclusione”.

Siamo ancora liberi di chiederci se per caso non ci mentano dai microfoni televisivi e dalle testate dei giornali più quotati, senza perciò essere chiamati “complottisti”?

Quando l’autoproclamato “nonno” Draghi ha sentenziato “Chi si vaccina vive, chi non si vaccina muore”, ha chiaramente mentito: io per esempio sono ancora vivo. Eppure abbiamo dimenticato tutto, strade deserte, ambulanze, morti, accuse, divieti, coprifuoco, militari, virologi, hub vaccinali, file per i tamponi, la “Dad… fino alla gente lasciata fuori dai bar, dai negozi e infine sospesa dal lavoro…  Siamo tornati a vivere quasi come prima, come se niente ci avesse travolti con quella portata, con quella violenza, creando precedenti pericolosi. Sipario chiuso su tre anni di pandemia per accendere i riflettori sulla guerra in Ucraina, con la stessa architettura: i media sbraitano la loro verità dagli schermi, e chi osa disallinearsi viene prontamente etichettato e “disinnescato”.

Ma non ci staranno mentendo anche questa volta?

Certo, la storia ci riporta di un’umanità eternamente in conflitto. “Polemos” è insito nella Natura stessa. Dunque è bellica la natura umana? “There is no alternative?” Ci dicono che i tentativi diplomatici falliscono, che Putin è improvvisamente diventato un pazzo invasore, e che dinanzi a tale follia l’unica soluzione è mandare armi in Ucraina, difendere gli invasi, i deboli, noi, i democratici, buoni e giusti. A noi popolo sovrano italiano, a noi democrazia, a noi hanno chiesto se siamo d’accordo ad inviare “armi per la pace”? Ci hanno chiesto se crediamo alla favola del pazzo russo, o se sospettiamo che ci siano motivazioni dietro al suo atto, che sia una reazione a qualcosa, pur condannando l’atto bellico in se stesso, di cui pagano sempre loro, i civili, i bambini?

È utopico pensare che mondi e culture differenti possano preservare la loro identità e diversità dialogando tra loro e mantenendo pacifici rapporti di scambio commerciale e culturale? Noi che la guerra non l’abbiamo vissuta, noi che siamo abituati a guardarla dallo schermo, per tornare subito alle nostre faccende… Impotenti assistiamo alle decisioni dei potenti, con i loro interessi ormai plateali. Cerchiamo di non pensarci troppo, perché sotto sotto sappiamo che mai come oggi l’uomo è stato in pericolo di estinzione. Che siamo comodamente seduti su una polveriera scegliendo il colore e la morbidezza del divano. Che noi uomini siamo diventati la minaccia numero uno per la nostra terra.

Chiediamoci se è stato necessario riempire il pianeta di armi atomiche, di rifiuti, di onde di tutti i tipi. Chiediamoci se non possiamo darci dei limiti, se possiamo ancora raccontarci di essere i buoni, i giusti, i civilizzati.

I potenti della terra, i filantropi salvatori dell’umanità – un po’ come Mazinga -, ci usano. Ma noi gli serviamo. Hanno bisogno del nostro consenso. Finché qualcuno ancora dirà NO, ci sarà speranza per l’umanità. Possiamo ancora dire NO?

Paolo Crugnola. Amante e studioso di filosofia, unisce la teoria alla pratica nel lavoro manuale come artista del legno e batterista.

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ANATOMIA DI UN FENOMENO INSOPPORTABILE E INSOPPRIMIBILE

di Giuseppe Geneletti

Ho chiesto a mio figlio Riccardo, 10 anni, cos’è la guerra. “È una m… la guerra è un combattimento tra Stati e anche tra bande rivali, come quella dei ragazzi della via Pal”. E noi italiani siamo in guerra adesso? “Mentalmente sì”. C’è solo il signor Vladimir Vladimirovič Putin (Vladimir significa “governo della pace”) che la definisce “operazione speciale”. La guerra è uno stato di fatto conclamato con effetti reali anche sui civili. Ricordiamo che dei 315 milioni di esseri umani uccisi nei cento massacri più rilevanti della storia, 266 milioni sono civili, a fronte di 49 milioni di soldati. La media dei civili morti durante le guerre è dell’85 per cento. Per evitare le conseguenze legali e politiche sancite dall’ONU, nessuno Stato è disposto a dichiararsi aggressore con una dichiarazione di guerra, mentre infiniti sono gli appigli per dichiararsi aggredito. Il modo più moderno e potente di coinvolgere i civili nei conflitti è attraverso la comunicazione. “Uno degli aspetti terribili della guerra è che radicalizza senza spazi per le riflessioni. C’è più propaganda che informazione che passa e si fa fatica a sapere la verità delle cose”, mi dice Marco Giovannelli, di VareseNews. Diventa sempre più chiaro che “c’è un nuovo attore predominante nella società iper-connessa, importante quanto i missili, che può determinare l’esito stesso del conflitto” aggiunge Michele Zizza, professore di Culture Digitali. “La comunicazione è alleata dell’Ucraina e nemica della Russia”.

LA GUERRA CON LE ARMI

Secondo l’ultimo ConflictBarometer nel mondo ci sono 359 conflitti di cui 220 violenti, tra i quali 40 guerre, di cui 21 ad alta intensità in Afghanistan, Libia, Siria, Turchia, Yemen, Congo, Etiopia, Mali, Burkina Faso, Nigeria, Mozambico, Somalia, Sud Sudan, Brasile, Armenia, Azerbaijan. La situazione in Ucraina era già considerata nel 2020 a livello 4 “guerra limitata”. Solo in pochi Paesi del mondo ci sono situazioni prive di conflitto.

La pace non è un bene diffuso, oltre che non garantito. Siamo sempre in guerra anche perché il business della guerra è immenso. Nel 2020, la spesa globale militare stimata corrisponde a 1.981 miliardi di dollari, di cui 778 miliardi negli USA, e252 in Cina. I maggiori importatori di armi sono Arabia Saudita, India, Egitto, Australia e Cina. Mentre l’esportatore per eccellenza è l’USA, seguito da Russia, Francia, Germania e Cina. Le nuove guerre sono una linfa vitale per questo settore. Piaccia o no è un settore strategico che contribuisce al PIL di molti Paesi, anche se spesso tendiamo a dimenticarcelo.

LA GUERRA SI COMBATTE CON IL PANE

Il motto pro-spese militari “Se vuoi la pace, prepara la guerra” di Publio Vegezio Renato si è rivelato una fandonia: nonostante la crescita delle spese militari i conflitti sono solo aumentati nel XX e XXI secoli. La crescita delle disuguaglianze, il sovraffollamento del pianeta e l’accelerazione del riscaldamento globale, sono solo alcune delle sfide che seminano i conflitti del presente e del futuro.

Una credibile politica globale di riduzione dei conflitti passa attraverso una perseverante politica democratica per i diritti sociali.

Soltanto una pace giusta è una pace veramente duratura. Pace è lavoro, distribuzione più equa di ricchezze e risorse, sviluppo sostenibile, pari opportunità di genere, istruzione. Pace è tutto questo insieme perché i diritti non si mangiano.

Giuseppe Geneletti è un giornalista pubblicista, associato alla redazione di VareseNews.it. Esperto di cambiamento organizzativo e innovazione, pubblica settimanalmente su temi di attualità economica, sociale e di interesse glocale.

Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

di Maria Novella Lombardi

Ci sono frasi che evocano in chi ascolta un’immediata adesione emotiva. Hanno in sé gli elementi di convalida di quanto enunciato, tanto da far apparire inutile ogni approfondimento critico. Capolavori della retorica, nella pubblicità costruiscono per il prodotto un primato di bellezza/desiderabilità associato a superiorità/qualità morali, in un binomio Kalòs Kai Agathos retaggio dell’antica Grecia.

Si pensi ai natalizi panettoni e pandori capaci di generare magicamente buoni sentimenti.

Una pretesa di veridicità che si estende oltre la relazione fra il claim e l’oggetto reclamizzato, investendo aspetti del vivere che con esso non hanno relazione.

Un tipo di frasi proprie anche della comunicazione politica, bandiere di posizioni giustificatorie di idee o condotte, delle quali, proprio in virtù di tali frasi, si afferma l’incontestabilità. Attualmente chi supporti l’ineluttabilità della reazione di Israele al brutale attacco di Hamas del 7 ottobre, ne cita una di Golda Meir, premier Israeliana al tempo della guerra dello Yom Kippur, “Noi potremo un giorno perdonarvi di avere ucciso i nostri figli, ma non potremo mai perdonarvi di averci costretto ad uccidere i vostri”. Potente, suggestiva, pronunciata a nome di un intero popolo, può essere suddivisa in due parti distinte.

La prima, che sancisce la magnanimità, superiorità e clemenza di un certo gruppo, “Noi potremo un giorno perdonarvi…”, funge da premessa alla seconda, in una sorta di sillogismo nel quale, dando per vera la prima parte, quella in cui ci si dice capaci di perdonare persino l’uccisione dei propri figli, diventa automatica la “verità” della seconda, ovvero che sia più dolorosa per chi la commette, l’uccisione dei figli altrui, esaltando ancora la superiorità morale prima sostenuta.

Ne deriva pure che la causa dell’impossibile perdono per le morti provocate, risieda non in sé, ma nella perfidia del nemico, tanto mostruoso da non lasciare spazio ad alternative e a “costringere” alle uccisioni dei suoi figli.

Si dà per comprovato che non vi siano altre scelte rispetto alla guerra, alla vendetta e all’annientamento, e che le possibili soluzioni siano state davvero tutte esperite.

Oltre alla demonizzazione, al nemico viene attribuita anche la disumanizzazione e la colpa, suggerita implicitamente, di non amare a sufficienza i propri figli, così da evitargli l’uccisione da parte di chi è stato “costretto” a farlo, non condannabile perciò per tale azione. Quel che più fa riflettere, è che attualmente la frase viene citata mentre l’operazione su Gaza è ancora in corso. È come se si pretendesse l’assoluzione preventiva per essere nuovamente “costretti” ad impietose azioni di guerra che causano la morte di civili e bambini, si badi, non già accadute, ma in corso d’opera e ancora da commettere! E lo si fa richiamandosi, loro come i loro nemici, ad un Dio ridotto a meschino tifoso dell’una o dell’altra squadra. Apparentemente costruita con una logica similare, di grande efficacia comunicativa, è un’altra frase, di Gabriel Garcia Marquez, che pare da segnalare. Anch’essa in un certo senso basata su un sillogismo e costituita da due parti correlate. La prima parte pare affermare un altezzoso privilegio, un dato di superiorità morale o materiale “Un uomo ha diritto di guardare un altro uomo dall’alto in basso…”, ma conclude imprevedibilmente negando la premessa, mutandone così il senso profondo: “… solo in un caso. Aiutarlo a rimettersi in piedi”. Nessuno fraintenda però, senza per questo sentirsi autorizzati ad averlo prima steso.

Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)

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