Flock era un cane, ma non sapeva di esserlo. Era un pastore bergamasco e custodiva tre pecore, che lui considerava bambine, correvano indisciplinate, andavano su e giù dalla molera, e qualcuno diceva che praticavano “free climbing”. Flock, pur capace di discernimento, non sapeva come fare a convincerle che era pericoloso. La molera era alta, e se le pecore si buttano giù è sempre colpa del pastore che non sa guidare, custodire. Così Flock abbaiava e attirava la loro attenzione, prevenendo ogni sciagura.
Ma dentro di sé sapeva cosa vuol dire provare quella speciale gioia a misurare le proprie forze, proprio lui, taglia media, agile, veloce e resistente.
Nella sua onorata esistenza aveva tre sogni proibiti, li nascondeva sotto il ciuffo di peli per non mostrare gli occhi e rivelare i pensieri.
Il primo era di pizzicare le gambe di Beppe, il ragazzo della fattoria che ogni sera consegnava il latte. Una volta l’aveva rincorso, lo sciocco aveva lasciato cadere la bottiglia piena e il latte si era sparso per terra. Adesso, sgolandosi, lo sgridava, e Flock strofinava il muro per non passargli vicino.
Il secondo sogno lo aveva quasi esaudito, la volta che aveva inseguito il prete che veniva a benedire le case, un uomo alto, con la tunica lunga, nera. Quel giorno era di guardia, s’era sfilato il collo dal collare della catena e laveva fatto scappare, oh come correva, l’aveva raggiunto e addentato appena alla veste prima di essere afferrato dal padrone. Quanto l’aveva menata solo per un per pezzetto di stoffa.
Il terzo sogno, il più grande, forse un’ossessione che richiedeva una grande perizia, era quello di battere il “ciuff-ciuff”, il treno a vapore che alla sera passava accanto alla casa. Flock era sicuro di essere più veloce, e si allenava quando portava a spasso le tre pecore. Che corse esaltanti, che goduria sentire il pelo arruffato pettinato dal vento!
Sapeva sempre quando il drago-treno stava arrivando, udiva il “ciuff-ciuff” prendere velocità dopo essersi fermato alla stazione dietro la curva.
Una sera si liberò della catena in tempo, lo sguardo concentrato del predatore che attende la preda, la bocca aperta, la lingua penzoloni, i canini in vista. “Questa volta lo prendo, non mi scappa, lo agguanto”, pensava mentre sentiva il vento soffiare più forte e cercava di fermarlo, di spingerlo indietro. Ma lui amava il vento, era il suo alleato, ogni pensiero svaniva quando correva: la casa, la catena, le pecore. Nel vento era libero, non sentiva più nulla, nemmeno le bambine che, terrorizzate, quella sera gli urlavano di fermarsi. Flock corse invece più veloce, raggiunse il treno. Uno sulle rotaie, lui sul sentiero. Il treno, il vento… corsero, e poi… poi si incontrarono. Bum!

Di Elda Caspani

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


Ci sono arrivato in ritardo, è vero, ma alla fine anch’io ho capito perché nel mondo esistono bambini che nascono cerebrolesi o con handicap fisici e mentali, bambini che muoiono di fame, bambini senza un futuro se non di morire in mare, e tutti si pongono queste domande e se ne vanno con una scrollata di spalle, e poi tornano e si danno da fare affinché queste cose non succedano più, e invece accadono lo stesso, e alcuni sanno il motivo e lo spiegano, ma nessuno li segue, perché un conto è dirle o ascoltarle le cose, e un altro è comprenderle… E io quel giorno mi fermai in un paesino medioevale in Liguria, che prima era trascurato, anzi abbandonato dai nativi, ma poi erano arrivati dei gruppi di americani e di tedeschi, e che fossero ricchi lo si capiva da una profonda tristezza che raggiungeva il bianco degli occhi e lo colorava di grigio, e avevano aperto lì le loro botteghe d’arte, e così quel paesino dimenticato era divenuto un ritrovo particolare… e tutto era ben curato, in ordine, e si capiva che quelle opere di pittura, di scultura e di designer erano nate da una ricerca e da un gusto raffinato, e io guardavo in faccia quelle persone che avevano portato tante belle proposte, e i loro sguardi erano lame di rasoio e tagliavano di netto, esprimevano il desiderio di essere selettivi, di escludere chi non era al loro livello… e su questo discorso dell’arte avevo le idee confuse, e senza un motivo, davanti a una gallerista che tentava un sorriso cordiale senza riuscirci, pensai alle persone che soffrono, agli infelici, e poi fu inevitabile per me il pensiero sull’infinito, ed era un po’ che lo avevo maturato e mi stava sempre davanti come uno specchio, e quel pensiero era che tutta l’umanità è contenuta in un respiro, e i millenni dell’uomo sulla terra sono solo un respiro rispetto a quello che già esisteva prima e a quello che sarebbe esistito dopo, e in quel respiro c’eravamo dentro tutti, gli Omero e i Dante Alighieri e i Picasso, e ciascuno di noi. Un respiro però è solo un respiro, è parte di qualcosa di più grande, non esiste da solo… e non so per quale associazione di idee mi venne in mente quel ragazzo down figlio dei miei vicini di casa, lui tutte le mattine per un’ora di fila pianta chiodi nel parquet della sua cameretta con il martello del papà falegname e mi dà la sveglia come fosse il canto del gallo, e questo mio pensiero non era arrivato per caso, era un’intuizione, e così intesi quello che tanti avevano cercato di spiegarmi, e cioè che in quei ragazzi c’è l’anima di ciò che c’era prima e di ciò che ci sarà dopo. Un giorno, di tutto lo scrivere, il dipingere, il costruire non rimarrà nulla, l’arte sparirà e di essa rimarrà solo l’essenza, lo spirito, quello che il vero artista coglie, e che tutti noi vediamo in ognuno di quei ragazzi, quando piantano chiodi sulla nostra pigra coscienza e poi, in strada, ci salutano con semplici sorrisi.

di Abramo Vane . Disegno stile De Chirico

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Che ci faccio qui sopra, in un letto sulla capote di un’automobile?
Dovrei rispondere “è una lunga storia” o qualcosa del genere, in realtà non è né breve né lunga, è solo una storia.
Comincia molti anni fa, un sabato sera a cena, la pizza preparata da mamma in tavola e la partita di pallacanestro su RAI 2.
Papà era un appassionato, di quelli che non si scompongono mai, ma ci tengono.
Io, bambino, osservavo lo schermo senza capire granché.
Ogni tanto azzardavo una domanda, allora papà si voltava verso di me e provava a spiegarmi qualche regola del gioco, come quella dei passi o quella dei trenta secondi per tirare a canestro.
Immancabile, il mio disarmante “Perché?”.
Quella volta però, papà si era sbilanciato:“Se quest’anno arriva la Stella – aveva detto a voce alta – ti porto al palazzetto a vedere una partita dal vivo!”
La Stella…
Una nuova, misteriosa entità si affacciò nei miei sogni di bambino.
Per settimane fantasticai su cosa potesse essere, senza avere il coraggio di domandare nulla.
Un pomeriggio a casa di Leo, il mio compagno di banco, scoprii dalle parole di suo fratello che rappresentava la vittoria di dieci edizioni del campionato italiano di basket.
Alla nostra squadra ne mancava ancora una per potersene fregiare, ma in città nessuno dubitava che presto l’avremmo raggiunta, come una promessa che attendeva solo di essere mantenuta.
Sono passati molti anni da allora a oggi, ma quella Stella non è arrivata.
Da buoni tifosi io e papà non ci siamo lasciati scoraggiare da questo ritardo e abbiano trovato altre occasioni per goderci insieme una partita dal vivo, sino a quando non è stato lui a partire.
Quando ci penso immagino sia andato a tenerle compagnia.
Il bambino dentro di me, al contrario, è rimasto in attesa di quel momento, fino a stasera, quando i ragazzi della Pallacanestro Varese si sono aggiudicati l’agognato scudetto della Stella, la nostra chimera. Papà era con me, piegato in una fotografia scattata insieme anni prima e per tutta la partita è stato come averlo di nuovo accanto.
Per questo sono qui e ho appeso quel cartello alla testata del letto:“Se è un sogno, non svegliatemi!”

di Daniele Bin, illustrazione di Lucia Casavola

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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Il cielo mi aveva aspettato, senza nuvole, per la arrampicata al Sass de Stria. Una salita ripida, tra le rocce, con il fiato che stentava, ma arrivato in cima mi sedetti ai piedi della croce e ritrovai il Lagazuoi, la Tofana, la Marmolada. Quel giorno dividevo però le Dolomiti con un altro uomo. Non ero solo, lassù.
Mi aveva rivolto la parola, lo sconosciuto, in un modo come se non fosse affatto uno sconosciuto. Un giovane, con il viso ovale da vecchio, il naso sottile e occhialini rotondi come non vedevo più dagli anni settanta. Mi raccontava un episodio della Grande Guerra. Pensai che fosse un’improbabile guida, messa lì ad accogliere i turisti, ma lo strano era che narrava in prima persona, come se avesse assistito agli eventi. Ma raccontava bene e io ero stregato dalle sue parole:
– … la selletta qui in basso era presidiata dagli Austriaci, il 3° reggimento dei Kaiserjäger. Perciò era importante che conquistassimo il Sass de Stria dove avevano sistemato un osservatorio. All’alba potevamo sorprenderli e proteggere, con il fuoco dall’alto, l’arrivo del nostro plotone. Ci offrimmo in quattordici volontari e partimmo dal Castello di Andraz la sera del 17 ottobre 1915. Iniziammo la scalata dalla parete occidentale che gli Austriaci ritenevano inaccessibile. Arrivammo, stremati, alle due di notte, e trovammo la cresta deserta. Ma, poco prima della luce, ci scoprì un gruppo di Kaiserjäger saliti all’osservatorio. Non riuscimmo a catturarli tutti e diedero l’allarme. Ci attaccarono in più di cinquanta quando il plotone non era ancora giunto. Ci riparammo nelle trincee ma era un inferno di fuoco. E il plotone tardava. –
Il discorso era terminato, bruscamente. Vidi che erano comparse delle nuvole grigie spinte da una brezza gelida. Avevo freddo, ma volevo ancora ascoltare.
– E poi? –
– Troverà la fine sui libri di storia. – mi disse sorridendo – ora è tardi, devo andare.-
E con due passi sparì dalla parte opposta alla via che avevo percorso io per salire.
– Come si chiama? – gridai assurdamente nella sua direzione, al suono che i suoi scarponi non avevano fatto, all’aria che non aveva trattenuto alcun odore, al terreno che non portava traccia del suo passaggio.
– Mario – mi rispose una voce, lontana come un’eco.
– Mario Fusetti –
E la fine della storia l’avevo poi trovata davvero, la storia di quel gruppo di coraggiosi che erano saliti al Sass de Stria e di cui pochi erano sopravvissuti. Il loro comandante, fulminato da un proiettile austriaco in piena fronte, era il sottotenente Mario Fusetti, il cui corpo giace ancora, senza riposo, nei crepacci del Sass de Stria.

di Angela Borghi, fotografia di Ettore Borghi

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La primavera del 1985 era esplosa all’improvviso dopo un inverno rigido e nevoso. Nel giardino di casa le camelie spargevano petali rossi ai loro piedi. La magnolia, alta oltre il balcone, apriva in anticipo i grandi fiori bianchi e il profumo intenso entrava dalle finestre della sala, lasciate socchiuse per far entrare il tepore del sole. Papà aveva dato il primo taglio della stagione al prato e si preparava a grigliare il pesce e le verdure. Mamma infornava le costine di agnello in attesa dell’arrivo di parenti e amici. Due lunghe tavolate apparecchiate vicino al portico, all’aperto: la giornata si annunciava calda e luminosa e c’era aria di festa. Nel frigorifero vino, spumante e una torta di pan di spagna ricoperta di crema pasticcera e fragole. Era la domenica di Pasqua. E io compivo diciotto anni.
“Diventare maggiorenni in un giorno così vale il doppio”, disse mia sorella Ingrid. Il giorno prima, complice la Lory, la mia amica di sempre, ero andata a farmi i buchi alle orecchie e ancora mi dolevano un po’. Io ho sempre avuto paura degli aghi e l’idea non mi era mai piaciuta. Era tempo di fare anche questo. Convinta che le avrei sentite dai miei, rimasi a bocca aperta quando nell’uovo di cioccolata trovai un paio di orecchini d’oro: un piccolo zaffiro circondato da cinque brillantini. E penso che la Lory sapesse già tutto.
Quella settimana avevo fatto anche scempio dei miei lunghi capelli: li avevo accorciati fin sopra le spalle con la permanente. Un gesto importante per me che mi conformavo con facilità alle richieste dei miei genitori. Un taglio con la bambina che non mi sentivo più. Quello sì fu uno shock, specie per mia madre. C’è chi dice che i diciotto si aspettano per cambiare, ma poi sono un anno come un altro. Per me non è stato così.
I miei cugini durante il pranzo parlavano del Luna Park, tappa obbligata del pomeriggio. Carlo, il maggiore tra noi, era silenzioso. Si era lasciato da poco con la ragazza e non aveva voglia di scherzare. Lo capivo, perché anch’io nascondevo una piccola delusione.
Il pranzo andò come al solito per le lunghe. Noi ragazzi decidemmo di abbandonare la tavolata e di investire le mance pasquali di nonni e zii alle giostre, richiamati dalla musica trasportata dall’aria. Casa mia non era molto distante e ci avviammo a piedi.
Comprammo manciate di gettoni per gli autoscontri: il posto migliore per fare nuovi incontri. Carlo seppellì il suo dispiacere nel sorriso di una biondina. Non so più quanti giri facemmo. Però ricordo bene quello che provavo. Davanti allo specchio avevo osato per la prima volta un filo di matita sugli occhi e il mascara sulle ciglia; poi i capelli ricci, gli orecchini veri, il completo giallo che tanto avevo desiderato: mi sentivo diversa. Avevo diciotto anni. Ero diventata grande in una notte.

Racconto di Anna Rosa Confalonieri

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Nevica nell’oscurità. Mario è in piedi sopra il tetto di un garage, indossa un berretto di lana e una maschera da sub. La barba incolta, gli occhi verdi del padre.
Mario era venuto alla luce trentuno anni fa, dodici giorni oltre il termine, non l’unico ritardo per lui. Sua madre, osservandolo crescere, diceva: forse gli manca un gradino per salire al primo piano, non importa, quello che conta è che sia un bimbo felice. Zio Gino, dal canto suo, asseriva che ragionare su rampe di scale fosse più realistico.
Era solito dirgli: Sei un bravo ometto, ma non prendere mai l’iniziativa. Mario annuiva ignaro del significato. Le buscava dalla mamma, raccoglieva castagne nel bosco dietro via Lozza in autunno, e a volte, anche se gli era proibito farlo, imboccava la strada che porta in centro. Ma l’iniziativa? Quando arrivò la fine del mondo, Mario dormiva. Non si accorse delle grida, delle sirene ululanti, senza l’apparecchio acustico era come fosse in fondo al mare.
Si svegliò e dopo essersi infilato nelle orecchie gli aggeggi che lo riportavano nell’universo conosciuto, fece quello che fanno tutti, anche i più intelligenti, andò in bagno. Dalla tapparella filtravano i primi raggi di sole. Sentì uno scoppio. Pensò a petardi. Si accostò alla finestra. Vide il signor Meo nel piazzale che cercava di salire in auto. Intorno a lui una decina di persone. Strane persone. Una era nuda dalla cintola in giù. Gli si avvicinavano lentamente. Il signor Meo impugnava una pistola, e sparava. Li colpiva e quelli continuavano ad avanzare, poi uno gli afferrò il braccio portandoselo alla bocca. Il signor Meo urlò.
Mario si precipitò in camera della madre e si fermò sulla porta. Zio Gino era stato molto chiaro in merito, “Puoi andare dove vuoi in questa casa, ma se ti trovi davanti a una porta chiusa, bussa”.
Bussò. Attese non meno di dieci minuti immobile poi, non avendo risposta, aprì. Era vuota. Tornò alla finestra del bagno, nel piazzale c’era gente che mangiava altra gente.
Sono passati tre mesi da allora. Adesso nel suo rifugio a cielo aperto sa di aver commesso un errore, scendere in centro fino al negozio di giocattoli di via Corti gli era sembrata una buona idea. Il posto era facile da raggiungere, si percorreva viale Cinto, e dopo la sopraelevata si proseguiva per via Verdi. Ora però sono due chilometri pieni di insidie. Eppure era quasi giunto alla meta, una trentina di passi dal suo regalo di Natale.
Lo individuarono. Corse veloce, era bravo in questo, e gli inseguitori persero terreno. Ma da ogni angolo ne spuntava uno. La piccola costruzione fu la sua salvezza.
Qui si gela. La neve ghiaccia il vetro della maschera. Mario ha paura, tra quelle figure che lo circondano ce n’è una nuda dalla cintola in giù.

di Gian Paolo Zoni

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Ogni domenica pomeriggio mio padre mi gridava: “Allora, l’hai pulito o no quel carburatore?”. Io, muta, mi perdevo a guardare le macchie di benzina danzare nelle pozze d’acqua.
Quel dì risposi: “Torno subito” e me ne andai.
Un Disperato Erotico Stomp era appena passato davanti casa, teneva un quadro sotto il braccio e la giacca sporca di colori. Decisi di seguirlo.
Giunti al suo atelier, mi tenne la porta aperta e mi invitò ad entrare. Io curiosai nei suoi spazi.Mi chiese chi fossi, non risposi. Mi chiese cosa vedessi nelle sue opere, emisi un flebile “boh”. Mi chiese se volessi imparare a disegnare. Lo guardai e alzai le spalle.
La prospettiva, la profondità, le ombre, le proporzioni, le sfumature.
Nel mentre crebbi in altezza, in domande e in dolori.
“Per fine anno voglio che mi porti qualcosa di tuo, di personale, di autentico. Guarda dentro e fuori di te e miscela tutto quanto, perché vivere è riscrivere cose nuove”.
Passai le giornate a vagare per la città, in cerca di un soggetto. Una sera d’estate, attorniato da tanti bambini attenti, un saltimbanco mi catturò in una piazza. Raccontava fiabe. Gli adulti non gli davano retta, chiacchieravano tra di loro, scrivevano al telefono, si annoiavano. Io mi sedetti in mezzo a quei piccoli ascoltatori, stupefatto dalle loro domande: “Perché sposti un oggetto da una mano all’altra?”, “Anche tu hai avuto tre anni come noi?”, “A cosa servono i mostri?”.
Disegnerò questo giullare! Deciso! Appena torno a casa! Quest’ultima parola, casa, mi rimase in bocca, non voleva scendere giù. Qual era la mia casa? Lo chiesi al mio maestro, nonché affittuario della piccola mansarda in cui vivevo, e lui chiuse gli occhi: “E’ qualcosa in continua definizione sebbene, alcuni, la banalizzino come un semplice luogo fisico che certo non cammina”.
E allora camminai io, diretta alla mia prima casa.
Da quel “torno subito” erano passati vent’anni. Ed ora il garage era vuoto. Niente scaffali, niente banco lavoro, niente moto. C’erano solo delle macchie a terra e dei poster appesi al muro. Mi misi a fissarli, come allora, e risuonò la voce di mio padre: “Mica ho tempo per quei viaggi lì, io!”. Con lo stesso tono, alla domanda “Com’era il nonno?”, mio padre rispondeva sempre “Tuo nonno faceva il meccanico!”. Mai mi disse se avesse avuto dei sogni, se ci litigava, se gli raccontava storie quand’era piccolo, se fosse severo o permissivo, se amasse la nonna o l’avesse mai tradita.
Guardando quei luoghi sterminati, quei deserti, quelle steppe da raggiungere su due ruote, capii che quelle erano le fiabe di mio padre, era il mondo incantato che voleva raccontarsi e raccontarmi, senza saperlo e senza dirlo. Era il suo bisogno di espandersi, di non essere fatto solo di materia, sebbene se lo negasse di continuo. Quando lo capii, dissi grazie.

Dedicato a tutti i papà, che raccontano sempre delle fiabe ai propri figli, anche se non lo sanno.

Racconto di Paolo Negri, illustrazione di Daniela Landini

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Debora è stesa sul tappetino del bagno, la dose dà i suoi primi, meravigliosi effetti. La volta celeste le gira attorno, c’è solo un puntino che non si muove, è Venere. E lei ripercorre la sequenza di eventi della giornata come in un sogno.
A mezzogiorno, con alcune colleghe, era andata al ristorante giapponese al posto della solita mensa. A un certo punto, lo sguardo di Jessica, la capo-reparto, fu catturato da qualcosa sopra la sua testa. Debora s’era girata di riflesso. Una donna dall’aspetto bellicoso la fissava. “Ho saputo che ti vedi con mio marito”, e la minacciò con tono sprezzante. Lei rimase di ghiaccio, e il gelo si propagò nel locale.
Al pomeriggio, finito il turno di lavoro, andò all’officina dove lavorava l’amante. Lo scorse di spalle chino sul motore di un’auto col cofano alzato. Lo chiamò più volte, senza risposta. Si avvicinò a lui. “Cosa succede?”. “Non possiamo più vederci, mia moglie ha letto i messaggi sul cellulare. Ora vattene, ho una consegna urgente”. Scenata di lei, lui impassibile: “Vai fuori dai piedi”.
Il pensiero di farsi consolare dalle amiche, che al ristorante giapponese l’avevano guardata con disappunto quando la furia se n’era andata, la nauseava.Telefonò invece a Giacomo, il suo vecchio pusher.“Ce l’hai?”, “Si”. Era pulita da un anno, ma aveva conservato il numero. Parcheggiò davanti al cancelletto scrostato del condominio fatiscente e si infilò nell’appartamento che l’uomo condivideva con altri spacciatori.“Dov’è?” chiese appena vide la sua ombra chiudergli la porta alle spalle.
“Prima i soldi”, replicò lui. “Tieni”. Prese la bustina e si chiuse in bagno. “Non qui, capito?”. Troppo tardi.
Un tonfo secco ora la risveglia dal suo trip, una retata. Una divisa nera le si accosta. “Signorina, mi sente?”, la scuote,“Signorina?”.
Una barella la porta fuori tra i colori del tramonto appena sfumato, intravede Venere, più grande e lucente del solito. Da quando è diventata “l’altra donna” si rivolge a lei come a una vecchia amica. Hanno lo stesso problema, lei in secondo piano rispetto alla moglie del suo amante e Venere dietro a Mercurio per distanza dal sole. Veglia su di lei con un sorriso benevolo, è immobile, in ascolto. Debora chiude gli occhi, adesso è serena.

Racconto di Olga Riva Rovaglio (www.ilcavedio.org), illustrazione di Silvia Gabardi: “Riflessi abbaglianti”, calcografia su zinco, 2007.

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Gli amici dell’Accademia preferivano i drammi, le sceneggiate, le commedie. Invece Volodì, un giovane che al cinema vedeva i film di Buster Keaton e Charlie Chaplin, aveva scelto di fare l’attore comico.
– Volodì, sei sicuro? – gli disse il maestro di recitazione – Far ridere è la cosa più difficile che ci sia.
– Ho detto che farò il comico – ribatté Volodì con aria corrucciata, e gli voltò le spalle.
Era solo un ragazzo viziato o davvero sapeva il fatto suo? Di certo la determinazione l’aveva stampata in volto. Non avrebbe recitato nelle sale dell’oratorio.
L’attendevano i più prestigiosi palcoscenici del mondo. Già ne sentiva gli applausi. Bis bis. E lui sarebbe uscito ogni volta da dietro il tendone, il braccio destro piegato all’addome e l’inchino fino al pavimento. Poi, rialzandosi con il busto, sguardo fiero e sprezzante. I poverini non sapevano ancora di che sarebbe stato capace.
Le cose però non andarono come aveva pensato. Il pubblico non rideva. Quei cretini rimanevano con occhi fissi e labbra strette.
– Caro mio, non fai ridere nessuno – gli disse un attore anziano, che voleva dargli consigli.
Volodì lo scostò con la mano e si rifugiò in camerino.
Davanti allo specchio rifece quelle mosse per le quali lui aveva previsto la platea scoppiare in risate, quando in una scena mostrava i muscoli come Superman e saliva l’immaginaria scala del potere prevista dal copione. Si ricordò allora della sua infanzia felice, e delle parole della mamma, quel giorno che non voleva mangiare il borscht e piangeva lacrime isteriche e capricciose:
– Volodì, ma cosa farai da grande?
– L’attore, mamma. Farò l’attore.
– E quale parte reciterai?
– L’eroe, mamma. Farò l’eroe.
– Volodì, gli eroi muoiono in scena.
– È vero, mamma, ma io lascerò morire gli altri. E confortato da quel ricordo riemerso come le madelaine di Proust, abbandonò la carriera di comico e si rigenerò in un nuovo tipo di teatro.
Subito trovò un impresario di fama mondiale, per lui una specie di zio d’America.
Prima campava con mille euro al mese e adesso, dopo soli tre anni, possedeva ville in Italia, al mare e in montagna, e depositi bancari in paradisi fiscali.
Il suo teatro è sempre affollato, e arrivano spettatori da tutte le parti d’Europa, pronti a pagare qualsiasi cifra. Nell’immaginario collettivo ha oscurato tutti gli eroi dei video giochi. – Volodì, stai attento di non fare la fine del rospo nella favola in cui beve tant’acqua per diventare bue – gli disse un giorno il suo maestro di recitazione (licenziato sul posto).
Volodì, da un anno in arte con il nome di TONA, che vuol dire colui che reca pace e democrazia, recita nella vita di tutti i giorni. Indossa l’abito di scena e prepara le sceneggiature, come l’altro giorno quando è andato da un capo di stato, suo ammiratore, che l’aveva invitato. Lui ha organizzato la scenetta dei due amanti che corrono sulla spiaggia, lei da una parte e lui dall’altra, e incontrandosi a metà si abbracciano. Nell’occasione ha studiato un passo che fa intendere di essere stato ferito, come Dustin Hoffman nellUomo da marciapiede. Quando i giornalisti gli chiedono quante persone pensa di aver coinvolto, lui non dice mai il numero totale, ma solo quello dei bambini.
Un critico ha scritto invece che in un solo anno, sommando tutti gli eventi, si può parlare di trecentomila. E non è finita.

di Abramo Vane

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Come giunsi fin qui, al limite del tempo e dello spazio, come mi piegai a questa mera condizione di reietto a me stesso, sotto quali perduranti incertezze il mio animo affogò nell’odio? Nemmeno ora, dopo innumerevoli ere, lo so.
Io che ero parte di una schiera scelsi l’orda, io che amavo e lodavo odiai e svilii, io che osannavo e glorificavo denigrai e ingiuriai, non volevo cadere nell’errore eppure vi caddi. Oh, potessi trasformarmi in pietra, silente, immota, oppure congelare come il ghiaccio che mi circonda, avessi il potere di bruciare come sterpaglia le mie maledette spoglie, osassi contrastare l’ipocrita battito del cuore.
Salgo, continuo a salire. Mi arrampico su pareti gelide, il corpo scivola, ma ho ancora la forza, la volontà. Il forte vento, unico compagno di viaggio, dopo aver sferzato le mie membra sta calando. Affronto un altro sperone di roccia, lo supero e mi ritrovo su una piana gravida di profonde fenditure. E per la prima volta dall’inizio della fuga vedo l’orizzonte. Non so se provare rabbia o disperazione, io che anelavo rivedere la vera Luce ora ho davanti agli occhi solo grigia desolazione, un futuro desertico, pallido e indifferente al mio disincanto. Ed è allora che grido. E le mie urla percorrono la vuota pianura, sorvolano le spaccature, penetrano l’aria immobile, indugiano sulle pietre e infine muoiono. Vorrei essere un grido. Riprendo il cammino. Non uno stridio, non un mormorio, solo il mio respiro. Ad ogni passo alzo polvere brunita e, come avesse coscienza propria, si sposta per evitare ogni contatto con il mio essere. Non mi stupisce e non la biasimo per questo. Sono ciò che sono.
Odo un lontano rumore, proseguo veloce, la terra scura tradisce terrore e si ritrae con più celerità. Il suono, che in precedenza era poco più che ovattato, come il verso di una creatura rinchiusa nel guscio, ora è più forte, frastorna i miei sensi, quasi mi stordisce. Sale dalle profondità. Sono sull’orlo di un cratere immenso. Mi siedo sul ciglio. Mi chiedo se il Creatore osserva con uno dei Suoi innumerevoli occhi, mi chiedo se sa che mi trovo qui. Mi chiedo… Piango. Lacrime torbide rigano il mio volto. Ed ecco, la disperazione ha il sopravvento. Mi lascio cadere. Precipito, e ogni pensiero mi abbandona e allo stesso modo vorrei mi lasciasse la miserevole vita che posseggo.
Una luce. Maestosa, si intensifica come se venisse verso me, ma sono io che le vado incontro. Cado verso di lei.
Chissà perché sorrido, e il sorriso mi si allarga, diventa suono. Rido, grido, e le due cose insieme, e attraverso la luce. È tutta intorno, mi avvolge, non è calda, non è fredda, mi ristora, dona qualcosa e qualcosa mi toglie e, immerso nello splendore del perdono, ne bevo l’amore.

di Gian Paolo Zoni

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