Ogni domenica pomeriggio mio padre mi gridava: “Allora, l’hai pulito o no quel carburatore?”. Io, muta, mi perdevo a guardare le macchie di benzina danzare nelle pozze d’acqua.
Quel dì risposi: “Torno subito” e me ne andai.
Un Disperato Erotico Stomp era appena passato davanti casa, teneva un quadro sotto il braccio e la giacca sporca di colori. Decisi di seguirlo.
Giunti al suo atelier, mi tenne la porta aperta e mi invitò ad entrare. Io curiosai nei suoi spazi.Mi chiese chi fossi, non risposi. Mi chiese cosa vedessi nelle sue opere, emisi un flebile “boh”. Mi chiese se volessi imparare a disegnare. Lo guardai e alzai le spalle.
La prospettiva, la profondità, le ombre, le proporzioni, le sfumature.
Nel mentre crebbi in altezza, in domande e in dolori.
“Per fine anno voglio che mi porti qualcosa di tuo, di personale, di autentico. Guarda dentro e fuori di te e miscela tutto quanto, perché vivere è riscrivere cose nuove”.
Passai le giornate a vagare per la città, in cerca di un soggetto. Una sera d’estate, attorniato da tanti bambini attenti, un saltimbanco mi catturò in una piazza. Raccontava fiabe. Gli adulti non gli davano retta, chiacchieravano tra di loro, scrivevano al telefono, si annoiavano. Io mi sedetti in mezzo a quei piccoli ascoltatori, stupefatto dalle loro domande: “Perché sposti un oggetto da una mano all’altra?”, “Anche tu hai avuto tre anni come noi?”, “A cosa servono i mostri?”.
Disegnerò questo giullare! Deciso! Appena torno a casa! Quest’ultima parola, casa, mi rimase in bocca, non voleva scendere giù. Qual era la mia casa? Lo chiesi al mio maestro, nonché affittuario della piccola mansarda in cui vivevo, e lui chiuse gli occhi: “E’ qualcosa in continua definizione sebbene, alcuni, la banalizzino come un semplice luogo fisico che certo non cammina”.
E allora camminai io, diretta alla mia prima casa.
Da quel “torno subito” erano passati vent’anni. Ed ora il garage era vuoto. Niente scaffali, niente banco lavoro, niente moto. C’erano solo delle macchie a terra e dei poster appesi al muro. Mi misi a fissarli, come allora, e risuonò la voce di mio padre: “Mica ho tempo per quei viaggi lì, io!”. Con lo stesso tono, alla domanda “Com’era il nonno?”, mio padre rispondeva sempre “Tuo nonno faceva il meccanico!”. Mai mi disse se avesse avuto dei sogni, se ci litigava, se gli raccontava storie quand’era piccolo, se fosse severo o permissivo, se amasse la nonna o l’avesse mai tradita.
Guardando quei luoghi sterminati, quei deserti, quelle steppe da raggiungere su due ruote, capii che quelle erano le fiabe di mio padre, era il mondo incantato che voleva raccontarsi e raccontarmi, senza saperlo e senza dirlo. Era il suo bisogno di espandersi, di non essere fatto solo di materia, sebbene se lo negasse di continuo. Quando lo capii, dissi grazie.

Dedicato a tutti i papà, che raccontano sempre delle fiabe ai propri figli, anche se non lo sanno.

Racconto di Paolo Negri, illustrazione di Daniela Landini

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Debora è stesa sul tappetino del bagno, la dose dà i suoi primi, meravigliosi effetti. La volta celeste le gira attorno, c’è solo un puntino che non si muove, è Venere. E lei ripercorre la sequenza di eventi della giornata come in un sogno.
A mezzogiorno, con alcune colleghe, era andata al ristorante giapponese al posto della solita mensa. A un certo punto, lo sguardo di Jessica, la capo-reparto, fu catturato da qualcosa sopra la sua testa. Debora s’era girata di riflesso. Una donna dall’aspetto bellicoso la fissava. “Ho saputo che ti vedi con mio marito”, e la minacciò con tono sprezzante. Lei rimase di ghiaccio, e il gelo si propagò nel locale.
Al pomeriggio, finito il turno di lavoro, andò all’officina dove lavorava l’amante. Lo scorse di spalle chino sul motore di un’auto col cofano alzato. Lo chiamò più volte, senza risposta. Si avvicinò a lui. “Cosa succede?”. “Non possiamo più vederci, mia moglie ha letto i messaggi sul cellulare. Ora vattene, ho una consegna urgente”. Scenata di lei, lui impassibile: “Vai fuori dai piedi”.
Il pensiero di farsi consolare dalle amiche, che al ristorante giapponese l’avevano guardata con disappunto quando la furia se n’era andata, la nauseava.Telefonò invece a Giacomo, il suo vecchio pusher.“Ce l’hai?”, “Si”. Era pulita da un anno, ma aveva conservato il numero. Parcheggiò davanti al cancelletto scrostato del condominio fatiscente e si infilò nell’appartamento che l’uomo condivideva con altri spacciatori.“Dov’è?” chiese appena vide la sua ombra chiudergli la porta alle spalle.
“Prima i soldi”, replicò lui. “Tieni”. Prese la bustina e si chiuse in bagno. “Non qui, capito?”. Troppo tardi.
Un tonfo secco ora la risveglia dal suo trip, una retata. Una divisa nera le si accosta. “Signorina, mi sente?”, la scuote,“Signorina?”.
Una barella la porta fuori tra i colori del tramonto appena sfumato, intravede Venere, più grande e lucente del solito. Da quando è diventata “l’altra donna” si rivolge a lei come a una vecchia amica. Hanno lo stesso problema, lei in secondo piano rispetto alla moglie del suo amante e Venere dietro a Mercurio per distanza dal sole. Veglia su di lei con un sorriso benevolo, è immobile, in ascolto. Debora chiude gli occhi, adesso è serena.

Racconto di Olga Riva Rovaglio (www.ilcavedio.org), illustrazione di Silvia Gabardi: “Riflessi abbaglianti”, calcografia su zinco, 2007.

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Gli amici dell’Accademia preferivano i drammi, le sceneggiate, le commedie. Invece Volodì, un giovane che al cinema vedeva i film di Buster Keaton e Charlie Chaplin, aveva scelto di fare l’attore comico.
– Volodì, sei sicuro? – gli disse il maestro di recitazione – Far ridere è la cosa più difficile che ci sia.
– Ho detto che farò il comico – ribatté Volodì con aria corrucciata, e gli voltò le spalle.
Era solo un ragazzo viziato o davvero sapeva il fatto suo? Di certo la determinazione l’aveva stampata in volto. Non avrebbe recitato nelle sale dell’oratorio.
L’attendevano i più prestigiosi palcoscenici del mondo. Già ne sentiva gli applausi. Bis bis. E lui sarebbe uscito ogni volta da dietro il tendone, il braccio destro piegato all’addome e l’inchino fino al pavimento. Poi, rialzandosi con il busto, sguardo fiero e sprezzante. I poverini non sapevano ancora di che sarebbe stato capace.
Le cose però non andarono come aveva pensato. Il pubblico non rideva. Quei cretini rimanevano con occhi fissi e labbra strette.
– Caro mio, non fai ridere nessuno – gli disse un attore anziano, che voleva dargli consigli.
Volodì lo scostò con la mano e si rifugiò in camerino.
Davanti allo specchio rifece quelle mosse per le quali lui aveva previsto la platea scoppiare in risate, quando in una scena mostrava i muscoli come Superman e saliva l’immaginaria scala del potere prevista dal copione. Si ricordò allora della sua infanzia felice, e delle parole della mamma, quel giorno che non voleva mangiare il borscht e piangeva lacrime isteriche e capricciose:
– Volodì, ma cosa farai da grande?
– L’attore, mamma. Farò l’attore.
– E quale parte reciterai?
– L’eroe, mamma. Farò l’eroe.
– Volodì, gli eroi muoiono in scena.
– È vero, mamma, ma io lascerò morire gli altri. E confortato da quel ricordo riemerso come le madelaine di Proust, abbandonò la carriera di comico e si rigenerò in un nuovo tipo di teatro.
Subito trovò un impresario di fama mondiale, per lui una specie di zio d’America.
Prima campava con mille euro al mese e adesso, dopo soli tre anni, possedeva ville in Italia, al mare e in montagna, e depositi bancari in paradisi fiscali.
Il suo teatro è sempre affollato, e arrivano spettatori da tutte le parti d’Europa, pronti a pagare qualsiasi cifra. Nell’immaginario collettivo ha oscurato tutti gli eroi dei video giochi. – Volodì, stai attento di non fare la fine del rospo nella favola in cui beve tant’acqua per diventare bue – gli disse un giorno il suo maestro di recitazione (licenziato sul posto).
Volodì, da un anno in arte con il nome di TONA, che vuol dire colui che reca pace e democrazia, recita nella vita di tutti i giorni. Indossa l’abito di scena e prepara le sceneggiature, come l’altro giorno quando è andato da un capo di stato, suo ammiratore, che l’aveva invitato. Lui ha organizzato la scenetta dei due amanti che corrono sulla spiaggia, lei da una parte e lui dall’altra, e incontrandosi a metà si abbracciano. Nell’occasione ha studiato un passo che fa intendere di essere stato ferito, come Dustin Hoffman nellUomo da marciapiede. Quando i giornalisti gli chiedono quante persone pensa di aver coinvolto, lui non dice mai il numero totale, ma solo quello dei bambini.
Un critico ha scritto invece che in un solo anno, sommando tutti gli eventi, si può parlare di trecentomila. E non è finita.

di Abramo Vane

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Come giunsi fin qui, al limite del tempo e dello spazio, come mi piegai a questa mera condizione di reietto a me stesso, sotto quali perduranti incertezze il mio animo affogò nell’odio? Nemmeno ora, dopo innumerevoli ere, lo so.
Io che ero parte di una schiera scelsi l’orda, io che amavo e lodavo odiai e svilii, io che osannavo e glorificavo denigrai e ingiuriai, non volevo cadere nell’errore eppure vi caddi. Oh, potessi trasformarmi in pietra, silente, immota, oppure congelare come il ghiaccio che mi circonda, avessi il potere di bruciare come sterpaglia le mie maledette spoglie, osassi contrastare l’ipocrita battito del cuore.
Salgo, continuo a salire. Mi arrampico su pareti gelide, il corpo scivola, ma ho ancora la forza, la volontà. Il forte vento, unico compagno di viaggio, dopo aver sferzato le mie membra sta calando. Affronto un altro sperone di roccia, lo supero e mi ritrovo su una piana gravida di profonde fenditure. E per la prima volta dall’inizio della fuga vedo l’orizzonte. Non so se provare rabbia o disperazione, io che anelavo rivedere la vera Luce ora ho davanti agli occhi solo grigia desolazione, un futuro desertico, pallido e indifferente al mio disincanto. Ed è allora che grido. E le mie urla percorrono la vuota pianura, sorvolano le spaccature, penetrano l’aria immobile, indugiano sulle pietre e infine muoiono. Vorrei essere un grido. Riprendo il cammino. Non uno stridio, non un mormorio, solo il mio respiro. Ad ogni passo alzo polvere brunita e, come avesse coscienza propria, si sposta per evitare ogni contatto con il mio essere. Non mi stupisce e non la biasimo per questo. Sono ciò che sono.
Odo un lontano rumore, proseguo veloce, la terra scura tradisce terrore e si ritrae con più celerità. Il suono, che in precedenza era poco più che ovattato, come il verso di una creatura rinchiusa nel guscio, ora è più forte, frastorna i miei sensi, quasi mi stordisce. Sale dalle profondità. Sono sull’orlo di un cratere immenso. Mi siedo sul ciglio. Mi chiedo se il Creatore osserva con uno dei Suoi innumerevoli occhi, mi chiedo se sa che mi trovo qui. Mi chiedo… Piango. Lacrime torbide rigano il mio volto. Ed ecco, la disperazione ha il sopravvento. Mi lascio cadere. Precipito, e ogni pensiero mi abbandona e allo stesso modo vorrei mi lasciasse la miserevole vita che posseggo.
Una luce. Maestosa, si intensifica come se venisse verso me, ma sono io che le vado incontro. Cado verso di lei.
Chissà perché sorrido, e il sorriso mi si allarga, diventa suono. Rido, grido, e le due cose insieme, e attraverso la luce. È tutta intorno, mi avvolge, non è calda, non è fredda, mi ristora, dona qualcosa e qualcosa mi toglie e, immerso nello splendore del perdono, ne bevo l’amore.

di Gian Paolo Zoni

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Stamattina ero a casa di Gigi, mio amico d’infanzia. Abita tuttora con i suoi vecchi, in una villetta di via Vico. Lui sotto e i genitori sopra. Lo sorpresi in garage, smontava un televisore del 1980. Ci abbracciammo a lungo, felici di rivederci dopo tanto tempo. Mi chiese perché fossi tornato. Nostalgia, risposi. Poi gli diedi una mano a completare l’autopsia alla vecchia TV.
Spengo il telefonino. Il poliziotto con cui ho parlato ha chiesto di non muovermi da lì. Ma il “lì” non è qui.
Il cimitero di Sant’Elmo è silenzioso, solo il fruscio delle foglie che si sfregano tra loro. Cerco la tomba di Aldo Creti, morto suicida in carcere nel settembre del 1998. Aveva ventidue anni, il pensiero volatile in una mente disordinata e flebile, figlio unico del giornalaio, e unico indiziato dell’omicidio di mia sorella Agata. Una undicenne dal sorriso vivace e il cuore ancora troppo piccolo. In quei giorni io e i miei amici Franco e Gigi eravamo convinti della sua colpevolezza. Un minorato mentale che si recava ogni giorno nei boschi dietro il campetto da calcio, e in quell’estate lo incrociavamo spesso. Eravamo convinti fosse lui. Il killer perfetto. Fummo noi a indirizzare i sospetti. Quello scemo non fiata mai, ti squadra come se davanti avesse fondi di caffè, un sorriso ebete ad aprirgli la bocca e lo sguardo perso, dicevamo. Recuperarono nel suo giardino una delle scarpe da ginnastica di Agata. Il giorno dell’arresto la signora Creti ebbe un malore, e suo padre gridò così forte da spaventare i cani dei vicini che gli risposero ululando. Poca cosa rispetto al tormento della mia famiglia.
La tomba si trova nella parte inferiore del cimitero, dove gli ultimi loculi si allineano sulla parete che dà a Sud. Lontano dalle altre, appartata. Niente nome, date o foto, soltanto l’ombra di un fiore scolpito nel marmo.
La pioggia fine bagna i miei capelli radi, sono qui, a distanza di quasi vent’anni, per chiedere perdono. Mi inginocchio sulla ghiaia, i calzoni freschi di tintoria, accolgo il dolore, che mi penetri in ogni cellula fino all’anima, e rievochi in tal modo un antico volto associato a un altro tipo di sofferenza. E non lo rammento. E Piango. Lacrime per la piccola Agata e le sue treccine dorate, per il giovane Aldo di cui non ricordo il viso, per la dissimile innocenza di entrambi. Odo le sirene. Le forze dell’ordine si avvicinano al “lì”. Scopriranno il corpo di Gigi. Vedranno la ferita profonda alla testa e il martello intriso di sangue appoggiato sul banco di lavoro. Ripenso alle sue ultime parole, “Ho bisogno della pinza con gli occhielli, è nella scatola blu sopra la mensola”. Presi il contenitore sbagliato, sono discromico. All’interno una scarpa da ginnastica.

di Gian Paolo Zoni

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Camminiamo da ore nella foresta, impaurite dagli alberi sbattuti dal vento e dai versi degli animali che non trovano quiete. Passo dopo passo il respiro si fa corto e la stanchezza ci rallenta.
Dobbiamo raggiungere il fiume prima dell’alba e seguirne la riva fino alla città. E sarai salva.
La luna piena brilla nel cielo africano e mi ricorda la notte in cui sei nata, dieci anni fa. Un grande disco bianco sopra al villaggio che pareva abbandonato. Si udivano solo il canto lamentoso dello stregone, e le mie urla di bambina col ventre gonfio squarciato da un dolore sconosciuto. Giacevo su una stuoia sporca nella capanna dove vivevo in solitudine da quando il vecchio, cui mi avevano dato in sposa, era morto con la bava alla bocca e il corpo martoriato da pustole sanguinanti. Prima gli anziani, poi la pestilenza si era portata via i giovani, e i campi erano rimasti incolti, aridi. Mesi di fame e angoscia, un maleficio misterioso ci aveva travolto.
Un ultimo grido, e sei arrivata nel bagliore della luna, candida come nulla avevo visto prima. La pelle trasparente, la sottile peluria più chiara dell’erba secca, gli occhi arrossati.
Femmina, e albina.
Sfinita, ti ho preso tra le braccia color della pece e rivolta ai fiotti di luce che entravano dalla porta, ho sussurrato: “Ti chiamerai Mwezi, il nome della luna! Il mattino seguente i giovani si alzarono dai giacigli di morte e i campi tornarono fertili. Un prodigio inatteso. E così, a ogni plenilunio lo sciamano ti alzava al cielo e il candore della tua pelle splendeva nella luce della grande luna, un talismano prezioso. Sei cresciuta silenziosa nella penombra della capanna al riparo dal sole e dagli sguardi, una creatura solitaria dagli occhi ciechi in continuo movimento e la pelle delicata. Ma non è bastato.
La tua fama propiziatrice si é diffusa in fretta tra i villaggi. Uomini donne e bambini giungevano a frotte e mani fameliche cercavano ciocche dei tuoi capelli, lembi di pelle, orecchie, naso, mani piedi arti. In tanti erano disposti a pagare per la tua stessa vita, e quando gli sguardi si sono fatti vogliosi ho deciso di portarti lontano. La foresta si apre, il fiume scorre silenzioso, all’orizzonte il bagliore della città.
Corriamo Mwezi, mia piccola luna bianca, sei salva.

di Alessandra Stifani, illustrazione particolare da “Per natura ed eternità” (acrilico, olio e matite su tela). Soluzioni Alessandrine, 2022

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Quando entrò nella gabbia aveva ancora la giacca da domatore, slacciata però sul petto nudo, ma non impugnava né la frusta né il bastone. Si presentava indifeso: dopo tanti anni insieme si fidava di lei. Non chiuse il cancello alle sue spalle e si accasciò a terra, sfatto.
Lei non si mosse, emise solo un leggero ruggito. Lo guardò per capire a che gioco volesse ancora giocare, ma si rese conto che lui non aveva più la forza di imporre nessun gioco. Rimasero così, a guardarsi.
Quando il sole incominciò a calare, lei gli si avvicinò e si vide riflessa negli occhi di lui. Si stupirono entrambi: lei della sua immagine, lui della sua mitezza. Poi lei gli si accovacciò di fianco, lo leccò con la sua lingua ruvida di felino e lui sospirò. Venne la notte e lui incominciò a gemere, solo la lingua ruvida sulla pelle lo consolava. Poi venne il buio e se lo portò via. Così lei alzò i grandi occhi al cancello. Si alzò in piedi e uscì fuori. Fuori dalla gabbia dove aveva vissuto dal giorno della sua cattura, quando ancora era un animale libero e forte.
Gironzolò intorno, non conosceva quel luogo, lo aveva visto solo da dietro le sbarre e si sentiva vulnerabile. Si muoveva circospetta, annusando odori nuovi e sgranchendo i muscoli non più abituati a muoversi in uno spazio libero.
Si ritrovò a camminare per le vie come un animale braccato. Rincorse un ratto che, molto più abile di lei, le sfuggì sotto un tombino. Esausta tornò nella gabbia. Lui era ancora lì. Diede un colpetto col muso al suo padrone e gli leccò la mano, lui non si mosse.
Il giorno dopo fu lo stesso, e sempre tornava nella gabbia.
I crampi della fame poi divennero insopportabili. Per anni aveva desiderato quel momento e adesso che era arrivato non lo voleva più. Meglio sarebbe stato sollevarsi sulle zampe posteriori allo schioccare della frusta, ruggire, graffiare l’aria con una zampata e gustarsi le bistecche che lui le lanciava da dietro le sbarre. Adesso era libera ma non sapeva vivere nel mondo che le stava attorno.
Verso mattina passò un cane davanti alla gabbia.
Randagio senza collare, camminava veloce avanti e indietro e annusava col muso basso a cercare quel qualcosa che lo inquietava e attirava al tempo stesso. L’odore di selvatico, una volta potente, si era molto affievolito durante la prigionia. Finché la sentì. Si fermò fisso e la guardò. Lei, immobile, lo osservava da un po’. Il cane non aveva paura, e l’annusò meglio da vicino. Lei gli soffiò come un gatto ma si lasciò annusare. Wuf, le fece poi l’animale sbandierando la coda, e trotterellò via.
In quel momento una voce riecheggiò nella sua testa: te la fai coi cani adesso? Ma la stessa voce poco dopo diceva: scappa finché sei in tempo! Forse il cancello aperto non era stata una dimenticanza, ma un dono d’addio.
Si alzò di scatto, si scrollò di dosso il terriccio umido della gabbia e seguì il cane.
Pioveva quella mattina, Anna non sollevò il cappuccio per ripararsi, persino l’acqua sulla testa era benvenuta. Poco più avanti Giovanni l’aspettava. Chissà perché le ricordava un cane con quel suo modo di fare festoso, solo pochi mesi prima non l’avrebbe neanche guardato uno così, ma oggi sì. Così lo raggiunse e insieme si avviarono, non sapeva dove, ma di certo sapeva che non sarebbe più tornata indietro, nella gabbia.

di Ester Tognola

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Avrei voluto essere lì, vicino a te, quando dal seggiolone tiravi stelline in brodo con il cucchiaio, felice come una Pasqua. O quando, la domenica, ti avventuravi nei rigatoni al sugo, e ci soffiavi dentro come fossero cannucce. Mi sarebbe piaciuto costruirti una piccola catapulta, per ridere assieme dei tuoi bersagli raggiunti.
E fare a cambio con tuo nonno, che dal balcone della casa in montagna guardava lontano – occhi persi verso le Dolomiti. Mentre ti crogiolavi attaccata a lui, come avvolta in una coperta di lana. Così maestoso, visto dai tuoi occhi. Rintanata dietro il suo braccio non guardavi lui, ma gli altri. A dire eccolo, questo è mio nonno. Ed è mio, non lo divido con nessuno.
O quando, dopo qualche anno, scoprivi un corpo in evoluzione, e ti guardavi il petto per capire se alla fine era tutto normale o qualche ignota malattia stava minando la tua esistenza. Ti sarei stato accanto, e avremmo giocato con Barbie e Ken. Ti avrei spiegato che i cambiamenti portano felicità, spesso. Perché ti mettono in condizione di vedere cose che prima non percepivi, e ti sfuggivano come bolle di sapone.
Ti avrei seguito nel primo viaggio con il tuo ragazzo, appena sedicenne, in una Europa ancora tutta da disegnare, quando Montenegro e Albania erano davvero paesi stranieri. Avrei raccolto le tue lacrime di un amore interrotto, per una svedese uscita fuori dal nulla nel momento sbagliato, nel posto sbagliato. Ti avrei sorretto, e portato a casa in spalla e sussurrato che la vita è anche questo. Cadi, e ti rialzi. E alla fine capisci come evitare le buche.
Travestito da venticello estivo avrei soffiato via le briciole di gomma dai progetti disegnati con cura e rifatti mille volte, perché sei una perfezionista. E asciugato la fronte quando, esausta in un luglio africano, saresti crollata a dormire, vestita, la notte prima dell’esame. Ti avrei bisbigliato di non pretendere troppo da te, e di riservare le tue energie per uno spicchio di vita che ti avrebbe dato più soddisfazioni.
Lasciami sperare che in quei momenti, tra un rigatone al ragù e un temperamatite, ti sia fermata un momento ad ascoltare il tuo cuore, a cercare di percepire una sensazione, una presenza. Un soffio. Il fruscio di una pagina girata, il volo di un moscerino. A domandarti se eri sola. Perché io c’ero. Ero lì. E voglio immaginarmi vestito da Piccolo Principe quando, secoli più tardi, ti ho finalmente toccato, e parlato. E la nostra vita è iniziata allora.

di Gianluca Fiore, illustrazione di Benedetta Fiore

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A sapere dove rimbalzava, la vita, l’avremmo afferrata e messa al nostro servizio, ma non era così, non era mai stato così, e considerato questo, il gioco era ancora più bello… e c’erano altri che giocavano un altro tipo di gioco, e per loro la palla era rotonda e la calciavano con precisione, la mettevano dove volevano, proprio là, e più uno la metteva proprio là e più era pagato per questo, sembrava che mettere la palla in quel modo era la cosa più rara di questo mondo, e da un certo punto di vista poteva anche esserlo, ma il fatto è che la vita non sai mai dove va, e chi conosce la vita la trasmette a chi gli sta vicino, si guarda indietro e trova un compagno a raccoglierla per andare avanti, anche un solo passo, ma con la determinazione che richiedono i sogni… e chi gioca alla palla ovale non è una signorina che riempie le pagine dei giornali, si arricchisce e mantiene elevato il quoziente di opportunismo nel mondo, e nemmeno è uno che quando cade dice oh mammina che male, per cui i giornalisti lì presenti saltano su e urlano e a noi chi ce lo dà lo stipendio e poi di quelle moine parlano per tutta la settimana, chi gioca alla palla ovale stringe la vita al cuore e sente che tutto il mondo è lì dentro, e il destino di quella palla è già segnato, come tutte le cose, e loro la seguono, quella palla, e sanno che il suo rimbalzo, come la vita, sarà imprevedibile.

di Giangiacomo Furù, illustrazione di Renato Pegoraro

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Mi appare un’ombra lunghissima con un’aureola di luce, i capelli sulle spalle, le mani nelle tasche del cappotto, una ragazza in piedi davanti a un lampione. Non parla e io ho poco fiato, seduto su una panchina del Viale delle Cappelle.
È una sera di fine inverno: il cielo nero come piombo, l’aria fredda e immobile e nessun passo sull’acciottolato. Mi sono allontanato dalle luci della città, dalle persone a cui non so più parlare e da quelle che non mi interessa ascoltare, dalla vita non più mia, dai giorni passati irripetibili. Anni fa ho rinunciato a una donna dal sorriso e dal nome luminosi come l’estate. Negli altri amori non ho più trovato lo stesso incanto. Stasera mi è tornata la voglia di ripercorrere una delle nostre passeggiate. La primavera però è lontana e mentre cammino l’aria gelida è penetrata dentro di me, coagulandosi in un blocco che, a metà della salita, ha cominciato a pesarmi sul petto. Per questo mi sono seduto, senza respiro.
Poi dal buio è sbucata la donna alta con il cappotto nero e la guardo, da vicino. Il battito del cuore accelera e, finalmente, trovo le parole.
– Clara! Sei tu. Scusami se non mi alzo, ma non sono sicuro di riuscire. Mi ha preso una grande stanchezza. Che strano rivederti stasera, dopo tanti anni, quando sto pensando a te. Ho ricordato le nostre passeggiate e i cieli dalle mille stelle, quando salivamo dal viale fino al Sacro Monte. Arrivavamo fino al bar appollaiato sul panorama e sorseggiavamo il liquore asprigno, restando vicini. Sono sicuro che ricordi le nostre ore insieme. Ti vesti di nero come allora, e ti sta molto bene. Per anni ho sognato di incontrarti di nuovo. Ma eri sempre su un’altra strada. Sono contento di rivederti qui. Sei silenziosa e non mi rispondi, niente parole inutili tra noi. –
Un sorrisole illumina il volto e il buio intorno. Poi Clara allunga una mano verso di me. La mia è fredda, intorpidita, ma riesce ad afferrare la sua. Il calore di quel contatto mi fa sentire in pace, sereno, quasi felice dopo tanto tempo.
Non la lascio anche quando ritorna, insopportabile, quel peso sul petto.

Angelica si allontana dalla panchina, stringendosi dentro al cappotto e tentando di sentire meno freddo. Risale il viale correndo. Deve arrivare al paese, raggiungere qualcuno, chiedere aiuto. Non c’è nessuno stasera sul percorso e lei si maledice per aver deciso di lasciare a casa il cellulare.Voleva dimenticarsi il mondo per una sera e non aveva voglia di essere ritrovata da nessuno. È rimasta sconcertata dalle parole dello sconosciuto, così diverse dai discorsi che è abituata ad ascoltare. E questo le ha fatto morire sulle labbra una risposta. Non gli ha detto che si sbaglia, che lei non è quella Clara. In fondo che cosa importa, in quel momento in cui lui insegue ricordi e sentimenti lasciati indietro. La cosa giusta da offrire era il silenzio e la sua mano. Il contatto lo ha rasserenato.
Ora è adagiato sulla panchina, in attesa dei soccorsi, con un’espressione tranquilla. Lei però ha capito che non c’è bisogno di cure mediche. Non c’è più tempo.
Si avvicinano le prime luci del paese e quelle dell’unico bar aperto, al termine del viale. Si ferma a prendere fiato e solleva il viso verso il cielo scuro.
Scendono, silenziosi e morbidi, i primi fiocchi di neve.

di Angela Borghi

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