Il mio ragazzo non è un bianco, e nemmeno un nero o un giallo, lui non è nato in Europa, in Africa o in Giappone, e veramente non so neppure dove è nato e di che paese è, ma lui è verde, e non è, lo dico subito, un marziano o un extraterrestre, almeno non sembra, ha i sentimenti, le paure, le emozioni di tutti noi, e se mi sentisse dire queste cose si arrabbierebbe molto perché lui è convinto di essere diverso da tutti gli altri, e in un certo senso lo è, altrimenti non sarebbe il mio ragazzo… ha i capelli verdi ed è sempre alterato, ha gli occhi verdi e vede tutto verde, e ha anche la pelle verde perché è ancora acerbo, non è maturo, e se mi sentisse dire queste cose si arrabbierebbe molto perché lui è convinto di sapere tutto della vita, e vive fuori del mondo, rintanato nella sua cameretta e studia, si alza un’ora prima e va a dormire un’ora dopo, salvo appisolarsi sui libri, è un appassionato di astrologia, o per lo meno adesso è questo il suo interesse, è in continua evoluzione, e anche la sua stanza è verde e riflette il carattere, quel carattere che forse io sola al mondo sopporto, e c’è qualcuno che mi dice come fai a tollerarlo, e l’amore è sempre una cosa difficile da capire e da comunicare, e io rispondo che lo amo per quello che è, e non vorrei che cambiasse per fare piacere agli altri, però una cosa ve la voglio dire, e non per giustificare me stessa e farvi cambiare opinione nei miei confronti ma per confidare che cos’è, secondo me, l’amore…il mio ragazzo non ha i capelli verdi, né la pelle, e nemmeno gli occhi, e la sua stanza in realtà è bianca, ma quello che vede la gente è solo il riflesso della sua immagine, lui è così, mostra un colore, e io lo amo, amo lui e il suo colore, e so che un giorno verranno fuori tutti gli altri, una miriade di colori, i colori che non vi potete immaginare, sarà un’esplosione, e non un miracolo. Sono i colori che io già vedo, e questo per me è l’amore.

di Anna Bentivoglio, illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Allora, vediamo se tutto è pronto. Pasta con le sarde scappate, fatta. L’acqua già bolle. La spigola al sale la metto in forno quando servo l’aperitivo, così la mangiamo calda. Le zucchine alla scapece sono perfette tiepide, nessun problema. In frigo ci sono le cassatine alla siciliana (ricetta segreta di Nonna Rosalia, non hanno mai fallito un colpo). IL Donnafugata è in freezer, già aperto. Continuo a tormentarmi così da piu’ un’ora, facendo la spola tra cucina e finestra della sala da pranzo. È tutto pronto. Bicchieri di cristallo, posate d’argento prese in prestito dai miei, portatovaglioli e sottopiatti di legno. Perché sono così agitato, allora? Perché non arriva, sono due settimane – da quando cioè l’ho convinta a venire a cena da me – che non solo non dormo, ma avrò cambiato il menu una trentina di volte. Poi dicono che la strada del cuore passa per lo stomaco. Quale stomaco? Non penso che a lei. Non ho più fame. Non ho più concentrazione. E la sogno, irrimediabilmente, a occhi aperti. Sogno quello che le potrei dire, di rivederla non appena ci siamo salutati, di come la potrei far ridere ancora, per sentire quella sua risata a testa indietro che squarcia qualsiasi discorso, per vedere quei denti bianchi e quegli occhi che si inumidiscono. Cazzo, comincia pure a nevicare. Cos’è, il citofono? Mi precipito, sì, è al terzo piano!
Il suo odore la precede. Un misto di timo e mughetto, sfacciato, quasi arrogante. Entra, ed è un pugno allo stomaco. Provo a darmi un contegno, ma sono già fuori uso. Mi guarda ed è come se dicesse “Mio”. Beviamo, e non capisco cosa sto dicendo. Provo una sorta di dicotomia. Lei parla, ride, scherza, mi guarda con il suo solito sguardo che mette in disordine mente e stomaco e poi c’è un altro io che parla e la fa ridere. Ma in realtà io, il mio vero io, non ha altra occupazione che guardarla, goderla, immergersi nei suoi occhi. I piatti mi danno una mano, Nonna Rosalia è una garanzia. Mi fai vedere la tua casetta? Certo, vieni, non è un gran che. E in un attimo (ma non stavamo in soggiorno?) ci troviamo sul letto. E lì continuiamo a mangiare, a nutrirci l’uno dell’altra. Io perdo la conoscenza di spazio e tempo. È tutta una nebbia indistinta che ruota attorno a questi due occhi magici, che mi parlano di calore, di tramonti, di vino, di corse sulla spiaggia. Le nostre pelli restano attaccate, a lungo, come se l’unica possibilità per sopravvivere fosse quella di unirci il più possibile. Odori, sapori, sguardi, parole, si uniscono. I nostri piedi, freddi, parlano un linguaggio che non conoscevano prima. Si accarezzano, si intrecciano, si conoscono, si capiscono.
È questo l’amore?
Non lo so, l’unica cosa che capisco è che i nostri corpi, le nostre anime si stanno appartenendo. Restiamo incollati così, nel buio, con i battiti dei cuori che rallentano, solo ora. Ed è qui che ho cominciato ad avere paura. Di quello che succederà tra qualche minuto, o di quello che succederà domani. È questo l’amore?

di Gianluca Fiore

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Ma chi l’ha detto che l’amore è rosso?
Isotta pensava a questo mentre cercava di buttar giù le prime righe del suo “corto”. Non aveva mai amato i luoghi comuni e ora, proprio su uno dei più comuni, quasi un assioma, doveva scrivere qualcosa. Avrebbe potuto raccontare della sua gatta rossa: l’affetto per i propri animali non è una forma d’amore?
Non era nemmeno il suo colore preferito e d’istinto avrebbe scritto la confutazione del tema. Se le avessero chiesto di associare l’amore a un colore avrebbe scelto l’azzurro o il verde, tinte che da sempre le trasmettevano serenità, appagamento. Il rosso era vitalità, energia, le faceva venire in mente sua madre che amava le scarpe rosse. E le ricordava che si era vicini a Natale.
Si guardava intorno alla ricerca di una minima ispirazione e i pensieri si mescolavano a una sensazione di umido: l’inverno non era più freddo come quando era una bambina, ma umido. La sala d’attesa della stazione era vuota.
Aveva perso il treno, per l’ennesima volta. Luca era di sicuro già arrivato e la stava aspettando in auto.
Luca, il suo colore azzurro.
Lui sempre in anticipo, lei sempre in ritardo.
“Quando ti deciderai a imparare a guidare?”. Le ripeteva Luca. E faceva dell’ironia sul suo nome: Isotta, come la famosa automobile e lei non aveva nemmeno la patente!
Cominciava, però, a sentire un pò di tensione quando si toccava l’argomento puntualità e si aspettava che, prima o poi, lui le dicesse che era stanco di aspettarla alla stazione, stanco che finisse di studiare, stanco di non essere presentato a suoi.
Tirò fuori il cellulare dalla borsa: scrivergli che era in ritardo? Non erano soliti mandarsi sms. Lei arrivava. Sempre. Lui aspettava. Sempre.
La prese una sensazione di malessere. Avrebbe voluto non aver perso quel treno. Lo avrebbe voluto per lui. Lo avrebbe voluto per loro due.
Capì che il treno era lei, sempre in corsa e Luca la sua fermata. Ma non lo trovò ad aspettarla quel giorno.
Luca, il suo colore azzurro.
Tornò a casa.
E fu colore nero.
Giunse Natale. Le luci sul balcone, l’albero addobbato a festa, la tovaglia rossa. Luca era lì. Un pensiero veloce la attraversò. Sorrise. Luca era proprio azzurro!
Tra i regali Isotta trovò una piccola scatola. Dentro un orologio con un cinturino di pelle rossa e un biglietto: “Rosso come l’amore. Per non perdere (più) gli appuntamenti con la felicità. Papà.”

di Anna Rosa Confalonieri, disegno di Anna Lucrezia Rossi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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A chi lo elogiava pubblicamente nel grande salone col lampadario dai mille tentacoli, il capitano Gregori rispondeva con un lieve sorriso. In quelle maree di complimenti da anni si orientava con l’unica bussola che gli consentiva di non andare alla deriva: il silenzio.
Il solo movimento verso l’altro (l’issare un calice) lo dedicò a quei due sposini, di classe sociale così lontana e voglia di vivere così vicina, che sul pontile, abbracciati, guardavano la terra promessa. Insomma, la luce della celebrità e l’illuminazione degli applausi lo accecavano. Così cercò ombra nel ventre di un bar, dove sapeva e salpava la ciurma, compagna di quel viaggio che in altro mondo non poteva certo finire.
Ma ognuno ha le sue stanze, e vedere un capitano tra i beoni e i bestemmiatori è cosa ben rara. Eppure nessuno fece caso al suo ingresso perché tutti quanti erano raccolti attorno al mozzo. Seduto su una sedia sgangherata, il mozzo, sudato, raccontava: “In mezzo al mare una donna bianca, così enorme, alla luce delle stelle, che di guardarla uno non si stanca”.
E quando un impertinente “eri ubriaco marcio” chiese: “Hai almeno un testimone senza bottiglia che era con te sul cassero quella notte?”, gli occhi del mozzo, alzandosi, incontrarono quelli del capitano. Il silenzio, così fuori rotta in quel sotterraneo, spostò il faro dell’attenzione su quel lustre ospite che laggiù non aveva autorità.
Il capitano girò le spalle, andò al bancone, e sentì il dito indice del mozzo all’altezza dei reni. Ordinò da bere. Il barista versò un’insinuazione nelle sue orecchie: “Io non ho mai messo piede sull’infinito vivente ma ti assicuro che di tutti gli sguardi che ho visto da dietro questo sbarra, tu sei proprio uno di quelli che la Venere bianca l’ha vista per davvero!”. Il capitano non lo guardò nemmeno, trangugiò, lasciò una banconota tanto grande da far riempire i boccoli agli astanti e se ne andò mentre il brusio per quel racconto inverosimile cresceva d’intensità.
In camera aprì la finestra, si accese la pipa “in questa alba fresca e scura che rassomiglia un po’ alla vita. C’è solo un po’ di nebbia che annuncia il sole. Andiamo avanti tranquillamente”. Fu l’ultimo suo canto.
Lo trovarono la mattina seguente. Era diventato una statua ornata da candide conchiglie. Se lo annusavi riconoscevi il profumo del mare.
Lo deposero al Museo della Marina cittadino.
Leggenda vuole che se si sta innanzi a lui in perfetto silenzio si ode la risacca. Leggenda vuole che l’apparizione della Venere bianca, per alcuni sia una maledizione e per altri una benedizione; per taluni sia voglia di vivere, per altri voglia di morire.

di Paolo Negri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Quel sabato nella via c’era la solita marmaglia di turisti affamata di souvenir. Victor tirò su la saracinesca della bottega di antiquariato in Portobello Road. Da quando la moglie Elisabeth lo aveva lasciato, ogni azione era più pesante: aprire il negozio, portare fuori gli scaffali e riporvi la mercanzia. Aveva sempre dubbi sugli abbinamenti, “Cose da donne “ bofonchiava sotto la barba incolta. Lei non avrebbe sopportato quel look trasandato, ma ormai non c’era più e anche l’uomo ben rasato e curato se n’era andato con lei. Era tornato quello burbero e selvatico, quello che si metteva i vestiti del giorno prima. Aveva anche ripreso a fumare, perfino di notte, ogni volta che il pensiero di lei lo teneva sveglio.
Una parvenza di dignità l’aveva mantenuta, per Bess, sua figlia. Il musetto roseo illuminato dai dentini da latte aguzzi spuntò dall’uscio a cercarlo.
“Ciao papà!” la sua voce cristallina lo fece trasalire, mentre disponeva la targa vintage dei sigari cubani di fianco a quella del rum Havana Club. “Ciao Bessy, cosa ci fai qui? Non dovevi fare i compiti?”, la rimproverò, “sì, ma mi annoiavo, ti aiuto?”, suggerì lei, “non è necessario, vieni giù dopo, chiudo il negozio e ti porto in un posto speciale, ok?” Victor sfoggiò il suo sorriso migliore, e le dette un buffetto sulla testa ricciuta. Bess sparì mogia nel locale, e lui appese un modellino di Fairey Swordfish, vicino al triplano del Barone Rosso.
Arrivavano i primi clienti. Lui si fingeva impegnato, ma appena perdevano interesse, si fiondava da loro per illustrare gli ultimi arrivi e le offerte del giorno. Era tardi, e di Bess nemmeno l’ombra. Girò il cartello sulla la scritta “Closed”. Si diresse verso la porta dietro al bancone, e imboccò le scale che portavano al loro appartamento.
La bambina era ferma alla finestra, gli occhi puntati al cielo che imbruniva. Aspettava la prima stella, quella della mamma, come lui le aveva raccontato tante volte. “Eccola è lei, papà, ci sta guardando!” Victor la strinse dolcemente tra le braccia e le sussurrò: “Stasera andiamo sul London Eye (1) , così quando saremo in cima ci sembrerà di essere lì con lei e potremo quasi toccarla con un dito”.

(1) ruota panoramica di Londra situata sulla riva sud del Tamigi

di Olga Riva Rovaglio, illustrazione di Silvia Gabardi

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Si alzò con calma, non aveva fretta né voleva svegliare anzitempo i bambini.
Spinse la coperta che chiudeva l’ingresso della tenda e alzò gli occhi al cielo: un’altra giornata di bianco lattiginoso, l’aria ferma, un silenzio opprimente.
Quattordici anni appena compiuti e un unico scopo: sopravvivere.
Guardò i fagotti stesi sul pavimento: quattro bambini sconosciuti che aveva trovato per strada; l’avevano implorato di portarli via dalla città abbandonata e adesso erano la sua famiglia.
Venus e Alba, quasi ragazzine, che portavano in spalla i piccoli quando erano troppo sfiniti per camminare: Jem, gli occhi scavati il corpo scosso da tremori, si spegneva giorno dopo giorno e il piccolo Adam, che ancora sapeva sorridere.
Le scorte di acqua erano quasi finite, oggi avrebbero raggiunto il crinale delle colline, scavato nel fondo delle crepe e, forse, sarebbero sopravvissuti, almeno un po’.
«Max, dove sei?»
«Adam, cerca di dormire! È presto per mettersi in cammino!»
«Ho paura, vieni da me, raccontami ancora la storia del nonno»
Già, la “storia del Nonno”: era passata di bocca in bocca da generazioni e nessuno sapeva più chi fosse il Nonno. Max l’aveva sentita da suo padre, che a sua volta l’aveva sentita da uno zio, e lui chissà da chi…
Si accoccolò vicino al bambino e sussurrò:
«C’era una volta una grande casa piena di bambini e animali in libertà. La chiamavano fattoria, era circondata da campi e alberi carichi di frutti. In lontananza si sentiva il rumore del fiume carico d’acqua che correva verso valle …»
Il respiro di Adam si fece regolare, bastava poco per sognare.
«Max ti prego continua!» Anche Venus e Alba si erano svegliate.
«… Si susseguivano le stagioni, il sole, poi la pioggia e la neve: faceva un gran freddo, la terra restava sotto una coltre bianca a riposare, pronta a rinascere a primavera…»
Jem emise un lamento, bruciava di febbre e non trovava riposo.
«… e quando il cielo si faceva scuro e tuoni e lampi di luce spaventavano il cuore dei bambini, dal cielo cadevano secchiate di pioggia, lo chiamavano temporale…»
«Max, hai mai visto un…?»
La parola rimase sospesa, in lontananza un brontolio sconosciuto, un vento forte.
Si alzò di corsa e uscì dalla tenda: il cielo era scuro, pareva correre verso le colline: dovevano essere così le nuvole cariche di pioggia!
Max non aveva mai visto un temporale, né la pioggia, né prati né alberi, ma seppe che erano salvi.

di Alessandra Stifani, foto di Alessandro Boscarini

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Chi si ferma è perduto! gridano i tenenti. Chi si ferma è perduto! ripetono i sergenti.
Cammino un giorno intero. Sono stanco, ho fame, ho sonno. Fiume ghiacciato. Terreno ghiacciato. Nevica, e la neve si accumula. Un passo dopo l’altro, e con la neve fresca il passo è più pesante. Ho fame. Ho sonno. Voglia di buttarmi in questa morbidezza, e dormire. Per sempre. Addio, mondo fasullo. Mi hai ingannato, e io c’ho creduto. Ho creduto all’amore. È finita, prima di cominciare. Papà, mamma, fratelli, sorelle. Amici. Mi ricorderete. Quella volta in cui. Olga, in un solo giorno ti ho dimenticata. Non sono più un uomo. Cammino e cammino. Ti prometto, però. L’ultima immagine sarai tu. L’amore. Cammino e cammino, cammino. Laggiù una luce, un’isba. Devo arrivarci. Devo. Salvo la vita. Non è la mia terra. Ho lasciato a casa l’amore perché avevo un dovere da compiere. Adesso l’ho compiuto, ci sono passato dentro, al dovere. Ne sono uscito. Sono un uomo libero. Libero. Voglio solo amare.
Cammino cammino cammino. Chi si ferma è perduto. I russi attaccano, sparano. Oggi c’è il sole. Pallido, ha una faccia da funerale. Il nostro. È lì per vedere, per farci le condoglianze. E le pernacchie. Ride di noi, stupidi animali. Incontro alpini che hanno camminato avanti e adesso si sono afflosciati. Feriti, induriti dal freddo.
Uno è steso, rannicchiato. Un modo originale per trapassare. Un feto nella placenta. È già morto, e prega ancora. La morte ama tutti.
Un altro è in croce. Gli è venuto spontaneo stendersi come un Gesù Cristo. Non c’è Maddalena, non ci sono le pie donne, e chi passa capisce. La morte ama tutti.
Un alpino si è inginocchiato, e così è rimasto. Figurante di un presepe. Ma qui è il calvario. Dentro tutta la vita, da Betlemme alle Tre croci. La morte ama tutti.
Vedo il poeta Bernasconi Alvaro seduto nella neve. Alvaro, Alvaro. Non ce l’ha fatta. Gli è bastata una notte di gelo. C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico. La morte ama tutti.
Io no, resisto, e cammino. Vivo il doppio, come quel giorno che mi alzai con Olga nella mente. Io sono quello che morirà, e guardo i morti che camminano con me. Sono cosciente. Il soldato che racconta è un altro. Lui scrive nel vento, e consegna parole all’Infinito. Io ho lo zaino in spalla, il fucile a tracolla.

di Abramo Vane Pagina tratta da “Il soldato inutile” di Abramo Vane Edizioni Il cavedio 

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La tavola è ricoperta di piatti: carni e verdure spiccano colorati sulla tovaglia bianca, i bicchieri tintinnano allegri e tutti si servono dalle zuppiere stracolme. Rido e mangio senza pensieri quando una voce improvvisa, dura, spegne il mio sogno e i colori. Sono sveglio, devo lasciare andare le ultime immagini. Rifaccio la cuccetta in fretta. Esco dalla baracca in un mondo in bianco, nero e grigio. Fa freddo. Non è ancora l’alba e il cielo è senza stelle. Mi metto in coda insieme agli altri per il pezzo di pane, la razione di un giorno, che mangeremo a piccoli morsi per farlo durare di più e ne raccoglieremo le briciole.
Anche il pane è grigio, senza colore e senza profumo. Ci sembra buonissimo.
Davanti a me il mio vicino di cuccetta, 174517, un ragazzo di meno di vent’anni, barcolla. Cerco di sostenerlo perché non cada, senza farmi vedere da nessuno, con un gesto che si perda nel buio. Lui si volta e mi guarda in silenzio. La faccia è un teschio, le braccia e le gambe sono quelle di uno scheletro. Gli occhi hanno dentro lo scuro del cielo. Non ce la farà.
In lontananza strie grigie di nuvole si confondono con la neve sporca che ricopre il terreno. Dietro i reticolati file di alberi dai rami nudi coprono i campi alla vista.
Prendo il mio pezzo di pane e resto vicino a lui mentre ci allontaniamo dalla zona della distribuzione. Aspetto che l’Unterscharfűhrerse ne vada e che i soldati guardino da un’altra parte. Molte cose sono proibite, qui.
Camminiamo insieme, il suo passo è più incerto e più lento.
Mi decido, stacco un pezzo del mio pane. Grosso. Lo tendo al ragazzo senza parlare. Forse non ce la farà. E nemmeno io.
Ma quando tiene tra le mani il pezzo di pane, per la prima volta lo vedo sorridere anche con gli occhi. Non sono più del colore del fango, ora sono blu.

(Giornata della Memoria, 27 gennaio)

di Angela Borghi

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Ci sono cento, mille, infinite strade da percorrere, e oggi, su una di queste, ho incontrato Samuele Arcangioli, pittore, ma non è che gli ho dato la mano e detto tanto piacere, Samuele l’ho conosciuto attraverso il catalogo delle sue opere, e anche questa è una strada come altre, e anzi, fra le tante, quella dell’arte è privilegiata… e capita che hai un’emozione, una gioia incontenibile, un dolore, e hai una necessità vitale, come il bere o il dormire, devi esprimere, comunicare, ma ciò che hai vissuto è solo tuo, è un’esperienza personale, è come il pensiero di un santo che vive in una grotta su in montagna, nessuno sa di lui, ma quel suo pensiero è così forte che si consegna all’infinito per proprio conto, con spontanea innocenza, e seppure di grande dolcezza è più potente di tutto il potere del mondo… e ci sono cento, mille, infinite strade da percorrere e da ragazzo pensavo di camminare per ognuna di esse, e adesso sono su questa pagina di leonessa e leggo i dettagli, 100×150, immensa, me la figuro su una parete e prendo le misure, qui non ci starebbe nemmeno e allora la collocherei là, ma forse la mia non è una casa adatta, sarebbe come mettere un animale in gabbia, quella leonessa ha bisogno del salone di una villa… olio, carta da pacco e foglia oro su tavola, mi perdo in sensazioni e pensieri che non c’entrano molto con l’esperienza africana dell’autore, ma l’arte è così, apre spiragli, le sue parole sono mute, vanno da anima ad anima, è come se ci si parlasse da vecchi amici, uno scrive, o disegna, e un altro ascolta, e qualcosa si muove, gli stimoli non mancano e dove arriveremo non lo sappiamo. Ci sono cento, mille, infinite strade e forse le percorreremo tutte, forse ne tracceremo altre o forse, con umiltà, ne cercheremo di impossibili.

di Fedele Mozzi, dipinto di Samuele Arcangioli

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Stanotte c’è stato il temporale. Il cielo è ancora grigio e intorno tutto dice che l’autunno è alle porte: lo dice il calendario appeso alla parete, lo annunciano le colline sopra la città che sfoggiano nuovi colori e i negozi che espongono abiti in maglia accanto a ciò che resta dei saldi estivi. Il passaggio di stagione è vicino, ma a lei piace quest’atmosfera sospesa, incerta. Ben si sposa con un carattere indolente. L’aria frizzante del mattino le spettina i capelli sciolti. Si specchia in una vetrina e con un gesto veloce li lega con un elastico. E’ bella Astrid, di una bellezza esotica: capelli ricci corvini, pelle ambrata e grandi occhi verdi. Suo padre non l’ha conosciuto: avventura estiva di sua madre a Cuba, nella vacanza dopo la maturità. Ha un carattere schivo, pochi amici, una storia nata tra i banchi di scuola che dura più per abitudine e pigrizia che per convinzione, un lavoro che non la soddisfa e prossima ai trent’anni. Ha un groppo in gola e mordicchia le unghie. Ha bisogno di cambiamento. Lo pensa, lo dice, ma non trova il coraggio. Si sente in ritardo nella vita. “L’orologio biologico corre”, le fa eco sua madre, che mai per un attimo si è pentita di averla tenuta e sembra una sua coetanea. Ripensa alla proposta di matrimonio di Mario, alla quale aveva risposto in modo ironico con un “Mi metterai sulla croce a trentatré anni, come Cristo”. Lo feriva a volte per punirlo di non essere più capace di stupirla. Si siede al tavolo del solito baretto e ordina il solito cappuccino con poco caffè, mentre sfoglia quel che resta di un quotidiano stropicciato da più mani. L’occhio cade su un trafiletto: il bando per l’estrazione delle 50.000 Green Card messe a disposizione dal governo americano. Le viene in mente un film romantico degli anni ‘90, con quell’attrice dai capelli simili ai suoi. Un matrimonio di convenienza sfociato in un amore impossibile. E’ la fine di settembre, la fine di un’estate monotona trascorsa senza quasi lasciarne ricordo, una delle tante, con poche fotografie e sempre uguali. Chissà prima o poi anche lei andrà a Cuba, magari in viaggio di nozze. Le viene quasi da ridere. Cerca per curiosità la data di scadenza del bando. La tentazione di iscriversi è forte, così come lo è la paura nel futuro, che immagina troppo simile al suo presente. Come dirlo agli altri? A Mario, a sua madre… In fondo c’è tempo per le confessioni: l’estrazione avverrà fra uno o due anni; può anche non dirlo, sarà il suo segreto. Si iscrive per gioco, ma in fondo ci crede. La carta è verde, come la speranza.

di Annarosa Cofalonieri

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