Di una cosa vi sarei riconoscente, e so di apparirvi insensato, ma vi invito ad avere rispetto per le pagine bianche e perciò a non gettare i fogli di carta, essi hanno due facciate e su ognuna scorre la vita… E mi ricordo, e non era molto tempo dopo la guerra, io andavo all’asilo e non sapevo nemmeno che cos’era la guerra, e ai miei fratelli e a me non mancava niente, e i quaderni per tutti papà li portava a casa dall’ufficio, e su di essi facevo i miei disegni perché i bambini si esprimono con il disegno, e poi a otto anni scrissi la mia prima poesia, e la scrissi su una carta che avvolgeva il formaggio, quel giorno erano finiti i quaderni, e io sono arrivato alle scuole superiori senza mai comprarne uno, e a sedici anni di poesie ne scrivevo una marea e le regalavo a una ragazza, e così non ero mai solo e avevo sempre la speranza dentro di me, crescevo l’amore, e sentivo di diventare qualcuno, e la libertà me la conquistavo, e su quelle pagine bianche vedevo una strada, era la mia, quella e non altre, dal niente veniva fuori la vita dei pensieri, e i pensieri travolgevano la vita, erano loro la vita, e davanti alla pagina bianca si emozionavano, e anche quando divenni adulto i pensieri davanti a quella pagina si emozionavano come bambini, e come il fiume a un certo punto avverte il rumore del mare vicino a sé allo stesso modo le pagine bianche sentivano l’infinito, e riempiendosi, finalmente scritte, ritornavano da dove erano partite, da quell’unica pagina bianca che le avvolgeva tutte quante.

di Abramo Vane e illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Il giovane scrittore amava Bukowsky e beveva birra con l’amico Franz, e in uno di quei magici momenti scrisse che Charles era morto, e tutti noi ce lo ricordiamo ancora quando venne in redazione con quel suo pezzo e tremava come a un esame, e il più comico di noi, il miglior cavallo di razza che la redazione avesse mai avuto, ne ebbe a male perché anche lui scriveva libri e si chiamava Charles, e allora a sua volta buttò giù quella pagina meravigliosa che si intitolava Ti amo, tenera tata, e l’art-director, un tipo che sullo stomaco aveva un pelo lungo così, disse… una stronzata del genere non l’ho mai letta in vita mia, tranne quella di quel farmacista che si credeva un genio e ci aveva spedito un racconto pulp, quella nessuno poteva superarla, e allora nella mente mi passò un pensiero e subito lo fermai su un foglio bianco, lo leggevo e rileggevo e nel mio piccolo lo trovavo formidabile, e chissà quanti altri prima di me, nel fluire dell’energia vitale, avevano osservato quel pensiero passare lì davanti e non lo avevano colto, e quanti invece l’avevano sì fermato, su un pezzo di legno, su di una tela, oppure proprio su un foglio di carta, e quel pensiero era di sicuro già stato formulato, in altro modo, nella letteratura… E la letteratura circolava da una testa all’altra, da un’anima all’altra, e ognuno trovava uno spiraglio personale, una comprensione che era la sua, e nella nostra rivista l’energia era un fiume in piena, e se una sera ci trovavamo in dieci c’erano dieci discorsi diversi e simultanei, e ognuno li seguiva tutti, e se c’erano dieci bottiglie era un disonore se tutte e dieci non toccavano il fondo, e l’editore diceva sempre cribbio, qui non si vende una copia, e aveva ragione, quando si parlava di soldi sembrava che non avesse mai fatto altro nella vita, e la nostra esistenza assomigliava sempre più a quella dell’amico Franz che viveva in una catapecchia come un barbone, e forse lui aveva già capito quello a cui noi stavamo arrivando, ma per un’altra strada, perché le cose stanno in un certo modo e ci sono mille strade che portano a comprenderle. E questa, di nuovo, è letteratura.

di Yuri Sansilvestro, illustrazione di Renato Pegoraro

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Nell’aula al secondo piano regnava il caos da primo giorno di liceo, grida risate, sedie per terra.
Poi il silenzio. No, non era il professore di greco con fama di cerbero, né la bidella che ci chiedeva di star zitti, solo un’improvvisa ventata d’aria fresca che sapeva di mare.
Indossava una camicia trasparente e pantaloni morbidi che disegnavano forme generose per la sua età; i capelli color del grano le cadevano in massa sulle spalle, gli occhi verdi un poco divergenti, la pelle candida, bellissima.
Era Venere, ma ancora non lo sapevamo.
Noi ragazze, adolescenti bruttine degli anni Settanta, con i jeans a zampa d’elefante, maglioncini girocollo stile “marines” comprati al mercatino americano di Livorno, i capelli corti, la guardammo smarrite.
Lei invece non ci degnò di uno sguardo e raggiunse il gruppo dei ragazzi, trasformati in statue di cera con le gote arrossate e la bocca aperta, un intenso afrore adolescenziale.
“Mi chiamo Mariella”. Un nome banale, ma che importava in tanto splendore?
Marcello, il belloccio moro e litigioso, le sorrise accattivante. Valerio, il figlio del preside, brutto e brufoloso, si alzò: “Ciao, ti stavo aspettando”.
La prese per mano e l’accompagnò al banco vicino al suo, capimmo che la conosceva già. Le famiglie, si seppe poi, avevano deciso per loro.
Solo Nando rimase di spalle; lineamenti fini capelli lisci lunghi fino alle spalle si guardava compiaciuto nel vetro della finestra: “ma quanto sono bello?”.
Iniziò cosi e negli anni a venire fummo testimoni un po’ invidiose, tanti amori, troppa bellezza: il fedele Valerio, il bellicoso Marcello e poi Giovanni, Marco magari anche il professore di ginnastica, chi può dirlo?
Nando non si curò mai di lei e così pensammo che avrebbe amato una di noi e fu solo il primo di tanti che incontrammo poi, capaci di amare solo sé stessi. Nessuno la sentì mai ridere, né scherzare.
L’anno della maturità, Mariella non tornò dopo l’estate: diciott’anni anni soltanto e si era buttata dalla scogliera, sparita nel mare dove era nata. Un amore infelice, avevano detto, un amore non corrisposto.
“Perché, Mariella? Bellissima e amata da tutti” Troppo giovani per comprendere.
L’abbiamo ritrovata agli Uffizi di Firenze, in gita scolastica.
Una sala affollata, sul fondo “La nascita di Venere”: capelli color del grano, occhi verdi, la pelle candida, bellissima.
Nata tra i flutti, venduta a Vulcano, amata da Marte e ignorata da Narciso. Ci aspettava con un accenno di sorriso e abbiamo capito.
Per sempre Venere, dea dell’amore, morta per amore.

di Alessandra Stifani, illustrazione di Alessandro Boscarini

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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Uncle Goose ascoltava il desert rock sulla sedia a dondolo, dondolando nel Texas sotto al sole; scricchiolava la sedia, scricchiolava il vinile. Uncle Goose era il proprietario di una pompa di benzina quando ancora la benzina non esisteva. Ogni settimana una diligenza gli consegnava sigarette non ancora chiuse, buste, caramelle e pezzi di mondo importati dal futuro che a lui piaceva collezionare. Giusto quel martedì Uncle Goose guardava soddisfatto quell’insegna: “pericolo di morte”, creata per avvisare i viaggiatori di non toccare i fili della corrente di un treno che da lì a qualche decennio sarebbe arrivato. Il teschio, ivi presente, incrociò le ossa e soffiò beffardo qualche granello di sabbia. Uncle Goose, sibilando, lesse “pericolo di notte”, tirò fuori la pistola dal fondello e sparò al sole. Colpì quell’astro, sempre alto in quella terra, giusto in faccia. La caduta del corpo celeste fu perpendicolare al suolo terreste e la bocca di un pozzo accolse quella pillola gialla. Ovviamente s’inghiottì anche la sua luce poi ruttò. Fu così che Uncle Goose conobbe la notte.
Dopo una settimana si stufò del buio e cercò delle candele in magazzino. Tra insegne di sali dal Marocco, copertoni usati da Bobet per scalare l’Izoard, una stecca da biliardo spaccata in testa all’imbattibile automa Giorgio e una fasciatura per il mal di denti usata da Van Gogh sporca di giallo girasole, Uncle Goose trovò un richiamo per coyote. Uscì, e sotto la veranda, sotto il coperchio plumbeo, fischiò.
Passati sette giorni, Uncle Goose, sempre dondolandosi nell’oscurità e chiedendosi dove la diligenza fosse finita, vide arrivare un vecchio coyote. Gli si sedette ai piedi. Divennero amici.
La terza settimana arrivò un indiano alla guida di un uccello truccato. Si tolse il casco e chiese se avesse visto il sole. Il coyote strabuzzò gli occhi. Uncle Goose fece girare sull’indice destro la sua pistola e si mise a ridere. L’indiano capì, risalì sull’uccello e tornò a casa dove l’attendevano le sue api.
Fu un bambino, incaricato di andare a prendere un secchio d’acqua fuori dal paese, a imbattersi nel sole addormentato in fondo al pozzo. E quando sporgendosi, vide quella luce, pensò di averla combinata grossa e tornò a casa veloce come la paura. La madre lo accolse con quattro calci nel culo. La mancanza d’acqua infatti impedì di cucinare il risotto con salsiccia per lo zio Goose, venuto apposta dal deserto per mostrare al cognato una rarità che nessuno aveva in città: i lacci delle scarpe con le quali Elvis inciamperà a 16 anni, la sua prima volta su di un palco! Il nipote chiese allo zio: “Ma se tu hai i lacci delle scarpe, come farà a inciampare Elvis?”. Uncle Goose fece girare sull’indice destro la sua pistola e si mese a ridere.

di Paolo Negri, illustrazione di Paolo Negri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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Io lo conoscevo bene, era un bravo ragazzo, ma di quelli proprio bravi, ed era anche il ragazzo più buono e pacifico che avevo mai incontrato… un giorno, pensate, camminavo con lui e a un certo punto cambiò passo solo per non calpestare un insetto che gli attraversava la strada, e in vita sua non aveva mai fatto male ad anima viva, e anche con gli amici era generoso e non chiedeva mai niente in cambio, e anzi faceva buone azioni di nascosto, come quella volta che aveva messo i suoi risparmi in una busta sotto la porta di casa di una compagna di classe il cui padre aveva perso il lavoro, e io lo avevo scoperto per caso perché aveva usato un tipo di busta che gli avevo regalato io, e quel ragazzo era singolare, era uno che pensava con la sua testa, e anche quella sera non chiese niente a nessuno, e fu coraggioso, e uscì di casa con la carabina a piombini di suo fratello maggiore e la scure dello zio che lavorava in campagna, e li fece fuori tutti, in un raggio di dieci chilometri, e forse avrebbe ripulito l’intera provincia se non l’avessero colto sul fatto, e i babbi natale di plastica li fece esplodere come rane gonfie d’aria, e quei babbi natale sagomati che si arrampicavano sulle finestre li squartò come le prostitute di Jack lo squartatore, e infatti quei babbi natale erano prostitute e con il Natale non c’entravano niente, così come tutte quelle luci che addobbavano le vie della città un mese e mezzo prima, e anche in questa azione risolutiva lui aveva dato prova della sua immensa bontà, e se noi fossimo una società per bene gli daremmo una medaglia come a un eroe che salva la patria uccidendo i nemici, ma siccome siamo quello che siamo, lui adesso giace in una cella oscura… e i commercianti urlarono che volevano essere ripagati del danno, e la televisione, che vive sugli spot della pubblicità, affermò che era un criminale, e i giornali scrissero che un ragazzo dall’infanzia infelice aveva ucciso il Natale, e siccome ogni azione trova sempre dei proseliti, io l’altro giorno al bar dissi che quel ragazzo rappresentava il risveglio delle coscienze… e questo è il motivo fondamentale per il quale la mia scrittura è tanto incerta, trovandomi io disteso, con un occhio nero e un braccio ingessato, in un letto di ospedale.

di Riccardo Ventolin, illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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“Insieme a te non ci sto più
Guardo le nuvole lassù”

Guardo le nuvole, in quest’isola dal profumo di vaniglia dove la giornata ha il passo lento e gli occhi trovano sempre il cielo. Cammino tutti i giorni sui sentieri che portano al mare e sciolgo il peso che la vita con te mi ha lasciato sul cuore. A ogni grido di uccello nel bosco o nuovo panorama che si offre mi sento più leggera. Non ho nostalgia del tempo passato con chi confonde il possesso con amore, con chi non conosce la tenerezza né condivide un momento di allegria.
Ero abbagliata dalla tua personalità, dalla tua energia e da tutto quello con cui mi hai circondata, le sbarre dorate di una gabbia che mi hai costruito intorno a poco a poco. Sono stata debole, senza la forza di volare via da un rapporto avvelenato dalla prepotenza, dalle parole usate come armi contro di me, dalla gelosia malata.
Ma un giorno ho riconosciuto le ferite che avevo sul cuore e ho preso l’aereo, sono venuta qui. Non sei riuscito a fermarmi.
Dalla finestra della mia stanza che lascio aperta giorno e notte vedo quando le strisce di nuvole bianche attraversano il cielo, si colorano di grigio e promettono la pioggia oppure quando i cumulonembi si alzano come montagne e le barche dei pescatori si affrettano in porto. Le voci del mercato che riempie le vie del paese mi fanno compagnia.
Qui la gente è cordiale e discreta. Non mi chiede perché sono sola, sa che non sono triste.
E i lividi sulla mia pelle non si vedono quasi più, coperti da questo sole che scalda e abbronza. Mi sono organizzata e sono stata brava, ho disposto tutto per restare sull’isola. Non so per quanto, ma non ha importanza. Non tornerò da te, questo è l’importante, né in una città dove mi hai isolato da tutti e reso una vittima.
Ora smetto di scrivere questa lettera, che comunque non ti spedirò mai.
Non ho tempo, devo uscire a guardare le nuvole e fra me canto questa canzone.

“Io cerco boschi per me
E vallate col sole più caldo di te
Insieme a te non ci sto più
Guardo le nuvole lassù”

di Angela Borghi, illustrazione di Marzia Nigro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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«Con la costruzione del muro non possiamo più accedere ai nostri terreni. Tutto quello che avevamo ci è stato rubato. Piangiamo, ma nessuno vede le nostre lacrime» dice l’uomo intervistato. Il microfono torna alla giornalista, che spiega: «Iniziata nel 2002, la barriera che separa Israele e Cisgiordania è lunga 570 Km ed è stata costruita quasi interamente sulle terre palestinesi».
Khaled ripensa alla sua infanzia, e incide il cartoncino. Agli oliveti del nonno, e cambia direzione alla lama. Al kanafeh* della mamma, e fa l’ultima rifinitura: una sagoma emerge dal niente.
Anche la sua famiglia aveva subito l’esproprio della casa. Da quel momento tutto era cambiato: i genitori erano emigrati al nord, suo fratello si era stabilito in Grecia e lui si era trasferito nel quartiere arabo a Gerusalemme. Non li aveva più rivisti, solo qualche telefonata.
L’appartamento che condivide con Hassad, è ricavato in un vecchio capannone industriale. Entrambi appassionati di street art, hanno creato un laboratorio, un alveare di lamiere in cui nutrire le proprie idee. L’area è diventata un punto di riferimento per altri writers a cui piace sperimentare.
Il suo ulivo di carta è lì, disteso, riposa. Ma al posto delle olive ha intagliato delle bombe. Khaled guarda la sua creazione con un misto di apprensione e adrenalina. E’ la sera giusta. Non vede l’ora di vederla abbracciare la parete. Si preparano, il furgone viene stipato di secchi di vernice, bombolette, rulli… Sulla barriera ci sono telecamere e mitragliatrici controllate da soldati nelle torri di controllo ogni pochi metri. Tutto si gioca su chi è più veloce: l’artista o i soldati. Hassad e Khaled si arrampicano su una porzione di muro sgombra. La telecamera si gira verso di loro, inizia il conto alla rovescia. Assemblano lo stencil e lo incollano. Compaiono dei poliziotti in lontananza. Khaled spruzza la bomboletta del nero sugli “ordigni”. I soldati sono già a cento metri da loro. Un’ultima spolverata di verde alle “foglie” e poi la scala scompare nel veicolo, che sgomma verso il buio delle case assonnate, tallonato dalla camionetta mimetica.
Quando sono sicuri di non essere più seguiti, si fermano. Arrivano allo skate park, rifugio di artisti e sbandati. Aprono il portellone con gli occhi accesi, sono euforici. L’alba proietta le loro ombre sulla strada e le nuvole corrono veloci, svegliate dalla luce solare. Khaled guarda in alto. Quelle forme astratte sono la sua fonte di ispirazione, la loro libertà trascende ogni confine.

*dolce palestinese simile al cheese cake

di Olga Riva Rovaglio, illustrazione di Silvia Gabardi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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Grape Creek, in mezzo al nulla texano. Quattro case, un saloon, uno spaccio che vende di tutto, il maniscalco. La mainstreet si srotola davanti a me, una lingua di terra che è polvere d’estate e fango d’inverno. E in fondo alla strada lui, che mi urla metti mano alla pistola, se non sei un codardo. Mezzogiorno è passato da un pezzo, e quel bastardo si è posizionato nel migliore dei modi. Ho i raggi del sole negli occhi, un bel limite che si aggiunge alla mia giovane età e all’inesperienza con le Smith&Wesson. Come ero finito lì, a difendere la mia vita? Al solito, come tutti i maschi di questa terra. Per una donna. Mezz’ora fa entra nel saloon questo sgherro vestito di nero e acciaio, l’ambiente ammutolisce e il mio vicino mi fa quello ha già fatto fuori un paio di sceriffi. Gli dico beh tanto noi lo sceriffo non ce l’abbiamo mai avuto, ma poi mette gli occhi su Jane. Già, la mia Jane. Stiamo assieme da un anno, e stiamo risparmiando qualche dollaro per costruire un piccolo ranch. Vorremmo cominciare con poco, e poi magari allargarci, se tutto andrà bene.
Ormai sono cotto a puntino, lei lascerà il saloon dove canta e serve ai tavoli e sarà solo mia. Insomma, lui le si avvicina e comincia a toccarle il braccio, ma lei si ritrae. Il padrone del saloon gli fa Jack lascia stare la ragazza, è promessa. Lui gli risponde che non gliene frega nulla e che si sarebbe preso quello che voleva, e cinge Jane per la vita dicendole vieni qui bella pollastrella.
Sparo un paio di colpi in aria, tanto per far capire che non sarei rimasto lì a guardare, e lui si gira verso di me e dice bene, vedo che c’è qualcuno a cui non va come mi comporto. Ride mostrando i suoi denti marci e mi fa un giorno senza sangue è come un giorno senza sole, esci fuori e combatti da uomo, se davvero lo sei.
Ed eccoci qui. Il mio futuro contro questo imbecille. In strada, nessuno. Le finestre del paese chiuse sprangate, ma so che tutti sono lì dietro, ad aspettare.
Spalla contro spalla, venti passi e poi si spara. Uno, due tre, quattro… penso al nostro primo ballo, a quando ti ho stretto e tu mi hai baciato… dieci, undici, dodici…e al pezzo di terra dove sogno la nostracasa, e i nostri figli che razzolano davanti alla porta… diciotto, diciannove, venti.
Mi giro, un’esplosione.
E la voce di mio fratello che mi prende in giro dopo aver fatto scoppiare un palloncino: scemo, ti sei addormentato al sole! Anche con la pistola ad acqua sul petto, ma chi ti credi di essere, John Wayne? Io mi guardo attorno, mi tocco le gambe, il petto, la pancia. Sono ancora vivo. E di Jack non c’è l’ombra.

Racconto di Gianluca Fiore, illustrazione di Benedetta Fiore 

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“Il signor Lucas è atteso al gate 10, il signor Lucas è atteso al gate 10”.
Il signor Lucas fissa la moquette blu della sala Lounge, luogo insolito per chi non ha mai accumulato miglia. Sta usufruendo di quelle del genero, un rappresentante che vanta un passaporto pieno di timbri. Il suo invece è immacolato, le pagine rigide tagliano le dita. Settantasei anni, di cui molti passati a lavorare nel calzaturificio di famiglia, dopo gli studi di ragioneria e qualche sogno nel cassetto infranto dalla leucemia del padre. Due figlie, e una villa bisognosa di manutenzione.
Adelaide, la moglie, aveva provato per anni a convincerlo. Lei amava esplorare luoghi lontani, per lui tutto ciò che non era percorribile con la sua Citroën era fuori questione, la diagnosi chiara: un’illogica paura di volare.
Non erano serviti i racconti sui colori acerbi dell’alba o sui solidi tramonti stagliati sulle cime delle Alpi. “Papà, dal finestrino ho visto la cima delle montagne, dove non arriva nessuno!” Gli aveva raccontato Mirna, la più grande, quando era diventata la compagna di viaggio fissa delle madre. A sedici anni distingueva la Jungfrau e lo Schilthorn, scenario di uno dei film di James Bond. Aveva provato così ad accendere la fantasia di un amante di Ian Fleming ma nonostante il signor. Lucas in quell’occasione avesse chiuso gli occhi e immaginato l’incanto degli occhi di Mirna per qualche secondo, l’idea di salire su un aereo gli aveva fatto arricciare il naso, in quel gesto di fastidio che non riusciva mai a nascondere.
Eccolo ora lì il signor Lucas, per i suoi cari Tancredi, in coda al Gate; le mani sudate gli fanno sgusciare il passaporto, la hostess sorridente ne percepisce l’agitazione e lo rassicura, andrà tutto bene.
Il decollo con stupore si rivela piacevole, la spinta lo incolla al sedile, gli sembra di essere su una giostra. La borsa scivola indietro, non se ne accorge; è troppo impegnato a pensare ad Adelaide, si sente più vicino a lei, per la prima volta dopo la sua morte, vicino al cielo e a quella sua curiosità di esplorare.
A velocità di crociera le assistenti di volo si preparano con i carrelli per il servizio. Sul sedile lato corridoio il signor Lucas si sporge verso il posto accanto al finestrino, rimasto libero. Ha acquistato due biglietti, non gli sembra giusto condividere quell’evento con qualcuno che non sia lei. Le cime si vedono a malapena ma ai suoi occhi si svela qualcosa di meraviglioso: nuvole e nuvole dipinte di arancio e rosa lasciano intravedere timidi triangoli di roccia. Ora ha capito. Come ha potuto aspettare così tanto, come ha potuto vivere sempre e solo al di sotto delle nuvole.

Racconto di Elena Bulgheroni, illustrazione di Silvia Bulgheroni

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I pensieri di quell’americano con la giacca di pelle nella veranda del Continental riempivano la notte de Il Cairo.
Hanno ritrovato Emelius Brown, l’insigne egittologo, a vagare senza meta nel deserto dopo oltre una settimana dalla sua scomparsa, in preda alle allucinazioni.
Versa ancora in condizioni critiche per le gravi ustioni riportate.
Nessuna notizia, invece, dei membri della sua spedizione: se e quando Brown si sveglierà, potrà chiarire il mistero della loro sorte. Di tanto in tanto ha degli improvvisi, violenti attimi di lucidità.
Si riscuote, fissa il vuoto con gli occhi sbarrati, emaciato in viso; la pelle bruciata lo rende grottesco, una sorta di spettro abbronzato.
Farnetica, una litania che gli sale dallo stomaco, e in mezzo poche frasi appena comprensibili.
Quelle parole mi hanno convinto che il professore e la sua squadra fossero sulle tracce della vera sepoltura della regina Baketurel, grande sposa reale del Faraone Ramesse IX.
Sembra che un papiro rinvenuto da Brown raccontasse l’inganno con cui lo scriba Amenemopet fosse riuscito a nascondere la tomba della sua signora.
La soluzione si cela dietro il bassorilievo di un disco solare rinvenuto dal professore. Raffigura l’Occhio di Ra -il dio Sole dalla testa di falco -stretto tra due serpenti ornati della corona delle regine d’Egitto. Immagine insolita, sosteneva Brown, ma identica a un’altra presente nella falsa sepoltura: certo la prova di quanto affermava il papiro.
Il professore ripete ossessivamente questa frase: “…all’ora in cui Ra-Horakhty sarà al suo apice, fissa lo sguardo del cobra volto in direzione di Osiride e quegli ti rivelerà la via… “.
Credo sia la chiave per risolvere questo rompicapo.
L’americano afferrò il fedora posato sul tavolo accanto al whiskey e se lo mise in testa. Sono noto per il mio scetticismo verso ogni forma di magia o superstizione, continuò versandosi un altro mezzo bicchiere, ma questa convinzione ora vacilla.
Il mito narra che l’Occhio fu inviato da Ra nelle vesti della terribile figlia Sekhmet, “La Potente”, a punire gli uomini che gli si erano ribellati.
Feroce e spietata, quasi sterminò l’intera umanità bruciandola con il suo respiro di fuoco.
L’insolita gravità delle ustioni ritrovate sul corpo di Brown mi ha rammentato quella leggenda e suscitato un brivido di terrore.
Un uomo gli si accostò: – Il professor Jones? Henry Jones Junior?
L’americano annuì portandosi il whiskey alle labbra.
– Vengo dal Dipartimento delle Antichità. Il professor Brown è morto. Prima di spirare ha ripetuto a lungo questa parola: sekhem… Jones trasalì: Potenza!

Racconto di Daniele Bin, illustrazione di Lucia Casavola

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