In tre anni di conflitto Russia-Ucraina nessuno ha ricordato l’Esercito italiano che combatté in Ucraina nella Campagna di Russia 1941/43 della Seconda guerra mondiale.  

Quei bersaglieri e quegli alpini sul fronte russo, uomini costretti a diventare eroi per avere la speranza di tornare in patria, li ricordo con due racconti: IN PRIMA LINEA, una storia vera, documentata, e IL SOLDATO INUTILE, ispirata a fatti accaduti, con riflessioni sulla guerra. E sulla pace.

Ogni cosa è illuminata dal passato, e il compito della narrativa non è di sostituire la Storia, ma di renderla più comunicativa, in un totale rispetto degli accadimenti.

                                                                                       L’autore

IN PRIMA LINEA

Un bersagliere sul fronte russo

– Una storia vera –

Nessuno può spezzare l’anima, né il fuoco bruciarla; l’acqua non può bagnarla, né il vento seccarla.   (La Bhagavad-gita)

Prologo

I Morti e i Vivi

Questa storia la raccontano quelli che sono stati là, e poi sono tornati, sì, in qualche modo sono tornati, i superstiti della prima linea, ma la dovrebbero invece raccontare i morti, tutti quei morti che non hanno nemmeno una storia, e la storia vera, quella che i libri non riportano, la storia dei singoli, è rimasta in quei loro occhi spalancati… Noi li seppellivamo nella terra ghiacciata, quei morti, appena sotto, e altrimenti non era possibile, e a volte gli rompe­vamo le braccia rigide per farceli stare, e faceva così freddo che era come spaccare filoni di pane raffermo, qualche dito rimaneva fuori ed erano come fiori sulla tomba, gli unici a resistere, e tanti erano morti da eroi e la patria gli doveva almeno una medaglia alla memoria, ma là, davanti alla prima linea, non c’era mai un ufficiale a compilare il rapporto, e quando c’era anche lui era un morto… E così quella volta che avevamo cominciato un’azione di avanguardia e c’eravamo trovati quasi circon­dati, avevo imbracciato una mitragliatrice e il fuoco era violento, le pallottole venivano da ogni direzione e le sen­tivo proprio fischiare, indietreggiavo e sparavo anch’io scudi di pallottole e mi guardavo attorno e vedevo solo loro, i miei compagni morti, e loro vedevano me, e avevo tutti quegli scudi di pallottole a difendermi, e così ero ri­uscito a rientrare, e l’ufficiale mi aveva dato una medaglia, e me la consegnò lì sul campo, e il giorno dopo non me l’avrebbe più concessa perché anche lui era fra i morti. In prima linea ci sono rimasto tredici ininterrotti mesi, e quando l’ho lasciata di quelli che erano partiti con me, di quei ragazzi che avevano fatto il campo insieme, non ne era rimasto uno, tutti erano stati sostituiti, e così nel mio battaglione vedevo sempre facce nuove e poi mi ero ac­corto che di quel primo contingente di centottanta bersaglieri che componevano la prima compagnia non ne era rimasto nes­suno, erano morti o rimpatriati come feriti, e tanti non so neppure che fine avessero fatto, non erano più al fronte, e tutti erano stati sostituiti perché il soldato in prima linea viene sempre rimpiazzato, e dietro di lui ce ne sono altri sette che lo sostengono, che lavorano per lui, e quel sol­dato in prima linea non manca mai, cambia la faccia ma è sempre presente, e di quelle facce che avevano vent’anni ne avevo viste tante passare, la chiamavamo la giostra mortale, le facce colpite cadevano e ne ri­spuntavano altre… E come una freccia pungente e vele­nosa nella mente arrivava il pensiero che prima o poi qualcuno avrebbe preso il mio posto, e questo pensiero però io lo facevo correre via e tenevo la mente occupata con altro, e mi procuravo i fucili mitragliatori del nemico che funzio­navano meglio dei nostri, quelle straordinarie mitragliette che non si inceppavano mai, e cercavo il cibo sufficiente a un uomo che combatte ogni giorno, il tascapane a un morto non serve più a niente ma tiene in forza uno vivo, e quando ci sono quaranta sotto zero devi essere attrezzato, il congelamento parte dai piedi, e il nostro equipaggia­mento ai tedeschi faceva ridere, loro sì che erano preparati alla guerra e la volevano proprio fare, e se quel pensiero velenoso entrava nella mente di un soldato che non era pronto per la guerra allora nasceva la paura, e la paura in prima linea è una calamita, e tutte le pallottole sono lì, se uno ha paura è meglio che stia nelle retrovie, è meglio es­sere uno di quei sette soldati che stanno dietro, e se sei fortunato ti mangi i prosciutti e bevi acquavite per riscal­darti, ma in prima linea arrivano solo quei tozzi di pane fatti di paglia, e il vino è così annacquato che bisogna scioglierne i cubetti ghiacciati con i guanti e con il fiato, ma chi non è in prima linea fa un altro tipo di guerra, in prima linea non si trema per il freddo, non si trema per la paura, e chi lo fa è un uomo morto.

LE CORTO-LINE

Le Corto-line sono un nuovo modo per proporre la lettura. Si possono spedire, tenere come segnalibro o, meglio, collezionare. Brevi e intense, essenziali e innovative. In circa duemila battute si raccontano un episodio, una storia, una vita. Le Corto-line sono UN INVTO ALLA LETTURA, anche per coloro che non leggono, ai quali sono chiesti pochi minuti di attenzione. Scrittori e illustratori confezionano un prodotto nel quale la bellezza di un’immagine apre la strada alla lettura. 

da spedire e/o da collezionare

Le Corto-line, lette e interpretate da un’attrice o attore, fanno spettacolo.

Sono numerate e vengono proposte in gruppi tematici. Per ogni corto-lina 2/5000 copie. Distribuzione: iscritti ai Corsi del Cavedio (circa 3.000), biblioteche, negozi convenzionati, associazioni culturali, sponsor, eccetera. Anche in internet, con pubblicità ad hoc.  I racconti sono traducibili in inglese, tedesco, francese, spagnolo, arabo, russo, cinese, giapponese.

Qui un accenno ad alcune serie:

IL SIGNIFICATO DELLO SCRIVERE

– La pagina bianca

– L’uomo che scriveva nel vento 

– L’energia vitale 

– Scrivere il Corto 

RUGBY: METAFORA DI VITA

– Là dove nasce la vita

– Il guerriero

– Il pilone

– I giorni della bislunga

DONNE & RAGAZZE 

– La donna che sollevò il mondo 

– La donna cannone

– La ragazza uccello 

– La ragazza dai capelli verdi

UOMINI & RAGAZZI

– L’uomo che scriveva storie d’amore 

– L’uomo che si comprò il paradiso

– Il ragazzo con la cresta di gallo 

– Il ragazzo che uccise i Babbi Natale

ALBERI & SCRITTORI

– L. Ferdinand Celine

– Charles Bukovski

– Italo Svevo

– Piero Chiara

OMAGGIO A CANTANTI

– Fred Buscaglione

– Paolo Conte

– Giuni Russo

– Gerardina Trovato

ELOGIO DELLA FATICA (ciclismo)

– Infanzia di un campione (A. Binda)

– Il corridore che spaccava il tempo (J. Anquetil)

– La leggenda dell’imprevedibile scalatore (C. Gaul)

– L’ultimo atto (M. Pantani)

ALBERI CHE PARLANO

– L’albero di mio nonno

– L’albero che voleva essere albero 

– L’albero e l’angelo 

– L’albero baniano 

E tante altre insospettabili raccolte:

Le grandi battaglie – I nostri colori – Calciomania – Fotografi – Pittori – Passione golf – I colori della vita – Fiabe minime – Racconti d’amore – Vite da bar – Eventi culturali – Eventi mondiali – I gialli lampo – Noir – Omaggio a filosofi – La mia terra – Città d’Italia –

Racconto & Fumetto – La birra e il vino – La grappa … 

Le Corto-line fanno parte di un ampio repertorio, che dispone già di centinaia di racconti e illustrazioni. Per immediatezza e facilità di comunicazione, oggi sono più che mai attuali.  Abramo Vane ne è l’ideatore e capofila. Con lui una decina di autori della Scuola di scrittura IL CAVEDIO, e una PALESTRA DI NUOVI TALENTI tutta da scoprire.

  • LIBRI, classici e non

Il progetto INVITO ALLA LETTURA propone, in forma narrativa, LIBRI di storia, di attualità e di formazione destinati a giovani e meno giovani, adatti anche a letture e collaborazioni scolastiche

INOLTRE una traduzione moderna di classici di tutto il mondo, e libri di integrazione sociale per le scuole (es.: fiabe senegalesi raccolte da Senghor, fiabe popolari del Marocco, fiabe classiche d’Europa…).

DA NON DIMENTICARE la fumettistica, cara ai giovani.

  • UNA VIA TUTTA DA LEGGERE

Dall’esperienza di via Cavallotti in Varese, iniziata nel febbraio 2000 e durata dieci anni, il progetto INVITO ALLA LETTURA ipotizza la ripresa di una simile proposta, lungo una via di un centro cittadino, o comunque di passaggio pedonale. Ipotesi che potrebbe interessare e allargarsi su un parco letterario, con il coinvolgimento di scrittori e artisti.

Che cosa fu La Vetrina da leggere vent’anni fa

LA VETRINA DA LEGGEREfu paragonata a una rivista d’arte e di cultura da leggere in strada, nelle vetrine, mentre si passeggia o si fa shopping, fra un prodotto e l’altro, ed era costituita da alcune rubriche fisse e altre a rotazione.La cittadina dove il tempo si è fermatorubrica di narrativa a cura di Fiorenzo CrociA qualcuno piace caldo, rubrica di cinema a cura di Raniero Belloni riportante tutti i film in programmazione nelle sale di Varese con trama e giudizio critico,Tutto a un tratto fumetti e illustrazione a cura di Renato Pegoraro furono le rubriche proposte dalla prima redazione. A queste si aggiunsero:Bianconerorubrica di fotografia a cura del Foto Club Varese,Il Flauto magicorubrica di musica a cura dell’associazione  Musicosophia,Cavalli di razzarubrica di umorismo a cura di Carlo Cavalli,La moglie del principe azzurrorubrica di letteratura per l’infanzia a cura di Roberto Fassi,Pensieri in metarubrica di rugby a cura di Alessandro Borghetti e altre ancora fra cuiPiccola Breramostre di pittura, scultura e fotografia a cura di Laura Sangiorgi, perchéLA VETRINA DA LEGGEREnon fu solo una rivista da leggere in strada ma un punto di riferimento per chiunque, un modo nuovo per far conoscere iniziative di qualsiasi tipo e creare eventi, spettacolo, comunicazione.LA VETRINA DA LEGGERE fin dall’inizio mise in luce la capacità di coinvolgere gli interessi e le forze di altre realtà. Associazioni culturali e riferimenti importanti come quelli diMusicosophia, Zatterateatro, Girinarte, Albero Baniano, Fotoclub di Varese, Filmstudio ’90, Varesecorsi, Le Vie dei venti, il Museo Hermann Hesse, Openjazzvarese, La Piccola Fenice, Energia e Forma, La via interiore, A.s.d. Rugby Varese, Italia Nostra, Chiostro di Voltorre, Fabbrica Arte e Radio Marconi. 

 fmk1972@ilcavedio.it


Il 3 febbraio del 1959 è conosciuto come “The day the music died”, il giorno in cui la musica morì. Tre grandi interpreti del Rock’n’roll, Buddy Holly, Ritchie Valens e Big Bopper, persero la vita in un incidente aereo durante una tournée che li vedeva protagonisti. L’evento è ricordato dai fan di tutto il mondo, e nel web si trovano numerosi articoli. Nel sessantaseiesimo ho pensato di dedicare un tributo speciale con un racconto di fantasia. 


Lo zio che raccontava leggende

Quel giorno io non ero ancora nato, e quel giorno me lo raccontò lo zio Stefano, che se ne andava in giro con un cappello da cow-boy in testa, la giacca a frange tipo Buffalo Bill, il bolotai con l’unghia dell’orso che brillava fra i colletti della camicia, il cinturone con le ali di un’aquila sulla placca dorata. Vestiva proprio come un cow-boy. Gli mancava solo il cavallo. E scherzavo con lui, e quando avevo quindici anni gli dicevo Zio, ti manca solo il cavallo. 

Zio Stefano aveva una particolarità che poche persone al mondo hanno, non sapevo mai se nel parlare era serio o scherzava. Poi nel tempo capii una cosa, che se tutti gli uomini la praticassero il mondo sarebbe migliore, ed è quella di ridere di sé stessi, in ogni occasione, bella o brutta, più efficace in quelle in cui tutto ti è contro. Grazie zio!

Veniamo al dunque, diceva sempre, e tirava fuori quelle storie nelle quali lui era presente, testimone di vicende che appartenevano alla storia. Per farvi partecipi dell’incanto fantastico in cui viveva la mia coscienza, vi dico di quando mi raccontò di quel suo amico americano nella guerra di Corea, e il racconto era tanto coinvolgente da crederlo presente ai combattimenti. Usava la prima persona nella narrazione, il cosiddetto io narrante, e ci cascavo ogni volta. 

Ma zio, a quel coreano davvero staccasti la testa con un pugno?

E volò sul tetto del capanno, mi rispose.

A fare bene i conti a quei tempi lo zio poteva avere sette o otto anni. Non m’importava.


2 febbraio 1959

Ritchie Valens non aveva ancora compiuto diciott’anni e già aveva composto sette canzoni, brillante innovatore di leggende musicali del Sud America. Una stella nascente che brillò con la luce di una meteora.

Big Bopper faceva il dj e aveva lanciato la memorabile Chantilly Lace, che molti interpretarono e, come spesso capita, nessuno meglio dell’autore.

E infine Buddy Holly, ventidue anni e precursore nell’evoluzione del Rock’n’roll, e così la prima canzone registrata anni dopo dai Beatles fu una sua cover.

Zio Stefano sedeva su uno sgabello, il busto inclinato in avanti, e con un gesto della mano scostò il cappello da cow-boy in su, perché le parole non fossero trattenute ma volassero libere. 

Da dieci giorni giravamo per il Midwest onorando il Winter Dance Party Tour.

Dal Minnesota all’Wisconsin, e ci attendevano lo Iowa e poi Illinois, Kentucky e Ohio. Innumerevoli concerti in tre settimane, dal 23 gennaio al 15 febbraio, da tenersi in ventiquattro città, e si aggiunse questa del 2 febbraio al Surf Ballroom di Clear Lake, che non era in programma. Il pullman in quel gelido inverno trasportava una parte della storia del Rock’n’Roll. E non era all’altezza, il pullman, un rottame della guerra con il sistema di riscaldamento che non funzionava.

E Buddy Holly intonò:

Bene, quello sarà il giorno in cui dirai addio
Sì, quello sarà il giorno in cui mi farai piangere
Dici che te ne andrai, sai che è una bugia
Perché sarà il giorno in cui morirò
 

– Buddy, non ne hai una un po’ più allegra?

E così attaccò Ritchie:

Per ballare la Bamba,
è necessaria un po’ di grazia.
Una poca de gracia para mi para ti.
Sempre più in alto
Per te lo farò.
Yo no soy marinero, soy capitan.

Il pullman era un frigorifero viaggiante, teneva pesci al fresco, e i pesci eravamo noi.

Big Bopper tossì, da quattro giorni buttava giù aspirine e dormiva nei trasferimenti. Sì destò e sotto l’influenza della Bamba chiese:

Por favor, la mia chitarra, e con la mano a forma di cornetta del telefono:

Ciao, piccola.Sì, questo è il Big Bopper che ti parla

e prese a suonare e cantare,
Chantilly Lace aveva un bel visoE una coda di cavallo appesa giùE intanto che zio Stefano raccontava, colsi nostalgia nella voce e nello sguardo. Me le aveva già narrate quelle confidenze su meravigliose ragazze che ai suoi tempi giravano con camicette legate alla vita, gonne a campana e strepitose code di cavallo. 

Non era una moda, mi diceva, era un simbolo. Non mi sarei mai innamorato di una ragazza che non avesse la coda di cavallo. 

Un sussulto nella sua camminata e una risatina nel suo parlareFa girare il mondoEd è proprio così, si entusiasmava zio Stefano, quelle ragazze muovevano il bacino e le gonne formavano cerchi nell’aria, che dalla strada salivano lassù. 

Non c’è niente al mondo come una ragazza dagli occhi grandi
Per rendermi divertente, farmi spendere i miei soldiFarmi sentire davvero libero come un lungo collo d’oca

É così, nipote, diceva lo zio rimarcando con il dito indice il gesto di prima, su e giù. Divertiti, spendi i tuoi soldi, e allunga il collo per sapere come stanno le cose

E il dito indice adesso lo alzava sopra la testa e faceva roteare il braccio. 

Fare il mondo andare ‘round, ‘round, ‘round.L’energia è circolare, sentenziò, e lasciò un lungo silenzio prima di riprendere il racconto.

Giungemmo al Surf Ballroom e Buddy scherzava con una pistola e diceva io fino a Fargo ci vado in aereo. Non voglio crepare su quella carretta ambulante. E aveva già parlato con quelli dell’aeroporto vicino. C’era un charter da turismo a disposizione, un giovane pilota e tre posti per passeggeri.

Il Destino è imprevedibile. Si manifesta di continuo e nessuno lo riconosce, tranne quando si è ormai svelato nei fatti, allora tutti a sbattere la testa e dire era destino. Quello che successe quella sera è una delle sue esibizioni più clamorose. E adesso te la racconto.

La sala era gremita in ogni angolo, birra e bourbon, e a un certo momento nessuno era più seduto. Con il Rock’n’roll non è possibile. Buddy Holly aveva ottimi musicisti, il giovane Wailon Jennings, che diventerà una star del country, e suonava il basso, Tommy Allsup, chitarra elettrica, country-man anche lui. Francis Di Mucci detto Dion e il suo gruppo. La migliore delle serate finora eseguite in quel tour massacrante. Big Bopper aveva voce rauca per via dell’influenza e regalò un’interpretazione singolare. Ritchie Valens travolgente con la sua Come On, Let’s Go e poi prese con La Bamba e il pubblico si scatenò.

Per tre di loro era l’ultima volta, e nessuno lo sapeva. Nemmeno l’Oracolo di Memphis notò segni di premonizione. 


3 febbraio 1959

Il piccolo aereo rimediato da Buddy offriva tre posti. Subito Dion Di Mucci rinunciò perché il biglietto per lui non era congruo al servizio. Buddy teneva ai suoi musicisti, voleva risparmiare loro una sofferenza di cinquecento chilometri, ma Jennings aveva già ceduto il posto a Big Bopper, rosso in viso e febbricitante.

Ed ecco le prime frasi pronunciate non dai poveri umani, come ritengono quelli che credono nella materia, al Big Bang e stupidaggini del genere, ma dal Destino in persona, che quella sera si presentò nel più classico dei suoi vestimenti, con mantella nera, larga, e sotto l’arma letale che falcidia poveri e ricchi, buoni e cattivi.

– Wailon, mi lasci solo, che tu possa schiantare su quel maledetto pullman – e Buddy era davvero alterato.

– E allora che tu possa fracassarti al suolo con quel rudere da turisti.

E in quel momento Jennings non aveva pronunciato semplici parole, ma sfornato una frase che pesava Sixteen Tons, come la canzone di Johnny Cash, che negli anni cantò con tutto quel peso sull’anima.

C’era preoccupazione fra gli artisti. Pensavano a quel viaggio di trasferimento in pullman e tutti avrebbero preferito l’aereo.

– Non ho mai volato in vita mia – disse Ritchie Valens a Tommy Allsup, il chitarrista di Buddy Holly – cedemi il posto.

– E perché? Poi Buddy se la prenderà con me, come ha fatto con Wailon.

– Ti prego, esaudisci il mio desiderio.

– Senti, ragazzo, facciamo così. Tiriamo a sorte.

E lì c’era il dj del locale. Lanciò lui in alto la monetina. 

E Ritchie Valens non capì il guaio in cui s’era ficcato. Il Destino gli era sempre stato amico. A tredici anni suonava in un complessino della scuola e le ragazze impazzivano per lui. In pochi anni una carriera che i critici chiamarono fulminante, fino all’appuntamento fatale, che in seguito toccò a molti musicisti. Le morti giovani, come gli stessi critici le nominarono. Jimmy Hendrix, Jim Morrison, Brian Jones, Janis Joplin, Kurt Cobain e Amy Whinehouse, e quanti altri… ma loro ebbero più tempo per esprimersi. Sesso, Droga & Rock’n’roll… morti annunciate. Non così per i tre di quella notte. Metto la mano sul fuoco per loro, che furono i primi scelti dal Destino a immolarsi al mito delle leggende giovani, in quello che Don McLean chiamò “Il giorno in cui la musica morì”, e tutti annuirono. 

Fu così, caro nipote, e lo scoprimmo anni dopo, grazie ad American Pie, con quei versi immortali e agghiaccianti di quando lui, il futuro cantautore Don McLean, a febbraio di quel 1959 era un ragazzo che distribuiva i giornali e lesse in prima pagina la notizia, e si commosse per Maria Elena, la moglie di Buddy Holly che attendeva un figlio ed era già una giovane vedova.

Il pilota aveva vent’anni, e nel condurre un aereo non possedeva l’esperienza che invece i suoi passeggeri avevano nella musica.

Tante coincidenze sull’incidente. La strumentazione non era all’altezza, nevicava fitto e minacciava di peggio, forse qualcuno aveva sconsigliato il volo. Dopo il decollo l’aereo, pare, volò verso terra credendo di salire. Altre combinazioni, e altre ipotesi.

Autentici invece i sogni di tre ragazzi, tre nuove stelle a brillare, anche se il cielo era scuro e tempestoso. 

Ritchie Valens, Buddy Holly e Big Bopper, lasciati gli amici alla sala dell’ultimo concerto, pensavano a quella del giorno dopo.

– È sempre la Bamba che fa sobbalzare le persone, mi scrivono lettere dal Messico – diceva Ritchie, ma subito attimi di paura, che succede? Non canterò la mia nuova, non canterò per niente. Ho solo diciott’anni.

– Mi comprerò camicie nuove a Fargo – si compiaceva Buddy, ma subito attimi di paura, che succede? La mente si libera di tutto e resta un solo pensiero. Maria Elena, ti amo. 

– Ragazzi, non sto bene – si lamentava Big Bopper – Ringrazio Wailon se continuerò questo tour, ma subito attimi di paura, che succede? Pronto, chi parla? Signore dei Cieli, sei tu?

I raggi di sole al mattino si scagliarono su quel giorno chiamato 3 febbraio. E poi sul mondo che doveva ancora venire. Illuminarono la strada, a noi, e a quelli che seguirono. 

Caro nipote, come sai la moglie di Buddy Holly, ricordata da McLean, per il dolore perse il bambino che aveva in grembo. Poi nella vita fece tutto per quel giovane che le aveva donato una rosa e chiesto di sposarla al primo incontro. E alla fine Maria Elena pensò alla cosa più grande, una Fondazione liberale, aperta a tutti, per educare i giovani alla musica.  


Appendice

AMERICAN PIE  

(Il giorno in cui la musica morì)

Ricordo, tanto tempo fa
come quella musica mi facesse sorridere
e sapevo che se avessi avuto la mia occasione
avrei fatto ballare quella gente
e forse sarebbe stata felice per un po’

Ma febbraio mi faceva venire i brividi
ogni giornale che consegnavo
brutte notizie davanti alla porta
non potevo andare avanti così

Non posso ricordare se ho pianto
quando ho letto della sua sposa rimasta vedova
ma qualcosa mi ha toccato profondamente
il giorno che la musica è morta

Arrivederci, miss American Pie
ho guidato la mia Chevy sino all’argine
ma l’argine era secco
e loro, buoni vecchi amici
stavano bevendo whisky di segale
cantando – questo è il giorno in cui morirò
questo è il giorno in cui morirò.

 (Don Mc Lean, 1970))

Prologo

Quel giorno in cui zio Stefano mi raccontò tutto questo, a un certo punto si tolse la giacca a frange, e le rose rosse ricamate sulla sua camicia nera brillarono come stelle in cielo. Abbassò il capo, commosso, e portò il suo cappellaccio al cuore.

La storia di Eddie Cochran te la racconterò un’altra volta, ma adesso cerca la canzone intitolata Three Stars che lui dedicò a Buddy Holly, suo amico, e a Ritchie Valens e Big Bopper, con i quali condivideva i battiti del Rock’n’roll.

Zio Stefano diceva di essere stonato, e così mi recitò la canzone di Eddie Cochran come fosse una poesia. Lui era un patito di Carmelo Bene e la lesse allo stesso modo che l’attore leggeva Majkovskij o Pasternak.

THREE STARS

Guarda in alto nel cielo, verso nord
Ci sono tre nuove stelle che brillano brillantemente
Stanno brillando così luminosi dal cielo lassù
Cavolo, ci mancherai, tutti ti mandano il loro affetto
Ritchie, stavi appena iniziando a realizzare i tuoi sogni
Tutti mi chiamano ragazzino, 

Ma tu avevi solo diciassette anni
Ora Dio Onnipotente ti ha chiamato, da così lontano
Forse è per salvare qualche ragazzo o ragazza
Chi potrebbe essere andato fuori strada
E con la tua stella che splende nella notte buia e solitaria
Per illuminare il cammino e indicare la via, la via giusta
Cavolo, ci mancherai, tutti ti mandano il loro affetto
Buddy, posso ancora vederti, 

Con quel sorriso timido sul viso
Sembra che i tuoi capelli siano sempre stati 

Un po’ scompigliati, e un po’ fuori posto
Ora, non molte persone ti conoscevano davvero o
Ho capito come ti sentivi
Ma solo una canzone da parte tua, solo una tua canzone
Potrebbe far sciogliere il cuore più freddo
Bene, stai cantando per Dio adesso, nel suo coro nel cielo
Amico Holly, ti ricorderò sempre con le lacrime agli occhi
Cavolo, ci mancherai, tutti ti mandano il loro affetto
Vedo un uomo corpulento, il tuo nome è Big Bopper
Dio ti ha chiamato in paradiso, 

Forse per nuova fortuna e fama
Continua a indossare quel grande cappello Stetson 

E divaga davanti al microfono
E non dimenticare quelle meravigliose parole, 

Sai cosa mi piace
Guarda in alto nel cielo, verso nord
Ci sono tre nuove stelle che brillano brillantemente
Stanno brillando, oh così luminosi, dal Cielo lassù
Cavolo, ci mancherai, tutti ti mandano il loro affetto

(Eddie Cochran, 1959)

Fonte: Musixmatch – Compositori: Dee Tommy – Testo di Three Stars © Unichappell Music Inc., Campbell Connelly And Co. Ltd., Elvis Presley Music, Inc.

QUEL GIORNO CON EDDIE COCHRAN

Caro zio, mi lasciasti con la promessa di raccontarmi di Eddie Cochran… non fa niente, ho imparato la tua lezione, che l’oggi e il domani e ieri non esistono perché tutti noi viviamo un solo attimo di eternità, compresi in un punto indefinito. Lui, il più grande musicista capace di ispirare Beethoveen e Bach e insieme Chuck Berry e Fats Domino, Lui sa bene questo, e altro. Grazie zio.

Allora ti dirò di quel giorno che incontrai Eddie Cochran. Era il 7 febbraio 1959 e mi trovavo al Town Hall Party fra il pubblico… e vedo il tuo sorrisino che scherza sul fatto che io non ero ancora nato, e tu solo, per quanto detto prima, sai che io ero là, così come tu eri nella guerra di Corea e a sette anni staccasti la testa a un coreano con un pugno. 

Ooo C’mon everybody 

Andiamo tutti e stiamo insieme

E già non mi trattengo, un incipit che è un invito. É questa la vita, la vita vera, dico a me stesso, e muovo le ginocchia, le gambe, il bacino, senza che me ne accorga, perché è l’energia vitale a fare di me un ballerino, io che prima di allora me ne stavo sul banco a fare i compiti. Lui che sa tutto di noi, delle nostre piccolezze e ingenue aspirazioni, Lui ci guida a suo piacimento.

E la casa tremerà per i miei piedi nudi che sbattono sul pavimento. 

Bene, quando ascolti quella musica non puoi stare fermo. 

Se tuo fratello non farà rock, lo farà tua sorella.

Ooo C’mon everybody.

E applaudo all’infinito, il più bel Rockabilly della storia del Rock’n’roll.

E queste parole le dico a Eddie, dopo lo spettacolo, e parlo con lui, e lui tira fuori quella tragedia, di soli tre giorni prima. Buddy e io eravamo amici, mi dice, debbo fare qualcosa per quei tre ragazzi, debbo rendere loro omaggio.

Il mio ricordo del Tricolore è legato al Carnevale, risale a quand’ero bambina,vivevo con la mia bisnonna, e la festa si limitava a un pacchetto di coriandoli o, se andava bene, a un cappello da fata con tutta probabilità appartenuto a qualcun’altra.
Guardavo con invidia le compagne di scuola più abbienti. Sfoggiavano parrucche bionde, vestiti di raso da fatine, principesse, streghe, e poi c’erano cow boy, indiani, spazzacamini. In mezzo a loro io cercavo di sfuggire a quelli che, armati di bastoni di plastica, rincorrevano le bambine per colpirle a tradimento o riempirle di schiuma da barba con bombolette rubate ai loro papà.
Non potevo sfoggiare un costume che mi permettesse di diventare un’altra, anche solo per poche ore. Sul grande carro pieno di fiori sarebbero sfilate le maschere più belle, non io. Per questi motivi non sono mai stata una patita del Carnevale.
Un anno la mia adorata nonnina, vedendomi triste, decise che era giunto anche per me il giorno in cui non mi sarei dovuta sentire meno delle altre. – Che ne pensi se inventiamo qualcosa di diverso? Forse non vincerai nessun premio, ma sarai orgogliosa di portare il costume che ho in mente di confezionare per te.
Prese la sottogonna del mio vestito della prima comunione, comperò due fogli di cartapesta, uno verde e uno rosso, e con tanta pazienza fece delle piccole rose che cucì sull‘abito bianco. Ai miei occhi il più bello che avessi mai visto. Lo indossai, ero al settimo cielo.
– Nonna, se mi chiedono da che cosa sono vestita?
– Rispondi: da bandiera italiana!
Trovarono originale e patriottica l’idea della nonna, vinsi il terzo posto e salii sul carro tanto agognato. La conclusione della giornata fu meno entusiasmante degli anni precedenti. Il sole si nascose dietro le nuvole e cominciò a piovere. Sotto la pioggia i miei fiori di carta persero colore e macchiarono la gonna bianca. Sembravo la versione femminile di Arlecchino, ma la contentezza di avere un vestito unico non me la portò via nessuno e corsi a casa orgogliosa con la coccarda per mostrarla all’artefice della mia gioia. La coccarda per un’improbabile bandiera era nostra, mia e di una nonna fatina.

di Evelyne Arrighi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Il divano avvolgente e la cioccolata calda rendono la domenica di pioggia e studio più sopportabile. Mio nonno si siede accanto a me: La Costituzione della Repubblica Italiana, che letture impegnative, in questa allegra giornata.
Mi prende in giro, sa che preparo l’esame di diritto costituzionale.
Guarda il punto in cui sono arrivata, e legge: art. 12, La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni, questi sono i colori sotto i quali ci riconosciamo.
Sai Laura, sono stato in Tripolitania, mangiavamo bucce di patate, notti all’addiaccio, dormivamo nell’acqua e al mattino sull’attenti per salutare il tricolore. Eravamo ragazzi, fieri della nostra patria, della bandiera, di quella divisa, e pronti a morire per difenderla. Eravamo soldati.
Un fiume di ricordi trasforma un pomeriggio di studio su carta in studio su vita, e non è nostalgia: mi trasmette fierezza, orgoglio di essere italiana. In casa mia c’è il tricolore, non in altre case, e questo mi rattrista. Quest’anno sono stata a New York e la Stars and Strips (stelle e strisce), la bandiera americana, sventola in ogni dove. Perché da noi no?
Laura per avere la luce, la speranza, dovete ricominciare a combattere per i nostri colori con passione, purezza di spirito. E sarà dura, il nemico è la dimenticanza, l’ignoranza, non conoscenza di ciò che è stato. Non scordiamo cosa significa “fonderci insieme”. Lo cantiamo con la seconda strofa dell’inno di Mameli. La rammenti vero? Te l’ho insegnata quando avevi cinque anni, forse eri troppo piccola.Poi l’hai, l’avete cantata a scuola, solo una parte, però l’avete fatto, in quinta elementare avevate il grembiulino blu e il nastro tricolore. È questa la strada giusta da percorrere per raccoglierci sotto un’unica bandiera, a voi ragazzi il compito di trasformare in certezza la speranza di tornare a essere un popolo.
I colori sono diversi, distinti, ma legati insieme: il verde, il bianco e il rosso. Al mattino alziamoci e salutiamo la bandiera, il nostro tricolore.
Nonno, non è facile combattere contro l’ignoranza, nel senso di non conoscere, come si può fare?
Non arrenderti, canta l’inno in piedi, metti la mano sul cuore e vedrai che altri ti seguiranno.
Vedrai che riuscirai.
Grazie nonno, finché ci saranno persone come te e ci aiuteranno,tutto sarà più semplice. Mi alzo e l’abbraccio. Ritorno al mio libro di costituzionale, nelle orecchie l’inno nazionale e quella seconda strofa che nessuno ricorda.
Sono passati molti anni da allora, e il tricolore a casa mia continua a sventolare. Tutte le mattine il pensiero va a mio nonno, che non c’è più, e al suo insegnamento. Porto la mano al cuore.

Racconto di Laura De Filippo

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Giacca di pelle con la decalcomania di un teschio infuocato sulla schiena, stivali da pioggia, e il cappello degli Yankees messo a rovescio, tutto largo e tutto rigorosamente pesato. Franco, il ragazzino problematico degli Stagi, così dicevano i vicini, inforcò la bici Saltafoss, sellino lungo, ammortizzatori anteriori e posteriori e si diresse verso la montagnola di terra formatasi durante i lavori di costruzione del quartiere Gavi: sei palazzine di otto piani senza ascensore. Per gli altri bambini era Pesolordo, un modo per prenderlo in giro due volte, per la sua corporatura, sessanta chili concentrati in un metro e quaranta di altezza, e per l’ossessione per la matematica. Fosse nato un paio di lustri più tardi gli avrebbero diagnosticato l’autismo, ma nel 1978 chi manifestava quel tipo di problemi era, per sempre, un minorato mentale. Aveva calcolato distanze, pendenze e la variabile gravità, per questo aveva preso in prestito i vestiti di suo zio Gianni, un ventottenne scapestrato, e li aveva pesati sulla bilancia in cucina e in quella del bagno. In una gara in discesa la massa era essenziale. Per toccare la velocità prestabilita doveva raggiungere gli 81 chili, non uno di meno non uno di più. Per questo alla fine collocò sopra il manubrio un mangianastri con inserita una cassetta dei Pooh, il suo gruppo preferito. La salita fu faticosa, scese dalla bici diverse volte per spingerla a piedi, qualcuno dal basso rideva di lui, Franco non se ne curò, aveva un unico obbiettivo in testa. Giunto in cima si asciugò il sudore con il panno che teneva sotto il sellino. Rifece a mente i calcoli e i computi, le formule gli balenavano davanti agli occhi chiare come farfalle in una sera d’estate. Iniziò la discesa. Percorse il pendio per una ventina di metri con una pendenza di 14 gradi, poi una leggera curva a sinistra con un inclinazione minore e di nuovo a destra per gli ultimi 37 metri, ogni tratto era stato misurato con il righello di scuola. Doveva ricordarsi di chinare di più la Saltafoss nella svolta a destra e percorrerla un po’ più stretta del normale così da arrivare alla meta a una velocità di 45 chilometri orari. Tra scossoni e vibrazioni metalliche stava comunque procedendo bene, finché il berretto non calò sugli occhi oscurandoli per una frazione di secondo, tempo sufficiente a cambiare traiettoria. Con la musica a tutto volume e pochi e distratti spettatori, andò a sbattere contro il masso che, se non avesse avuto inconvenienti, sarebbe rimasto pacifico un paio di metri alla sua sinistra. E con un effetto catapulta, annotò mentalmente Franco, volò in alto nel cielo. I presenti diranno poi di avere sentito un urlo di terrore. Ma in quei pochi secondi Pesolordo calcolò la velocità di caduta: 68 chilometri all’ora. Il suo, in realtà, fu un grido di giubilo.

Racconto di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Daniela Landini (instagram: dani_illustra)

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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La chiave entrò nella serratura, clack!
Cosa trovò il guardiano aprendo la cella, Marie non poteva vederlo, poiché lontana miglia: il suo Michè penzolava appeso a un lenzuolo. Così, dai suoi occhi, cadde, a goccia, la stessa stoffa.
“Cosa ti succede mia cara? Come mai piangi?” chiese la madre. Marie sapeva di amarlo, sapeva quanto poco spazio lui avesse per vivere, eppure rispose “non so”.
Il pianto smise quando una ragazza cerbiatto venne a dare la notizia: “Miché finirà in una fossa comune, senza cerimonia, senza benedizione, con solo una risposta a quel perché”. “Vorrei accarezzarlo un’ultima volta, vi prego” chiese Marie fresca d’un vuoto affamato e calda d’una lunga corsa improvvisa. Il guardiano negò. Aprì alla verità solo quando Marie mostrò una sacca da cui scaturì quel sole tascabile che piace ai ladri: “Portato via. Venduto a un vecchio tirafili che ogni inverno passa in città. Ora vattene donna”. E sbatté il portone sulla di lei disperazione.
A seguire tintinnarono le monete del sorvegliante sulle tavole, sempre di meno, come le foglie del calendario, sempre di meno.
Se l’anno è una ruota, fece un giro completo.
“Perché ci sono solo bambini in questo teatrino ambulante?” chiese Marie.
“Perché i bambini vogliono giocare con tutti, anche con la Morte, gli adulti invece no” rispose insinuante la signora del botteghino. E con l’arto intagliato nel mogano scostò la stoffa d’ingresso: “Prego, accomodatevi”.
Il teatrino delle ossa danzanti era tornato in città.
Scheletri manovrati dall’alto saltavano sul palco per la gioia incredula degli spettatori minorenni. La bigliettaia suonava un organo fatto dello stesso materiale dei ballerini. A fine spettacolo Marie, mossa da un macabro presentimento, corse dietro le quinte. “Dov’è il mio Miché?” e picchiò le mani da lavandaia sul petto del vigoroso marionettista. Lui le bloccò: “L’aspettavo. Ora tocca a lei scegliere, sa cosa troverà”. E la condusse davanti ad una porta.
Lei aprì il cuore vedendo quello scheletro accasciato a terra, con una corona d’oro in testa e un lenzuolo bianco come mantello.
“Che ne avete fatto della sua carne?”.
“I corvi ringraziano signora, è stato un duro inverno anche per loro”.
“Cos’è successo alla sua anima?”.
“Non so signora, io sono solo un semplice marionettista”.
Lo stallo della sposa fece capire all’artista il dovere da compiere.
Fece qualche passo, salì sul ponte di manovra, prese il ferretto centrale, i fili.
E Miché iniziò a muoversi. Marie si avvicinò quieta, gli occhi sbarrati.
Miché le fece una dolce carezza. E dalle orbite di Marie sgorgarono gocce d’osso.

Ispirato alla canzone “La ballata del Michè” di Fabrizio de Andrè e al fantasmagorico scheletro che Radis “The Gipsy Marionettist” Nikolic fa ballare durante i suoi spettacoli.

Tratto da “22 arcani circensi, freaks e simili” edizioni Il Cavedio

Racconto di Paolo Negri illustrazione di Eugenio Broggi

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“Una bella giornata, Agnese. Da tempo non ci concedevamo una gita in barca. Qui a Villagrazia ho respirato aria buona con te e i nostri figli. La settimana prossima ci torniamo con qualche amico, un pranzo in compagnia. Ti va?” Seduto sul dondolo in terrazza, la testa di lei appoggiata sulla sua spalla, gli occhi socchiusi, respira l’odore del sale tra i capelli ancora umidi dell’ultimo bagno, le sfiora il collo con un bacio e si alza con indolenza domenicale. Ci provano Paolo e Agnese Borsellino a trascorrere una vita normale. “Ora vi riporto a casa e passo a salutare mamma e Rita. È qualche domenica che non ci vado, mi aspettano. Un abbraccio, un caffè e sarò di nuovo da voi”. La moglie lo incalza, la scorta non è adeguata. Lui alza le spalle, non risponde, le sorride. Lo sa. Preferisce non stringere troppo la protezione intorno a sé: il bersaglio può diventare qualcuno della sua famiglia. Scrolla la testa per scacciare il pensiero. Sale in auto il morto che cammina, dead man walking, dice alla scorta. Sottovoce, che Agnese non senta. Sono passati 57 giorni. Li conta: giorni di morte per Giovanni, giorni di vita per lui. Regalati. La mafia non lascia scampo alle vittime designate. È un sopravvissuto. È in pericolo, ma crede nel suo lavoro. La paura non lo condiziona. Si mette alla guida. Non vuole nessuno. Gli agenti lo seguono. Niente sirene spiegate, una passeggiata in silenzio fino a via D’Amelio. L’auto arriva davanti al portone. Uno sguardo veloce con l’occhio abituato a cercare i particolari. Si lamenta a denti stretti. Troppe auto intorno alla casa di sua madre. Aveva chiesto alla Questura di rimuoverle. Erano ancora lì. “Non sarà la mafia a uccidermi, ma i miei colleghi a permettere che ciò accada”. Chiude con cura nella valigetta l’agenda rossa, il prezioso diario con i dati di indagini e riflessioni e scende dall’auto. Deve fare in fretta. Al fianco i giovani Emanuela e Agostino, orgogliosi dell’incarico. Vincenzo, Eddi e Claudio li precedono nel portone. H.16.58: suona il citofono. La Fiat 126 verde, che non doveva essere lì come nessun’altra auto, esplode. Una bomba radiocomandata a distanza. Più di 90kg di tritolo. È l’inferno. Auto distrutte dalle fiamme, gente che urla, corpi dilaniati. Un solo sopravvissuto, l’agente Antonino Vullo. Una tragedia greca, in cui fin dall’inizio incombe l’atmosfera di morte, ma qui manca la catarsi.
19 luglio 1992
È normale che ci sia la paura, ma combattetela con coraggio (Paolo Borsellino)

di Annarosa Confalonieri

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Guarda me. Gli occhi mi sfiorano, viola, con una luce intensa, misteriosa. Il colore dei fiori di lavanda. La sconosciuta è così vicina da sentirne il profumo. Ricorda i prati e le corse nel vento. Posso vedere il gesto nervoso con cui si aggiusta i capelli. Biondi. Però è lontana, perché non posso andare accanto a lei. A ogni mio tentativo si confonde di nuovo tra la folla. Una macchia bionda e viola tra questa gente chiassosa. La folla dell’Ippodromo, la sera.
Non ho mai visto tanti spettatori come per questa corsa e non ho mai visto una donna così bella. Deve avere mani morbide e tiepide, per accarezzarti. Invece stringono il programma delle corse.
Si allontana distratta, con l’attenzione ormai catalizzata altrove. Eppure mi ha visto, ho sentito uno sguardo viola bruciarmi sul collo anche mentre non ero più rivolto a lei. Forse mi ha scelto.
È sola, nessun maschio in giacca di lino e portafoglio rigonfio al fianco.
Va verso il picchetto, a puntare sulla prossima corsa. Non riesco proprio a seguirla. Ho già nostalgia di quello sguardo e delle carezze che non mi ha dato. Ma potrebbe. “Fantini in sella”. Chiamano i cavalli per la quarta corsa. La corsa a vendere. “Cavalli in pista”. Gli altoparlanti sono fastidiosi, stasera. Vorrei avere nelle orecchie solo il rumore di ruscelli che scorrono, nei prati viola di fiori. È salita in tribuna, ha un piccolo binocolo. Forse lo punterà su di me. “I cavalli sono all’ordine dello starter”. Inizia la corsa. “Partiti”. Zoccoli, frustini, zolle d’erba, le urla dei giocatori. Partiamo: le mie zampe, più leggere che mai. E veloci. Corrono come sui prati. Dove sono gli altri? Sento, dietro di me, rumore di fango calpestato, lontano. Non i respiri umidi dei cavalli, solo le redini leggere sul collo e le piccole cosce del mio amico in giubba colorata. Qualche voce dalla tribuna.
Ho vinto, esultano i pochi che avevano puntato su di me. Le mani del fantino mi sfiorano il collo: cuoio bagnato di sudore. O sono io che sono fradicio e il suo calore si confonde con l’eccitazione che il piccolo trotto degli zoccoli non calma, e neppure l’aria profumata che mi fischia nelle narici.
Ho vinto e il fieno croccante sarà doppio. Forse lei ha vinto con me, ed è una corsa a vendere. Eccola. Sventola felice il programma e mi fissa con i suoi occhi viola. Esco dalla pista accanto a lei. Avevo ragione: ha mani morbide.
Ci avviamo insieme al tondino. Sfilerò con gli altri mentre inizierà l’asta. E lei sarà la mia compratrice e io il suo nuovo amore.

di Angela Borghi

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I caccia si rincorrono e si sfuggono tra virate e cabrate. Mitraglia puntata, giro della morte e via. Alle spalle una scia di fumo. Abbattuto! Non sempre il nemico muore. Forati a più riprese i serbatoi, il nostro Cavallino rampante costringe un pilota rivale a scendere. Anche il vincitore atterra e gli si pone accanto. È un segno di rispetto. Si sincera che sia illeso e gli stringe la mano. Coglie l’espressione avvilita e gli fa coraggio. È un giovane austriaco che porta sull’uniforme azzurra la Croce di Guerra e la Medaglia al Valore.
“Me le sono guadagnate in Russia”, dice con orgoglio in un italiano dal forte accento tedesco. “Qui non sono riuscito a sfuggire alla sua caccia. Complimenti HerBaraka”. La voce rotta dalla stanchezza e dall’umiliazione.
“Sei fortunato, per te la guerra è finita. Tornerai a casa dalla tua famiglia”, lo conforta l’Asso italiano. “Meglio morto”, risponde l’altro, “con onore, in battaglia, abbattuto da lei, non salvato”. Impugna la pistola. Francesco deglutisce. Nell’aria la paura lascia il posto alla baldanza. Ma qui, con i piedi a terra, la morte sembra più vicina. Non è preparato. L’austriaco capisce.
“Un difensore della Patria non deve avere paura” gli dice. Lo guarda negli occhi e in un attimo una scia di sangue e cervello sporca il cavallino nero. Il corpo cade scomposto, gli occhi sbarrati. Baracca è stordito. Stringe i pugni. Poi sfila il guanto dalla mano destra e abbassa le palpebre dell’aviatore.
Rulla di nuovo il motore, dà gas, l’apparecchio prende velocità. Passione, genio, follia, come aveva detto suo padre. “Un difensore della Patria, non deve avere paura”, ripete. Non gli importa più nulla. Accada quel che deve accadere. A volo radente scende con il suo Spad S.VII in appoggio ai nostri fanti, esposto al tiro dei soldati nemici.

Francesco Baracca 9 maggio 1888 / 19 giugno 1918

Racconto di Anna Rosa Confalonieri, illustrazione di Alda M.C. Torri

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