A scuola lo chiamavamo Iena ridens. Se ne stava all’ultimo banco, capelli attorcigliati, denti verdi, orecchie e unghie sporche. Puzzava già di par suo e in più faceva partire loffie incredibili, per le quali veniva anche chiamato il loffione, e di soprannomi ne aveva un’infinità, da sorcio in avanti, e ve li lascio immaginare… Aveva un cognome che proprio non ricordo, finiva per u, ma per noi era solo Iena ridens e dicevamo… che cazzo ha da ridere sempre. Il primo mese nei corridoi non si parlava d’altro, poi fu dimenticato, là in fondo alla classe, e anche i professori, dopo qualche interrogazione nella quale scoprirono che era intelligentissimo e imparava solo stando seduto ad ascoltare, preferirono lasciarlo nel suo fetore, lontano. Solo la nuova professoressa di scienze, una terrona con i denti all’infuori e le gambe storte, lo interrogava, e anzi finì che interrogava solo lui, perché i due se la intendevano in quella materia, e lui era veramente un mostro e ne sapeva almeno quanto lei. Una domenica in primavera feci una passeggiata a Milano con la mia ragazza e al parco li vidi insieme, seduti su una panchina, mano nella mano. Non ci credevo, e siccome ero un adolescente pronto a qualsiasi scherzo per ridere degli altri incominciai a tramare, e presi informazioni sulla prof, ma quando scoprii che in un solo giorno aveva perso i genitori e l’unico fratello in un incendio, mi diedi del coglione e per espiare scrissi una poesia intitolata Cuori solitari che si incontrano, o qualcosa del genere, e non dissi mai a nessuno quello che avevo visto, nel terrore che la notizia finisse sui giornali, con titoli del tipo professoressa quarantenne aspetta un bimbo da alunno minorenne. All’inizio dell’anno successivo né l’una né l’altro si presentarono a scuola, e in quei giorni la polizia era sempre in presidenza, e un giorno la notizia finì addirittura in televisione, perché il sospetto era che il corpo di donna trovato in un bosco senza la testa fosse quello della professoressa di scienze. Iena ridens intanto era tornato a vivere al paese, fra pecore e capre, e non ha mai saputo, a oggi, di condividere il suo atroce segreto con me.

di Riccardo Ventolin, illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Lisa è una bambina curiosa, sempre intenta a fare qualcosa. Quel giorno si stava annoiando, era irrequieta. Decisi di portarla al parco per distrarla.
Abitavamo a metà collina e in basso, oltre la piazza, c’era il parco. Scendevamo chiacchierando, poi Lisa si divincolò e prese a correre. Era felice, non c’era in giro nessuno, non c’erano pericoli.
All’improvviso tutto cambiò: giù nella piazza un’auto l’attraversò veloce sgommando inseguita da due auto dei carabinieri.
Dissi a Lisa: “fermati”. Ma lei si girò e impertinente, da monella qual era, fece con le mani uno sberleffo. Le auto si fermarono con uno stridio di freni e dall’auto scese velocissimo un uomo e cominciò a correre verso di noi per sfuggire agli inseguitori. Dietro i carabinieri presero a rincorrerlo.
L’intenzione dell’uomo parve subito evidente: raggiungere la bambina e prenderla in ostaggio, lei andava spensierata nella sua direzione. Urlai con voce autoritaria “Lisa fermati”. Si fermò, si voltò, mi guardò incerta, quella voce non la conosceva e la mia faccia era terribile, non sorridevo più.
L’uomo continuava a correre e anche i carabinieri, ma la strada in salita rendeva più arduo il farlo.
Accelerai il passo per raggiungere mia figlia: parve che tutto si svolgesse al rallentatore. Rividi il giorno in cui nacque, un parto difficile che per poco non mi uccise, allora avevo temuto sarebbe cresciuta senza di me; mio marito era alla ricerca disperata di una medicina speciale per far cessare l’emorragia e giunse poi in elicottero; la lunga convalescenza, ora poteva finire tutto, Lisa presa in ostaggio dal delinquente, cosa le sarebbe accaduto, l’avrebbe portata via, l’avrebbe uccisa?
Scendevo con un passo veloce cercando di non spaventarla, Lisa era ferma, mi guardò, intuì che qualcosa stava accadendo, decise di tornare da me.
L’uomo aveva rallentato l’andatura, la salita era ripida. Dietro di lui il maresciallo tolse dalla fondina la pistola e gli ordinò di fermarsi.
Meno di dieci metri lo separavano da Lisa.
L’uomo si guardò attorno in cerca di una nuova via di fuga, la salita, più erta, gli impediva di accelerare la corsa, si fermò.
Raggiunsi mia figlia e la strinsi a me.
Il maresciallo pallidissimo, grondante sudore e paura, acciuffò l’uomo, e mentre lo ammanettava ci guardammo negli occhi per un istante lungo una vita e ci dicemmo tutto quello che le parole non avrebbero potuto dire. Mi fece un cenno di saluto.
Baciai Lisa, mentre tremante sentivo che le gambe faticavano a sorreggermi.
L’uomo disse qualcosa di offensivo ridendo sguaiatamente, poi sparì circondato dagli agenti.

di Elda Caspani, illustrazione di Giorgio Carro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


I giorni di un’agenda sembrano tutti uguali. Hanno un incedere lento e inesorabile. Nascono, vivono e passano. Un disegnatore e un narratore sono affascinati dalla circolarità che creano e vorrebbero raccontarne la storia, ma quando si avvicinano si accorgono che messi uno dopo l’altro i giorni non formano cerchi perfetti. Sono imprevedibili, diversi, in realtà non ce n’è uno uguale. A ben guardare, sono un po’ bislunghi. E ora tutto è più chiaro. Così è la vita e così è l’agenda del giocatore di rugby, fatta di appuntamenti e di partite, il Sei nazioni, il Tri Nations e il Mondiale ogni quattro anni, e ognuno ha la sua da annotare, lì accanto. E i giorni passano, lenti e inesorabili, e alla fine dell’anno sarà difficile gettare l’agenda.. Il piccolo giocatore ha sognato di diventare un campione e il campione di essere come quel piccolo, i valori restano, e questo è un pensiero bislungo. Ogni giocatore ha un suo ruolo e ogni ruolo ha il suo carattere, e questo è un altro pensiero bislungo. E poi ci sono le immagini, come quel cuore, scoperto, che corre per il campo, accanto a una palla ovale, e poi, dopo la doccia, il giocatore indossa la giacca e quel cuore ce l’ha ancora in mano. Alle spalle c’è un amico, e forse adesso l’amico chiede sostegno, e domani invece sarà lui a prendere, prima che cada, quella palla in mano. Ha la forma della vita, dei giorni imprevedibili, diversi l’uno dall’altro.

di Giangiacomo Furù, illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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All’uomo che raccontava storie d’amore veniva facile trovarle, per lui era come andare in un laghetto e gettare la canna con l’amo, e quando gli chiedevano da dove prendeva tutta quella fantasia diceva che bastava guardare, non c’era niente di speciale, e il segreto semmai era quello di cogliere l’attimo, e quando una storia passava lì accanto annotarla su un foglio di carta, perché le storie d’amore, diceva l’uomo che le scriveva, sono come i sogni, svaniscono… e poi si rincorrono le une con le altre, e dicono tutte la stessa cosa, ma in modo diverso, per questo chi non le conosce sostiene che sono una banalità e chi invece è un appassionato non ne trova una simile a un’altra, ma un conto è leggerle e un altro è vederle quando corrono silenziose lì accanto, e l’unico modo per sapere come sono fatte, e quindi riconoscerle, è di averne vissuta una, e se qualcuno non ha vissuto una storia d’amore non le distingue, e così davanti all’indifferenza vanno via come barche su un fiume…
E ciò che l’uomo che raccontava storie d’amore consigliava era di osservare, prender nota, e scriverle subito, e questa, diceva, era l’unica sua abilità, ma c’era una storia che anche lui non aveva mai scritto, ed era quella più importante, forse l’unica che avrebbe davvero messo nero su bianco, ed era la sua… e pensare che per essa avrebbe dato qualunque cosa, proprio qualunque, perché un uomo che scrive è disposto per il suo lavoro davvero a tutto, e ancora non aveva capito se questo impedimento sarebbe durato per sempre o se era solo un tragitto di sofferenza per il quale tutte quelle storie servivano solo per maturare la sua, quell’unica che avrebbe voluto raccontare, e fra le due ipotesi propendeva però per la prima, perché l’essenza delle storie d’amore è il segreto, e lui non ne aveva mai conosciuto una sbandierata ai quattro venti, e per questo, forse, raccontava quelle degli altri e non la sua.

di Anna Bentivoglio, illustrazione di Daniela Di Benedetto

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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È l’alba, Lilly, una femmina di cuculo dal dorso cenerino, si sveglia con le piume intirizzite dal freddo. Attende che il sole la accarezzi con i suoi raggi dorati e socchiude gli occhietti pregustando il suo tepore. Niente. Alza lo sguardo al cielo: cumuli di nembi si spostano minacciosi da nord-ovest e si ammucchiano sopra di lei. Si sgranchisce le ali e le frulla per riscaldarsi.
Poi si dà la spinta con le zampette e spicca il volo dal ramo dell’ontano dove si era riparata e sparisce tra le fronde degli alberi vicini, alla ricerca di un nido e di una madre adottiva che si prenda cura dell’uovo che porta in grembo.
E attirata dal fruscio di un cespuglio di tasso. Con un movimento rapido si appoggia su un sambuco di fronte, e dà una sbirciatina.
Tra le foglie appuntite scorge una capinera dal capo color ruggine. Ha un rametto stretto nel becco e allestisce un morbido giaciglio: è talmente concentrata che non si accorge di essere osservata.
Lilly ne valuta la costruzione, e considera che non sarà completata in poco tempo. Così riparte con un salto leggero.
Lascia il bosco e va verso le sponde di un fiume. In lontananza scorge un forapaglie intrufolarsi tra le fitte canne.
Si avvicina quanto basta per scoprire il nido. L’uccellino però non vola subito al suo nascondiglio, si mette invece su un bambù e controlla che nessuno lo veda.
Lilly conosce questa tecnica, e rimane a debita distanza, ma nell’istante in cui il forapaglie apre le ali diretto alla sua tana, il suo sguardo viene abbagliato dal riverbero del sole sull’acqua. Le nubi sono sparite, proprio adesso!
Quando rimette a fuoco, il volatile è scomparso.
Beh, almeno ora si può scaldare, e si concede un istante per recuperare le forze.
Ancora una volta l’occasione è sfumata, ma non si perde d’animo. Ne troverà un’altra.

di Olga Riva Rovaglio, illustrazione di Silvia Gabardi

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Era la mia vicina di banco, era una ragazza uccello, e la sua bellezza per la mia giovane anima fu un vortice fin dal primo giorno di scuola, io cercavo esperienze, e invece davanti a lei ammutolivo, ero confuso … E quella ragazza uccello l’avevo già vista una volta, l’estate prima, al fiume, c’era un gruppo di giovinette e con loro tre o quattro suore di un istituto, passeggiavano con i piedi nell’acqua, i sandali nelle mani, allineate nei loro colori azzurro e bianco, e in quell’insieme di corpi, dall’altra parte del fiume, io vedevo il suo petto risplendere al sole, e lei si staccò dalle compagne, e procedeva da sola, più indietro, aveva le gonne rimboccate ai fianchi e si chinava a raccogliere sassetti nell’acqua, li afferrava con le labbra a forma di becco e li lanciava in alto per giocare, scuoteva il lungo collo e dai capelli si staccavano gocce d’acqua tutto attorno, e camminava con passo lento, le sue gambe erano magre, e poi affrettò il passo, prese a correre e raggiunse le compagne, le sorpassò e tutte si misero a rincorrerla, e gridavano di gioia, lei volava radendo l’acqua e dietro uno sciame uniforme, e anche le suore correvano con le ragazze, e scomparvero alla vista, laggiù all’ansa del fiume… E quel primo giorno di scuola, nella confusione degli studenti, la riconobbi da dietro, dalle ali raccolte sotto la giacca e l’immagine di quella volta al fiume era fissa nella mia mente, quell’immagine era un sogno che non si dimentica… e ogni giorno lasciavo i libri a casa e così avevo una scusa per avvicinarmi al suo banco e seguire la lezione, mi sedevo lì accanto e non facevo che tremare, tutti i ragazzi erano innamorati di lei, e un giorno mi decisi, da tanto tempo preparavo le parole, e la toccai con una mano sulla spalla, era un giorno di pioggia, aveva le piume ancora umide, si voltò verso di me e mi guardò con i suoi occhi che erano gli occhi di un uccello, ebbi paura, le sorrisi appena e lei avvicinò il suo viso al mio e mi diede un bacio su un sopracciglio, e il sangue mi gocciolò nell’occhio, alla sera nello specchio guardavo quel segno, e quella cicatrice l’avrei portata per tutta la vita…e la mattina dopo mi alzai e sentivo di essere speciale, ero unico, e non temevo più la bellezza della ragazza uccello, ma il suo banco era vuoto, e tutta la settimana rimase così, nessuno sapeva niente, e allora andai dritto in presidenza, anche lì non avevano notizie, ma sul registro, accanto al suo nome, qualcuno aveva scritto che era volata via.

di Abramo Vane, illustrazione di Renato Pegoraro

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Sei e mezza di mattina, tutti a bordo e si parte. Il primo Frecciarossa schizza da Termini verso Centrale come un proiettile. E’ presto, ma a bordo la vita è già frenetica. Cellulari che squillano, appuntamenti da confermare, manager da rassicurare, ultime versioni delle presentazioni in powerpoint da inviare. E il carrello del caffè, come perderlo? La velocità mi circonda, tutto si muove troppo rapidamente, treno incluso. Ai tempi dell’Università si viaggiava di notte, salivo a Roma Tiburtina prima di cena e alle sei del mattino ero a Milano. Ora quei treni sono stati cancellati, per dare spazio a questi siluri da 300 km all’ora. Niente più notti in cuccetta, incontri casuali con una umanità varia per condividere poche ore, e lo spazio di una chiacchierata.
Cerco di immergermi nella trama del libro, ma è impossibile. I passeggeri di questa carrozza devono essere i predestinati alla soluzione dei problemi del Paese. Meetings rinviati, budget sottodimensionato, tagli allo staff, cambio di management. Chissà perché quando ci sono crisi da affrontare si passa subito all’inglese.
Decido di dedicarmi alla bellissima campagna romana, anche se la velocità non mi consente altro che guardare pennellate di giallo, invece di casolari di campagna. Schizzi di verde, e non pini. Mi chiedo se sia viaggiare, questo. O piuttosto spostarsi tra due punti, senza godere di ciò che si attraversa, senza soffermarsi. Una soluzione anticipata del raggio trasportatore di Star Trek. Poi, tutto si ferma.
Immobili in mezzo al nulla, un paesaggio attonito ci fissa come extraterrestri. Tutti si bloccano con lo smartphone a mezz’aria, con espressioni tra il sorpreso e l’incazzato come per dire ma io ho da fare, non posso mica fare tardi, e il management meeting, e il CEO non può aspettare… A venti metri da questo missile spiaggiato, un pastore e le sue pecore mi guardano. Lui avrà la mia età, e tiene un sigaro spento tra le labbra. Appoggiato al bastone mi fissa e accenna un saluto con la testa. E ridacchia, mentre parla al suo cane. Ride di un modo di vivere a lui incomprensibile, immagino. I suoi piedi lo portano in giro da decenni senza tentennamenti, per sentieri dove si confronta con la natura e le sue espressioni.
E c’è il tempo giusto per camminare, per accompagnare le pecore, per mungerle, senza fretta. La giornata è scandita da momenti che non puoi accelerare. Ogni cosa merita spazio, e rispetto. Ecco, questo è il suo viaggio. E quanto siamo lontani, anche se vicinissimi. Lui viaggia nella natura rispettando le sue regole, e noi oggetti sconosciuti voliamo basso, con l’illusione di far girare il mondo.
Il treno ha uno scossone, si riparte. Il pastore volge lo sguardo verso di me, si leva il cappello e
mi saluta, con la sua smorfia divertita.
E io mi sentirò più solo.

di Gianluca Fiore

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Accovacciati a cerchio, ci passiamo il calumet in senso orario e poi, al cenno di Ganascia Asimmetrica, in senso antiorario, giusto per evitare che l’ultimo giro risulti fatale ad Argano Sedentario, imbolsito dallo sniffare e insofferente per il gran gesticolare di Mimo Mutevole dei Choctaw.
L’unico viso pallido ammesso al Gran Consiglio sono io, Joe Perfiumi, per via della amicizia di sangue che mi lega a Poco Che Vaga dei Pawnee, giunto al campo con un cavallo senza i colori di guerra avendo inteso, dai segnali di fumo, che l’incontro fosse del tutto informale, senza vernice finale.
Nella tenda il fumo si è fatto coagulo e accorpa l’oppiaceo odore di erbe aromatiche al colloso sentore di tabacco di bufalo.
Il calumet passa di mano in mano e il fornello rovente, di argilla nerastra e a T rovesciata, accentra le rituali riflessioni.
“La guerra è guerra, se pace non è”. Chi potrebbe dissentire?
“Gli indiani dei laghi vogliono che l’arco inarchi le canoe contro il nemico”, mormora Anatra Spalmata , già nipote di Anatra Palmata, ultimo baluardo spianato dal Settimo Cavalleria. “Gli indiani delle foreste hanno infatuato di quarzo le punte delle frecce”. “Gli indiani dei fiumi stanno cotonando le criniere dei mustangs”.
“Per tirare, tira. Ma avrei preferito il cannello di legno bombato”, commenta Ganascia Asimmetrica.
L’annotazione impone attimi di silenzio, ma qualcuno abbozza il refrain del tormentone “Chi dissotterra l’ascia?”
“I tendini disseccati del Maggiore Pearson sono ali per i mocassini”. “Gli indiani delle colline hanno appeso le faretre ai rami degli ontani. Quelli vicini”.
“Guerra chiama guerra”.
“Se nel deretano del nemico infilo radici di tamarack, che dirà poi la mia donna che invoca pace?”
Il calumet si è fatto ustionante e le perle di vetro aggiunte al cannello si sono liquefatte.
“Non ci sono più i corsetti di ermellino di una volta”.
“Lo scalpo ben acconciato è terapeutico come l’ipnosi del gufo”.
“Guaina stretta, guaito di cane reietto”.
“Se rimetto il tomahawk nella rastrelliera, mia suocera mi chiederà perché mai ho rimesso il tomahawk nella rastrelliera” Il fornello del calumet non è più una T rovesciata.
È un grumo di fuoco, una vampa che avvampa.
Un perdurante silenzio, il silenzio finale.
La parola va al più anziano, percorso dalle rughe di cento primavere spese così così.
Renna Centenaria è sorda come un gufo in pastella di tufo.
Capisce rane per rame e allora bisogna far credere a tutti che siano la stessa cosa.
Il Vecchio pensa e ripensa, per poi illuminarsi negli occhi già proiettati verso l’oblio.
“Quando si è sotto vento, solo allora capisci la sagacia del fagiolo”.
Allora guerra sarà.

di Carlo Cavalli, foto da collezione privata

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Il bicchiere sul comodino con i residui del vino non bevuto, il libro sul pavimento, caduto aperto sulla pagina che leggeva. La cassapanca divelta con forza. Era tutto in disordine, vestiti sulla poltrona, sul tappeto, la cassaforte svuotata.
La stanza era stata fotografata dalla scientifica, catalogata dai colleghi, io ero arrivato a fasi preliminari concluse. Raccolsi il libro, “il sangue reale”, un giallo medioevale. La copertina aveva una spada come quella di Re Artù, sporca di sangue gocciolante. Che coincidenza, la vittima era stata uccisa con un coltello che avevano lasciato sul letto ed era sporco di sangue gocciolante. La ferita non sembrava mortale, la giugulare era stata sfiorata.
Nel libro c’era un pezzo di carta strappato, un angolo di un foglio di quaderno, con scritto “Venere”. La colluttazione era stata violenta, forse il padrone di casa aveva sorpreso il ladro alla cassaforte e aveva tentato di fermarlo ma era stato ucciso con il colpo alla gola.
Due giorni dopo il ritrovamento del cadavere mi consegnarono il referto del medico legale: avvelenamento. Visto che coltello e avvelenamento non mi quadravano, chiesi di analizzare di nuovo le prove raccolte per approfondire le ricerche del veleno. Il coltello, in effetti, risultò positivo alla oleandrina, sostanza velenosa dell’oleandro giallo. La signora Odette, la moglie della vittima, era disperata. Non riuscivamo a parlarle, ci servivano delle risposte e lei veniva sedata dal medico. Feci una passeggiata per tornare a casa, pensavo alla copertina del libro e a quel pezzettino di carta, la parola Venere mi riecheggiava in testa. Ero davanti alla porta di ingresso, squillò il cellulare, era il mio collega che mi chiedeva di raggiungerlo, la signora Odette aveva avuto un attacco cardiaco ed era morta.
Trovammo un biglietto scritto dalla signora, aveva delle parole sbavate: L’aiuola centrale era il nostro sogno, la più bella del mondo, i fiori erano un incrocio tra l’oleandro giallo e le viole. Erano i fiori del nostro primo incontro. I petali con striature di entrambi i colori, la pianta si ergeva a cespuglio. Ci vollero dieci anni per quei risultati. Venere, questo era il suo nome. Per quella bellezza sfrontata e ostentata, come la dea. L’altro ieri pomeriggio abbiamo potato i rami per darle una forma armonica, Robert ha usato il suo coltello per qualche finitura. Quel medesimo coltello usato per ucciderlo. Mi aveva chiesto di pulirlo con molta cura. Se l’avessi fatto forse sarebbe ancora vivo. Non riesco a stare senza di lui. La signora aveva preso delle foglie del loro arbusto e le aveva usate per il suo tè del pomeriggio.

di Laura De Filippo, illustrazione di Letizia Ghirotto

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È quell’ora particolare in cui la notte ha appena abbandonato le sue vesti sul mondo e il giorno non le ha ancora raccolte. Jack stringe nelle mani sudate il volante color avorio della Mercedes cabrio di Fat Boy, lo sguardo chimico di chi ha ingoiato anfetamine, gli occhi incollati sulla stella a tre punte che come un faro emerge dal cofano e gli indica la via: sempre dritto davanti a sé.
Jenny, la spogliarellista del Garden, con quella voce roca e sensuale, un corpo da urlo e decine di banconote da venti infilate nelle mutandine, lo stuzzicava, “Con quegli occhi da Paul Newman che ti ritrovi dovresti spaccare il mondo.”
Jack spaccò un paio di denti con una chiave inglese da 32, ma della bocca sbagliata. Frantumò le labbra e gli incisivi di Fat Boy, il figlio del boss.
Quella sera era andato a casa sua, un lavoretto da niente, gli aveva anticipato. Il ciccione stava lucidando la Mercedes verde bottiglia. Jack lo invidiava per quella macchina. Con un panno in pelle di daino Fat Boy insinuava le dita grassocce tra i raggi della stella a tre punte.
Gli mostrò una foto con un indirizzo scritto sul retro.
«Non ammazzo bambini»
«E che sei Jack? Una checca? Mio padre dice che lo devi fare tu.»
«Non ammazzo bambini, ho detto.»
«Non sei tu che decidi quello che devi fare, è mio padre che te lo chiede e quello che chiede mio padre
si fa, che piaccia o no.»
Al “piaccia”, Jack afferrò la chiave inglese, e al “no”la usò. Lo lasciò a terra sanguinante e salì sull’auto verde bottiglia. Mentre usciva dal garage, Fat boy gli strillò dietro, e ora sembrava lui la checca.
“Fiiiglio di puttaaaanaaaa”.
Avrebbe dovuto spaccargli anche il cranio, ma non lo fece. Fu un errore, il vantaggio sarebbe maggiore.
Il boss sguinzagliò i suoi cani per la città in meno di mezz’ora, un tempo davvero troppo breve.
La strada è deserta, diritta, la traiettoria di un proiettile, Jack viaggia a centoventi miglia orarie, e neanche l’ombra di una fottuta pattuglia della polizia della contea di Horn. Ovvio, sono tutti nel libro paga del boss.
I segugi sono vicini, nella notte hanno guadagnato terreno. Li immagina ridere sguaiati, con i loro fucili a canne mozze e l’odore di acqua di colonia tipico degli Italiani. Immagina anche Jenny e l’effetto che gli fa sa di goodbye e malinconia.
Dallo specchietto retrovisore Jack ora li vede. Il paraurti della Cadillac quasi bacia quello della Mercedes. Riconosce i volti. Jonny, Santo e sul sedile posteriore, Rizzo. Peggio non poteva capitargli.
Il cielo si colora, l’indicatore del carburante è a fine corsa, la stella a tre punte brilla nei primi raggi di un
sole annoiato, e Jack, come una pernice sopra un prato dipinto, non può volare via.

di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Mauro Speri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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