Io lo conoscevo bene, era un bravo ragazzo, ma di quelli proprio bravi, ed era anche il ragazzo più buono e pacifico che avevo mai incontrato… un giorno, pensate, camminavo con lui e a un certo punto cambiò passo solo per non calpestare un insetto che gli attraversava la strada, e in vita sua non aveva mai fatto male ad anima viva, e anche con gli amici era generoso e non chiedeva mai niente in cambio, e anzi faceva buone azioni di nascosto, come quella volta che aveva messo i suoi risparmi in una busta sotto la porta di casa di una compagna di classe il cui padre aveva perso il lavoro, e io lo avevo scoperto per caso perché aveva usato un tipo di busta che gli avevo regalato io, e quel ragazzo era singolare, era uno che pensava con la sua testa, e anche quella sera non chiese niente a nessuno, e fu coraggioso, e uscì di casa con la carabina a piombini di suo fratello maggiore e la scure dello zio che lavorava in campagna, e li fece fuori tutti, in un raggio di dieci chilometri, e forse avrebbe ripulito l’intera provincia se non l’avessero colto sul fatto, e i babbi natale di plastica li fece esplodere come rane gonfie d’aria, e quei babbi natale sagomati che si arrampicavano sulle finestre li squartò come le prostitute di Jack lo squartatore, e infatti quei babbi natale erano prostitute e con il Natale non c’entravano niente, così come tutte quelle luci che addobbavano le vie della città un mese e mezzo prima, e anche in questa azione risolutiva lui aveva dato prova della sua immensa bontà, e se noi fossimo una società per bene gli daremmo una medaglia come a un eroe che salva la patria uccidendo i nemici, ma siccome siamo quello che siamo, lui adesso giace in una cella oscura… e i commercianti urlarono che volevano essere ripagati del danno, e la televisione, che vive sugli spot della pubblicità, affermò che era un criminale, e i giornali scrissero che un ragazzo dall’infanzia infelice aveva ucciso il Natale, e siccome ogni azione trova sempre dei proseliti, io l’altro giorno al bar dissi che quel ragazzo rappresentava il risveglio delle coscienze… e questo è il motivo fondamentale per il quale la mia scrittura è tanto incerta, trovandomi io disteso, con un occhio nero e un braccio ingessato, in un letto di ospedale.

di Riccardo Ventolin, illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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“Insieme a te non ci sto più
Guardo le nuvole lassù”

Guardo le nuvole, in quest’isola dal profumo di vaniglia dove la giornata ha il passo lento e gli occhi trovano sempre il cielo. Cammino tutti i giorni sui sentieri che portano al mare e sciolgo il peso che la vita con te mi ha lasciato sul cuore. A ogni grido di uccello nel bosco o nuovo panorama che si offre mi sento più leggera. Non ho nostalgia del tempo passato con chi confonde il possesso con amore, con chi non conosce la tenerezza né condivide un momento di allegria.
Ero abbagliata dalla tua personalità, dalla tua energia e da tutto quello con cui mi hai circondata, le sbarre dorate di una gabbia che mi hai costruito intorno a poco a poco. Sono stata debole, senza la forza di volare via da un rapporto avvelenato dalla prepotenza, dalle parole usate come armi contro di me, dalla gelosia malata.
Ma un giorno ho riconosciuto le ferite che avevo sul cuore e ho preso l’aereo, sono venuta qui. Non sei riuscito a fermarmi.
Dalla finestra della mia stanza che lascio aperta giorno e notte vedo quando le strisce di nuvole bianche attraversano il cielo, si colorano di grigio e promettono la pioggia oppure quando i cumulonembi si alzano come montagne e le barche dei pescatori si affrettano in porto. Le voci del mercato che riempie le vie del paese mi fanno compagnia.
Qui la gente è cordiale e discreta. Non mi chiede perché sono sola, sa che non sono triste.
E i lividi sulla mia pelle non si vedono quasi più, coperti da questo sole che scalda e abbronza. Mi sono organizzata e sono stata brava, ho disposto tutto per restare sull’isola. Non so per quanto, ma non ha importanza. Non tornerò da te, questo è l’importante, né in una città dove mi hai isolato da tutti e reso una vittima.
Ora smetto di scrivere questa lettera, che comunque non ti spedirò mai.
Non ho tempo, devo uscire a guardare le nuvole e fra me canto questa canzone.

“Io cerco boschi per me
E vallate col sole più caldo di te
Insieme a te non ci sto più
Guardo le nuvole lassù”

di Angela Borghi, illustrazione di Marzia Nigro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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«Con la costruzione del muro non possiamo più accedere ai nostri terreni. Tutto quello che avevamo ci è stato rubato. Piangiamo, ma nessuno vede le nostre lacrime» dice l’uomo intervistato. Il microfono torna alla giornalista, che spiega: «Iniziata nel 2002, la barriera che separa Israele e Cisgiordania è lunga 570 Km ed è stata costruita quasi interamente sulle terre palestinesi».
Khaled ripensa alla sua infanzia, e incide il cartoncino. Agli oliveti del nonno, e cambia direzione alla lama. Al kanafeh* della mamma, e fa l’ultima rifinitura: una sagoma emerge dal niente.
Anche la sua famiglia aveva subito l’esproprio della casa. Da quel momento tutto era cambiato: i genitori erano emigrati al nord, suo fratello si era stabilito in Grecia e lui si era trasferito nel quartiere arabo a Gerusalemme. Non li aveva più rivisti, solo qualche telefonata.
L’appartamento che condivide con Hassad, è ricavato in un vecchio capannone industriale. Entrambi appassionati di street art, hanno creato un laboratorio, un alveare di lamiere in cui nutrire le proprie idee. L’area è diventata un punto di riferimento per altri writers a cui piace sperimentare.
Il suo ulivo di carta è lì, disteso, riposa. Ma al posto delle olive ha intagliato delle bombe. Khaled guarda la sua creazione con un misto di apprensione e adrenalina. E’ la sera giusta. Non vede l’ora di vederla abbracciare la parete. Si preparano, il furgone viene stipato di secchi di vernice, bombolette, rulli… Sulla barriera ci sono telecamere e mitragliatrici controllate da soldati nelle torri di controllo ogni pochi metri. Tutto si gioca su chi è più veloce: l’artista o i soldati. Hassad e Khaled si arrampicano su una porzione di muro sgombra. La telecamera si gira verso di loro, inizia il conto alla rovescia. Assemblano lo stencil e lo incollano. Compaiono dei poliziotti in lontananza. Khaled spruzza la bomboletta del nero sugli “ordigni”. I soldati sono già a cento metri da loro. Un’ultima spolverata di verde alle “foglie” e poi la scala scompare nel veicolo, che sgomma verso il buio delle case assonnate, tallonato dalla camionetta mimetica.
Quando sono sicuri di non essere più seguiti, si fermano. Arrivano allo skate park, rifugio di artisti e sbandati. Aprono il portellone con gli occhi accesi, sono euforici. L’alba proietta le loro ombre sulla strada e le nuvole corrono veloci, svegliate dalla luce solare. Khaled guarda in alto. Quelle forme astratte sono la sua fonte di ispirazione, la loro libertà trascende ogni confine.

*dolce palestinese simile al cheese cake

di Olga Riva Rovaglio, illustrazione di Silvia Gabardi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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Grape Creek, in mezzo al nulla texano. Quattro case, un saloon, uno spaccio che vende di tutto, il maniscalco. La mainstreet si srotola davanti a me, una lingua di terra che è polvere d’estate e fango d’inverno. E in fondo alla strada lui, che mi urla metti mano alla pistola, se non sei un codardo. Mezzogiorno è passato da un pezzo, e quel bastardo si è posizionato nel migliore dei modi. Ho i raggi del sole negli occhi, un bel limite che si aggiunge alla mia giovane età e all’inesperienza con le Smith&Wesson. Come ero finito lì, a difendere la mia vita? Al solito, come tutti i maschi di questa terra. Per una donna. Mezz’ora fa entra nel saloon questo sgherro vestito di nero e acciaio, l’ambiente ammutolisce e il mio vicino mi fa quello ha già fatto fuori un paio di sceriffi. Gli dico beh tanto noi lo sceriffo non ce l’abbiamo mai avuto, ma poi mette gli occhi su Jane. Già, la mia Jane. Stiamo assieme da un anno, e stiamo risparmiando qualche dollaro per costruire un piccolo ranch. Vorremmo cominciare con poco, e poi magari allargarci, se tutto andrà bene.
Ormai sono cotto a puntino, lei lascerà il saloon dove canta e serve ai tavoli e sarà solo mia. Insomma, lui le si avvicina e comincia a toccarle il braccio, ma lei si ritrae. Il padrone del saloon gli fa Jack lascia stare la ragazza, è promessa. Lui gli risponde che non gliene frega nulla e che si sarebbe preso quello che voleva, e cinge Jane per la vita dicendole vieni qui bella pollastrella.
Sparo un paio di colpi in aria, tanto per far capire che non sarei rimasto lì a guardare, e lui si gira verso di me e dice bene, vedo che c’è qualcuno a cui non va come mi comporto. Ride mostrando i suoi denti marci e mi fa un giorno senza sangue è come un giorno senza sole, esci fuori e combatti da uomo, se davvero lo sei.
Ed eccoci qui. Il mio futuro contro questo imbecille. In strada, nessuno. Le finestre del paese chiuse sprangate, ma so che tutti sono lì dietro, ad aspettare.
Spalla contro spalla, venti passi e poi si spara. Uno, due tre, quattro… penso al nostro primo ballo, a quando ti ho stretto e tu mi hai baciato… dieci, undici, dodici…e al pezzo di terra dove sogno la nostracasa, e i nostri figli che razzolano davanti alla porta… diciotto, diciannove, venti.
Mi giro, un’esplosione.
E la voce di mio fratello che mi prende in giro dopo aver fatto scoppiare un palloncino: scemo, ti sei addormentato al sole! Anche con la pistola ad acqua sul petto, ma chi ti credi di essere, John Wayne? Io mi guardo attorno, mi tocco le gambe, il petto, la pancia. Sono ancora vivo. E di Jack non c’è l’ombra.

Racconto di Gianluca Fiore, illustrazione di Benedetta Fiore 

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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“Il signor Lucas è atteso al gate 10, il signor Lucas è atteso al gate 10”.
Il signor Lucas fissa la moquette blu della sala Lounge, luogo insolito per chi non ha mai accumulato miglia. Sta usufruendo di quelle del genero, un rappresentante che vanta un passaporto pieno di timbri. Il suo invece è immacolato, le pagine rigide tagliano le dita. Settantasei anni, di cui molti passati a lavorare nel calzaturificio di famiglia, dopo gli studi di ragioneria e qualche sogno nel cassetto infranto dalla leucemia del padre. Due figlie, e una villa bisognosa di manutenzione.
Adelaide, la moglie, aveva provato per anni a convincerlo. Lei amava esplorare luoghi lontani, per lui tutto ciò che non era percorribile con la sua Citroën era fuori questione, la diagnosi chiara: un’illogica paura di volare.
Non erano serviti i racconti sui colori acerbi dell’alba o sui solidi tramonti stagliati sulle cime delle Alpi. “Papà, dal finestrino ho visto la cima delle montagne, dove non arriva nessuno!” Gli aveva raccontato Mirna, la più grande, quando era diventata la compagna di viaggio fissa delle madre. A sedici anni distingueva la Jungfrau e lo Schilthorn, scenario di uno dei film di James Bond. Aveva provato così ad accendere la fantasia di un amante di Ian Fleming ma nonostante il signor. Lucas in quell’occasione avesse chiuso gli occhi e immaginato l’incanto degli occhi di Mirna per qualche secondo, l’idea di salire su un aereo gli aveva fatto arricciare il naso, in quel gesto di fastidio che non riusciva mai a nascondere.
Eccolo ora lì il signor Lucas, per i suoi cari Tancredi, in coda al Gate; le mani sudate gli fanno sgusciare il passaporto, la hostess sorridente ne percepisce l’agitazione e lo rassicura, andrà tutto bene.
Il decollo con stupore si rivela piacevole, la spinta lo incolla al sedile, gli sembra di essere su una giostra. La borsa scivola indietro, non se ne accorge; è troppo impegnato a pensare ad Adelaide, si sente più vicino a lei, per la prima volta dopo la sua morte, vicino al cielo e a quella sua curiosità di esplorare.
A velocità di crociera le assistenti di volo si preparano con i carrelli per il servizio. Sul sedile lato corridoio il signor Lucas si sporge verso il posto accanto al finestrino, rimasto libero. Ha acquistato due biglietti, non gli sembra giusto condividere quell’evento con qualcuno che non sia lei. Le cime si vedono a malapena ma ai suoi occhi si svela qualcosa di meraviglioso: nuvole e nuvole dipinte di arancio e rosa lasciano intravedere timidi triangoli di roccia. Ora ha capito. Come ha potuto aspettare così tanto, come ha potuto vivere sempre e solo al di sotto delle nuvole.

Racconto di Elena Bulgheroni, illustrazione di Silvia Bulgheroni

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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I pensieri di quell’americano con la giacca di pelle nella veranda del Continental riempivano la notte de Il Cairo.
Hanno ritrovato Emelius Brown, l’insigne egittologo, a vagare senza meta nel deserto dopo oltre una settimana dalla sua scomparsa, in preda alle allucinazioni.
Versa ancora in condizioni critiche per le gravi ustioni riportate.
Nessuna notizia, invece, dei membri della sua spedizione: se e quando Brown si sveglierà, potrà chiarire il mistero della loro sorte. Di tanto in tanto ha degli improvvisi, violenti attimi di lucidità.
Si riscuote, fissa il vuoto con gli occhi sbarrati, emaciato in viso; la pelle bruciata lo rende grottesco, una sorta di spettro abbronzato.
Farnetica, una litania che gli sale dallo stomaco, e in mezzo poche frasi appena comprensibili.
Quelle parole mi hanno convinto che il professore e la sua squadra fossero sulle tracce della vera sepoltura della regina Baketurel, grande sposa reale del Faraone Ramesse IX.
Sembra che un papiro rinvenuto da Brown raccontasse l’inganno con cui lo scriba Amenemopet fosse riuscito a nascondere la tomba della sua signora.
La soluzione si cela dietro il bassorilievo di un disco solare rinvenuto dal professore. Raffigura l’Occhio di Ra -il dio Sole dalla testa di falco -stretto tra due serpenti ornati della corona delle regine d’Egitto. Immagine insolita, sosteneva Brown, ma identica a un’altra presente nella falsa sepoltura: certo la prova di quanto affermava il papiro.
Il professore ripete ossessivamente questa frase: “…all’ora in cui Ra-Horakhty sarà al suo apice, fissa lo sguardo del cobra volto in direzione di Osiride e quegli ti rivelerà la via… “.
Credo sia la chiave per risolvere questo rompicapo.
L’americano afferrò il fedora posato sul tavolo accanto al whiskey e se lo mise in testa. Sono noto per il mio scetticismo verso ogni forma di magia o superstizione, continuò versandosi un altro mezzo bicchiere, ma questa convinzione ora vacilla.
Il mito narra che l’Occhio fu inviato da Ra nelle vesti della terribile figlia Sekhmet, “La Potente”, a punire gli uomini che gli si erano ribellati.
Feroce e spietata, quasi sterminò l’intera umanità bruciandola con il suo respiro di fuoco.
L’insolita gravità delle ustioni ritrovate sul corpo di Brown mi ha rammentato quella leggenda e suscitato un brivido di terrore.
Un uomo gli si accostò: – Il professor Jones? Henry Jones Junior?
L’americano annuì portandosi il whiskey alle labbra.
– Vengo dal Dipartimento delle Antichità. Il professor Brown è morto. Prima di spirare ha ripetuto a lungo questa parola: sekhem… Jones trasalì: Potenza!

Racconto di Daniele Bin, illustrazione di Lucia Casavola

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Aveva sempre un cappello in testa, i pantaloni sciupati, le scarpe un poco sporche, sembrava uno come tanti, invece lui era l’uomo che scriveva nel vento, e io ero la sua ragazza, da quando avevo vent’anni ero la sua ragazza, e lui scriveva nel vento, scriveva per me, e io non sapevo leggere nel vento, avevo imparato a leggere i libri, e la mia libreria si ingrandiva ogni giorno, ma il mio ragazzo non scriveva libri, lui scriveva nel vento, e io lo amavo, era così dolce, e tenero, lo amavo per quello che era, e non so neanch’io il perché, a volte lo dimenticavo, e poi lo amavo ancora di più, lui scriveva e io non capivo, però lo amavo, lo amavo sempre, e sentivo che mi perdevo in lui, e volevo fuggire, e poi tornavo con il mio amore che era tutta me stessa… e un giorno nel bosco sentii le foglie tremare, mi voltai ed era il vento, e nel vento lessi le parole, le parole che il mio ragazzo aveva scritto per me, e quelle parole sembrava di sentirle dalla sua voce, e il giorno dopo ancora, e ogni giorno leggevo nel vento… e quando noi due passavamo per strada, o stavamo con gli amici, eravamo solo marito e moglie, eravamo una coppia, come tante, e c’era la casa da mandare avanti, i bambini da crescere, il lavoro e la vita di tutti i giorni… e lui però scriveva nel vento, e io leggevo, e il nostro amore era il vento, e il vento sgretolava le montagne, e correva sul mare e tra le rose, e lui diceva che tanti scrivono ma pochi sanno leggere, e io allora gli dicevo che invece tanti leggono nel vento e pochi sanno scrivervi, e scherzavamo ancora come quando eravamo ragazzi, il tempo non era passato, e per noi c’era sempre un alito, anche quando nessuno lo sentiva… e io so una cosa, che alla fine del mondo, di tutti quei libri, di tutte quelle librerie e biblioteche, rimarranno solo le parole scritte nel vento.

di Anna Bentivoglio, illustrazione di Renato Pegoraro

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