Una Milano col mare: così l’avevo immaginata, ma il mare non l’ho ancora visto. Da giorni, e non so più quanti, il mio mondo è il camerone all’ultimo piano: una fila di lettini lungo la parete, le lenzuola ruvide ben tirate, il comodino con la vaschetta per lavarsi e una finestra nel sottotetto, unica fonte di luce.
Cinquanta ragazzini portati qui dal torpedone in una domenica di inizio estate: la colonia estiva, una vacanza anche per noi, figli di operai della Breda, lontano dalla bruma di Sesto San Giovanni. Mio papà aveva rinunciato al “bianchin sprüzà” del sabato sera per tutto l’inverno, quattro soldi risparmiati per mandarmi in villeggiature. La mamma se ne era andata con lo zio Salvo in un giorno di ottobre, senza una parola. Non era più tornata, ma adesso avrei visto il mare.
Eravamo arrivati a tarda sera, stremati dalle curve sull’Appennino, affamati. La Madre Superiora aspettava davanti al cancello, a braccia conserte, il rumore secco del piede sul marciapiede. Ci aveva spinto senza un sorriso verso il refettorio: una ciotola di riso, un formaggio maleodorante, la cotognata nella stagnola; faceva schifo, ma eravamo abituati a mangiare tutto e l’indomani ci aspettava il mare. Non ero riuscita a dormire; nella camerata singhiozzi trattenuti, qualche colpo di tosse. All’alba erano iniziati i brividi e i conati di vomito, unica compagnia la paura. Poi avevo sporcato il letto e la suora di turno voleva che pulissi da sola. Ho conosciuto così Maria, la sguattera bergamasca, brutta e tozza: si era intrufolata nella camerata, aveva sistemato le lenzuola e riempito la brocca di acqua fresca.
Stamattina i bambini sono usciti presto. Guardo il ritaglio di cielo terso, sarà una bella giornata.
“Abbronzate, tutte chiazze, pelli rosse un po’ paonazze, son le ragazze che prendono il sol…“.
Maria lava i panni in cortile e canta. Suor Angela la lascia fare, lavora da mulo e si accontenta degli avanzi di cucina. La sua voce sale senza fatica fino a me, vorrei chiamarla, ma sono troppo stanca per alzarmi. Mi giro nel letto, il cuscino di crine gratta la pelle: ancora febbre, il mal di pancia mi lascia senza fiato e l’acqua è finita da un pezzo.
Cala la sera e i bambini dormono sfiniti dal sole e dai giochi nell’acqua, un’altra giornata felice. Alla finestra si affaccia un disco luminoso, la luna piena.
“…Sopra al tetto come i gatti e se c’é la luna piena…”.
La voce di Maria si confonde col miagolio dei gatti, sento la sua mano ruvida che mi accarezza le guance roventi; guardo quel volto sgraziato e la chiamo mamma. Il calore della febbre mi abbandona, e oscillo senza peso nella luce bianca. Corro sulla spiaggia assolata verso il mare: è bello nuotare.
“Tin tin tin, raggi di luna, tin tin tin, baciano te
al mondo nessuna é candida come te”

di Alessandra Stifani

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Da settimane i ritmi lenti degli abitanti della cittadella erano sconvolti dall’agitazione. La poca disciplina, le uniformi trascurate, gli stivali sporchi di fango non passavano inosservati. Gli ordini gridati si perdevano nella confusione. Eliminare le prove! Evacuare prigionieri e soldati! Molti di loro erano già stati allontanati: la marcia della morte per sessantamila ospiti del campo. Denutriti, sfiniti, battuti dal vento. Quanti avrebbero retto? Si chiedeva Hans, una delle ultime reclute, biondo, di corporatura minuta, vent’anni, ma già vecchio lo sguardo, le mani gonfie e rigide per il freddo. Tremava. Il gelo invernale e l’ansia della fuga mettevano a dura prova anche loro, i tedeschi. La guerra era persa. Ormai era chiaro a tutti. “È solo questione di tempo”, disse con un filo di voce il prigioniero che camminava curvo al suo fianco, i piedi scalzi, uno straccio di coperta sulle spalle.Il giovane soldato non capì. Si vergognò di indossare scarponi. I Russi si avvicinavano, ma Richard Baer, comandante in capo di Auschwitz, non sarebbe fuggito. In piedi davanti alla porta del suo alloggio, si guardò intorno ancora una volta e sistemò il cappello. Le labbra serrate. Tirò fuori un fazzoletto dalla tasca. Se lo passò sulla bocca. L’odore di morte non lo abbandonava: era nelle narici, sulla punta delle dita, nella trama dei suoi vestiti. Odiava quel posto. Odiava quelle bocche sdentate, quelle teste rasate, ossa ambulanti che si trascinavano rassegnate. Nessun rimpianto né rimorso. Solo disgusto. Sentì degli spari. L’Armata Rossa era più vicina di quanto pensasse.Mise la mano sul fodero e sentì la Luger P08. Si sarebbe difeso. E se lo avessero preso? La capsula di cianuro nascosta in un dente avrebbe salvato il suo onore. Al cancello principale, con i mitragliatori sotto il braccio, apparvero i primi soldati della 60esima armata dell’esercito sovietico. Si fermarono in silenzio ai reticolati dove corpi ridotti a scheletri allungavano le mani per cercare pane e aiuto. Erano i più deboli, gli ammalati, lasciati indietro dalle SS. Graziati dal destino. Difficile distinguere gli uomini dalle donne. Esseri annullati. I giovani soldati russi, stanchi e goffi nelle uniformi pesanti, si scambiavano sguardi increduli e poche parole, sottovoce, in una lingua incomprensibile. Nauseati dal forte odore di carne bruciata, trattenevano a fatica conati di vomito. Al loro fianco, inesorabili, i carri armati sfondavano i cancelli della fabbrica dell’orrore. Tra montagne di cadaveri accatastati, tonnellate di capelli umani e centinaia di migliaia di indumenti e paia di scarpe si aggiravano pallidi fantasmi. Era mezzogiorno, il 27 gennaio 1945, e la neve scendeva fitta.

Di Anna Rosa Confalonieri

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11 maggio, finale di coppa, capolinea di una storia d’amore.
Catenina fuori della maglietta e sorriso da divo, l’Uomo Ragno scende in campo da titolare per l’ultima volta.
La tensione è palpabile: la stagione è stata fallimentare e lui ha contribuito a renderla più angosciosa, un errore dopo l’altro.
Non avrà un’altra occasione per riscattarsi.
Rimugina su quel soprannome; Uomo Ragno lo chiamavano i tifosi della prima ora, ai quali regalava i voli straordinari che lo avevano portato nel calcio che conta.
Dopo l’approdo in prima squadra è diventato il suo marchio di fabbrica.
A trentacinque anni però s’è fatto vecchio per quel mestiere; meglio tirarsi da parte allora, come ha lasciato intendere il nuovo allenatore e gli hanno urlato i tifosi durante una contestazione.
Giorni prima un ex compagno l’ha chiamato: ti hanno fatto fuori, la prossima stagione giocherai con noi.
Credeva di avere ancora qualche chance di concludere la sua carriera in bellezza, invece l’avevano già scaricato.
L’avrebbero girato a una squadra minore in cambio del loro giovane e promettente numero uno.
Infedele per indole, i tredici annitrascorsi con quei colori sono stati la sua relazione più duratura e proprio non ci sta a farsi piantare a quel modo.
Si parte dallo 0-1 dell’andata in favore dei padroni di casa.
Primi trenta di gioco senza storia, i suoi compagni fanno la gara, ma si divorano tre occasioni clamorose per passare in vantaggio.
Nel calcio c’è un detto a proposito di gol sbagliati che è senza appello.
Dopo l’ennesima occasione sprecata, una palla persa innesca il contropiede degli avversari.
Sono una formazione di outsider e per molti di loro questa finale è l’occasione della carriera: non faranno sconti pur di aggiudicarsela.
Il rasoterra sbuca da una selva di gambe, l’Uomo Ragno si distende e l’agguanta.
Non passa un minuto, altro tiro violento da fuori e con i pugni la devia in calcio d’angolo.
La squadra di casa sbanda, si aggrappa al suo baluardo per non capitolare.
L’ultimo assalto degli ospiti sembra irresistibile, ma la sorte deve ancora vedersela con lui.
Si supera, raggiunge la palla con la punta delle dita, palo! doppio palo!, e la sfera torna salda fra le sue braccia.
Il pubblico è in delirio.
Rinvia lungo per un compagno sulla sinistra; quello arpiona la palla, entra in area e fredda il portiere con un pallonetto: 1-0.
Fischio finale, lo stadio esplode; l’Uomo Ragno corre con le braccia alzate verso la curva che lo osanna. Spavaldo e presuntuoso, sempre stato così.
Un Uomo Ragno, c’è solo un Uomo Ragno…cantano imperituro amore i tifosi.
È il suo risarcimento.
Un cronista lo rincorre: dicono sia la tua ultima partita
Ma chissenefrega!
risponde divertito.

di Daniele Bin, illustrazione di Alda M.C. Torri

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Dopo la scuola, girovagava per le strade della città fino al calar della notte, quando il buio la costringeva a tornare a casa: due locali in periferia, una mamma rimasta vedova presto e troppo stanca per combattere, tre fratelli capaci solo di picchiarsi e poi lui, l’orco, il crudele padrone delle loro vite.
Era una bella bambina: bionda, capelli lisci, un incarnato rosato inconsueto in una famiglia in cui tutti erano scuri e ricciuti; no, il nonno no, lui era rosso di pelo come una volpe, affamata. La chiamavano Melina e tutti pensavano al frutto, ma era solo il diminutivo di Carmela, il nome della nonna morta giovane cadendo dalla finestra della camera da letto. Lei era ancora piccola, l’aveva sentita piangere e urlare, poi un tonfo: un segreto di famiglia.
Col tempo incominciò a capire:
“Vieni, Melina bella, vieni sulle mie ginocchia!”
Sembrava amore, ma giorno dopo giorno gli occhi che dovevano amarla si erano fatti famelici, la bramavano senza tregua: un abisso di dolore, nel silenzio. A scuola nessuno sapeva, pensavano fosse timida, parlava poco, non giocava coi compagni; in compenso era l’unica che leggeva i libri della piccola biblioteca di classe, nascosta in un angolo quasi fosse una vergogna.
Lì c’era il suo preferito, quello del bambino che vola, che prende per mano Wendy, John e Michele e porta tutti i Bimbi Sperduti nel cielo… SECONDA STELLA A DESTRA,
FINO ALL’ISOLA CHE NON C’È …
Stamattina è uscita presto e ancora vaga in questo strano inverno senza gelo. Il corpo e l’anima pieni di lividi, stanca di piangere sotto le coperte e di avere paura.
Guarda il cielo e nel crepuscolo brilla Sirio la prima stella, lì vicino la seconda, la piccola Nana Bianca; sulla destra, una strada dritta e l’insegna luminosa del posto di Polizia.
SECONDA STELLA A DESTRA,
POI SEMPRE DRITTO
E LA STRADA LA TROVI DA TE
FINO ALL’ISOLA CHE … C’È

di Alessandra Stifani, illustrazione di Alessandro Boscarini

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Il mio ragazzo non è un bianco, e nemmeno un nero o un giallo, lui non è nato in Europa, in Africa o in Giappone, e veramente non so neppure dove è nato e di che paese è, ma lui è verde, e non è, lo dico subito, un marziano o un extraterrestre, almeno non sembra, ha i sentimenti, le paure, le emozioni di tutti noi, e se mi sentisse dire queste cose si arrabbierebbe molto perché lui è convinto di essere diverso da tutti gli altri, e in un certo senso lo è, altrimenti non sarebbe il mio ragazzo… ha i capelli verdi ed è sempre alterato, ha gli occhi verdi e vede tutto verde, e ha anche la pelle verde perché è ancora acerbo, non è maturo, e se mi sentisse dire queste cose si arrabbierebbe molto perché lui è convinto di sapere tutto della vita, e vive fuori del mondo, rintanato nella sua cameretta e studia, si alza un’ora prima e va a dormire un’ora dopo, salvo appisolarsi sui libri, è un appassionato di astrologia, o per lo meno adesso è questo il suo interesse, è in continua evoluzione, e anche la sua stanza è verde e riflette il carattere, quel carattere che forse io sola al mondo sopporto, e c’è qualcuno che mi dice come fai a tollerarlo, e l’amore è sempre una cosa difficile da capire e da comunicare, e io rispondo che lo amo per quello che è, e non vorrei che cambiasse per fare piacere agli altri, però una cosa ve la voglio dire, e non per giustificare me stessa e farvi cambiare opinione nei miei confronti ma per confidare che cos’è, secondo me, l’amore…il mio ragazzo non ha i capelli verdi, né la pelle, e nemmeno gli occhi, e la sua stanza in realtà è bianca, ma quello che vede la gente è solo il riflesso della sua immagine, lui è così, mostra un colore, e io lo amo, amo lui e il suo colore, e so che un giorno verranno fuori tutti gli altri, una miriade di colori, i colori che non vi potete immaginare, sarà un’esplosione, e non un miracolo. Sono i colori che io già vedo, e questo per me è l’amore.

di Anna Bentivoglio, illustrazione di Renato Pegoraro

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Allora, vediamo se tutto è pronto. Pasta con le sarde scappate, fatta. L’acqua già bolle. La spigola al sale la metto in forno quando servo l’aperitivo, così la mangiamo calda. Le zucchine alla scapece sono perfette tiepide, nessun problema. In frigo ci sono le cassatine alla siciliana (ricetta segreta di Nonna Rosalia, non hanno mai fallito un colpo). IL Donnafugata è in freezer, già aperto. Continuo a tormentarmi così da piu’ un’ora, facendo la spola tra cucina e finestra della sala da pranzo. È tutto pronto. Bicchieri di cristallo, posate d’argento prese in prestito dai miei, portatovaglioli e sottopiatti di legno. Perché sono così agitato, allora? Perché non arriva, sono due settimane – da quando cioè l’ho convinta a venire a cena da me – che non solo non dormo, ma avrò cambiato il menu una trentina di volte. Poi dicono che la strada del cuore passa per lo stomaco. Quale stomaco? Non penso che a lei. Non ho più fame. Non ho più concentrazione. E la sogno, irrimediabilmente, a occhi aperti. Sogno quello che le potrei dire, di rivederla non appena ci siamo salutati, di come la potrei far ridere ancora, per sentire quella sua risata a testa indietro che squarcia qualsiasi discorso, per vedere quei denti bianchi e quegli occhi che si inumidiscono. Cazzo, comincia pure a nevicare. Cos’è, il citofono? Mi precipito, sì, è al terzo piano!
Il suo odore la precede. Un misto di timo e mughetto, sfacciato, quasi arrogante. Entra, ed è un pugno allo stomaco. Provo a darmi un contegno, ma sono già fuori uso. Mi guarda ed è come se dicesse “Mio”. Beviamo, e non capisco cosa sto dicendo. Provo una sorta di dicotomia. Lei parla, ride, scherza, mi guarda con il suo solito sguardo che mette in disordine mente e stomaco e poi c’è un altro io che parla e la fa ridere. Ma in realtà io, il mio vero io, non ha altra occupazione che guardarla, goderla, immergersi nei suoi occhi. I piatti mi danno una mano, Nonna Rosalia è una garanzia. Mi fai vedere la tua casetta? Certo, vieni, non è un gran che. E in un attimo (ma non stavamo in soggiorno?) ci troviamo sul letto. E lì continuiamo a mangiare, a nutrirci l’uno dell’altra. Io perdo la conoscenza di spazio e tempo. È tutta una nebbia indistinta che ruota attorno a questi due occhi magici, che mi parlano di calore, di tramonti, di vino, di corse sulla spiaggia. Le nostre pelli restano attaccate, a lungo, come se l’unica possibilità per sopravvivere fosse quella di unirci il più possibile. Odori, sapori, sguardi, parole, si uniscono. I nostri piedi, freddi, parlano un linguaggio che non conoscevano prima. Si accarezzano, si intrecciano, si conoscono, si capiscono.
È questo l’amore?
Non lo so, l’unica cosa che capisco è che i nostri corpi, le nostre anime si stanno appartenendo. Restiamo incollati così, nel buio, con i battiti dei cuori che rallentano, solo ora. Ed è qui che ho cominciato ad avere paura. Di quello che succederà tra qualche minuto, o di quello che succederà domani. È questo l’amore?

di Gianluca Fiore

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Ma chi l’ha detto che l’amore è rosso?
Isotta pensava a questo mentre cercava di buttar giù le prime righe del suo “corto”. Non aveva mai amato i luoghi comuni e ora, proprio su uno dei più comuni, quasi un assioma, doveva scrivere qualcosa. Avrebbe potuto raccontare della sua gatta rossa: l’affetto per i propri animali non è una forma d’amore?
Non era nemmeno il suo colore preferito e d’istinto avrebbe scritto la confutazione del tema. Se le avessero chiesto di associare l’amore a un colore avrebbe scelto l’azzurro o il verde, tinte che da sempre le trasmettevano serenità, appagamento. Il rosso era vitalità, energia, le faceva venire in mente sua madre che amava le scarpe rosse. E le ricordava che si era vicini a Natale.
Si guardava intorno alla ricerca di una minima ispirazione e i pensieri si mescolavano a una sensazione di umido: l’inverno non era più freddo come quando era una bambina, ma umido. La sala d’attesa della stazione era vuota.
Aveva perso il treno, per l’ennesima volta. Luca era di sicuro già arrivato e la stava aspettando in auto.
Luca, il suo colore azzurro.
Lui sempre in anticipo, lei sempre in ritardo.
“Quando ti deciderai a imparare a guidare?”. Le ripeteva Luca. E faceva dell’ironia sul suo nome: Isotta, come la famosa automobile e lei non aveva nemmeno la patente!
Cominciava, però, a sentire un pò di tensione quando si toccava l’argomento puntualità e si aspettava che, prima o poi, lui le dicesse che era stanco di aspettarla alla stazione, stanco che finisse di studiare, stanco di non essere presentato a suoi.
Tirò fuori il cellulare dalla borsa: scrivergli che era in ritardo? Non erano soliti mandarsi sms. Lei arrivava. Sempre. Lui aspettava. Sempre.
La prese una sensazione di malessere. Avrebbe voluto non aver perso quel treno. Lo avrebbe voluto per lui. Lo avrebbe voluto per loro due.
Capì che il treno era lei, sempre in corsa e Luca la sua fermata. Ma non lo trovò ad aspettarla quel giorno.
Luca, il suo colore azzurro.
Tornò a casa.
E fu colore nero.
Giunse Natale. Le luci sul balcone, l’albero addobbato a festa, la tovaglia rossa. Luca era lì. Un pensiero veloce la attraversò. Sorrise. Luca era proprio azzurro!
Tra i regali Isotta trovò una piccola scatola. Dentro un orologio con un cinturino di pelle rossa e un biglietto: “Rosso come l’amore. Per non perdere (più) gli appuntamenti con la felicità. Papà.”

di Anna Rosa Confalonieri, disegno di Anna Lucrezia Rossi

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A chi lo elogiava pubblicamente nel grande salone col lampadario dai mille tentacoli, il capitano Gregori rispondeva con un lieve sorriso. In quelle maree di complimenti da anni si orientava con l’unica bussola che gli consentiva di non andare alla deriva: il silenzio.
Il solo movimento verso l’altro (l’issare un calice) lo dedicò a quei due sposini, di classe sociale così lontana e voglia di vivere così vicina, che sul pontile, abbracciati, guardavano la terra promessa. Insomma, la luce della celebrità e l’illuminazione degli applausi lo accecavano. Così cercò ombra nel ventre di un bar, dove sapeva e salpava la ciurma, compagna di quel viaggio che in altro mondo non poteva certo finire.
Ma ognuno ha le sue stanze, e vedere un capitano tra i beoni e i bestemmiatori è cosa ben rara. Eppure nessuno fece caso al suo ingresso perché tutti quanti erano raccolti attorno al mozzo. Seduto su una sedia sgangherata, il mozzo, sudato, raccontava: “In mezzo al mare una donna bianca, così enorme, alla luce delle stelle, che di guardarla uno non si stanca”.
E quando un impertinente “eri ubriaco marcio” chiese: “Hai almeno un testimone senza bottiglia che era con te sul cassero quella notte?”, gli occhi del mozzo, alzandosi, incontrarono quelli del capitano. Il silenzio, così fuori rotta in quel sotterraneo, spostò il faro dell’attenzione su quel lustre ospite che laggiù non aveva autorità.
Il capitano girò le spalle, andò al bancone, e sentì il dito indice del mozzo all’altezza dei reni. Ordinò da bere. Il barista versò un’insinuazione nelle sue orecchie: “Io non ho mai messo piede sull’infinito vivente ma ti assicuro che di tutti gli sguardi che ho visto da dietro questo sbarra, tu sei proprio uno di quelli che la Venere bianca l’ha vista per davvero!”. Il capitano non lo guardò nemmeno, trangugiò, lasciò una banconota tanto grande da far riempire i boccoli agli astanti e se ne andò mentre il brusio per quel racconto inverosimile cresceva d’intensità.
In camera aprì la finestra, si accese la pipa “in questa alba fresca e scura che rassomiglia un po’ alla vita. C’è solo un po’ di nebbia che annuncia il sole. Andiamo avanti tranquillamente”. Fu l’ultimo suo canto.
Lo trovarono la mattina seguente. Era diventato una statua ornata da candide conchiglie. Se lo annusavi riconoscevi il profumo del mare.
Lo deposero al Museo della Marina cittadino.
Leggenda vuole che se si sta innanzi a lui in perfetto silenzio si ode la risacca. Leggenda vuole che l’apparizione della Venere bianca, per alcuni sia una maledizione e per altri una benedizione; per taluni sia voglia di vivere, per altri voglia di morire.

di Paolo Negri

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Quel sabato nella via c’era la solita marmaglia di turisti affamata di souvenir. Victor tirò su la saracinesca della bottega di antiquariato in Portobello Road. Da quando la moglie Elisabeth lo aveva lasciato, ogni azione era più pesante: aprire il negozio, portare fuori gli scaffali e riporvi la mercanzia. Aveva sempre dubbi sugli abbinamenti, “Cose da donne “ bofonchiava sotto la barba incolta. Lei non avrebbe sopportato quel look trasandato, ma ormai non c’era più e anche l’uomo ben rasato e curato se n’era andato con lei. Era tornato quello burbero e selvatico, quello che si metteva i vestiti del giorno prima. Aveva anche ripreso a fumare, perfino di notte, ogni volta che il pensiero di lei lo teneva sveglio.
Una parvenza di dignità l’aveva mantenuta, per Bess, sua figlia. Il musetto roseo illuminato dai dentini da latte aguzzi spuntò dall’uscio a cercarlo.
“Ciao papà!” la sua voce cristallina lo fece trasalire, mentre disponeva la targa vintage dei sigari cubani di fianco a quella del rum Havana Club. “Ciao Bessy, cosa ci fai qui? Non dovevi fare i compiti?”, la rimproverò, “sì, ma mi annoiavo, ti aiuto?”, suggerì lei, “non è necessario, vieni giù dopo, chiudo il negozio e ti porto in un posto speciale, ok?” Victor sfoggiò il suo sorriso migliore, e le dette un buffetto sulla testa ricciuta. Bess sparì mogia nel locale, e lui appese un modellino di Fairey Swordfish, vicino al triplano del Barone Rosso.
Arrivavano i primi clienti. Lui si fingeva impegnato, ma appena perdevano interesse, si fiondava da loro per illustrare gli ultimi arrivi e le offerte del giorno. Era tardi, e di Bess nemmeno l’ombra. Girò il cartello sulla la scritta “Closed”. Si diresse verso la porta dietro al bancone, e imboccò le scale che portavano al loro appartamento.
La bambina era ferma alla finestra, gli occhi puntati al cielo che imbruniva. Aspettava la prima stella, quella della mamma, come lui le aveva raccontato tante volte. “Eccola è lei, papà, ci sta guardando!” Victor la strinse dolcemente tra le braccia e le sussurrò: “Stasera andiamo sul London Eye (1) , così quando saremo in cima ci sembrerà di essere lì con lei e potremo quasi toccarla con un dito”.

(1) ruota panoramica di Londra situata sulla riva sud del Tamigi

di Olga Riva Rovaglio, illustrazione di Silvia Gabardi

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Si alzò con calma, non aveva fretta né voleva svegliare anzitempo i bambini.
Spinse la coperta che chiudeva l’ingresso della tenda e alzò gli occhi al cielo: un’altra giornata di bianco lattiginoso, l’aria ferma, un silenzio opprimente.
Quattordici anni appena compiuti e un unico scopo: sopravvivere.
Guardò i fagotti stesi sul pavimento: quattro bambini sconosciuti che aveva trovato per strada; l’avevano implorato di portarli via dalla città abbandonata e adesso erano la sua famiglia.
Venus e Alba, quasi ragazzine, che portavano in spalla i piccoli quando erano troppo sfiniti per camminare: Jem, gli occhi scavati il corpo scosso da tremori, si spegneva giorno dopo giorno e il piccolo Adam, che ancora sapeva sorridere.
Le scorte di acqua erano quasi finite, oggi avrebbero raggiunto il crinale delle colline, scavato nel fondo delle crepe e, forse, sarebbero sopravvissuti, almeno un po’.
«Max, dove sei?»
«Adam, cerca di dormire! È presto per mettersi in cammino!»
«Ho paura, vieni da me, raccontami ancora la storia del nonno»
Già, la “storia del Nonno”: era passata di bocca in bocca da generazioni e nessuno sapeva più chi fosse il Nonno. Max l’aveva sentita da suo padre, che a sua volta l’aveva sentita da uno zio, e lui chissà da chi…
Si accoccolò vicino al bambino e sussurrò:
«C’era una volta una grande casa piena di bambini e animali in libertà. La chiamavano fattoria, era circondata da campi e alberi carichi di frutti. In lontananza si sentiva il rumore del fiume carico d’acqua che correva verso valle …»
Il respiro di Adam si fece regolare, bastava poco per sognare.
«Max ti prego continua!» Anche Venus e Alba si erano svegliate.
«… Si susseguivano le stagioni, il sole, poi la pioggia e la neve: faceva un gran freddo, la terra restava sotto una coltre bianca a riposare, pronta a rinascere a primavera…»
Jem emise un lamento, bruciava di febbre e non trovava riposo.
«… e quando il cielo si faceva scuro e tuoni e lampi di luce spaventavano il cuore dei bambini, dal cielo cadevano secchiate di pioggia, lo chiamavano temporale…»
«Max, hai mai visto un…?»
La parola rimase sospesa, in lontananza un brontolio sconosciuto, un vento forte.
Si alzò di corsa e uscì dalla tenda: il cielo era scuro, pareva correre verso le colline: dovevano essere così le nuvole cariche di pioggia!
Max non aveva mai visto un temporale, né la pioggia, né prati né alberi, ma seppe che erano salvi.

di Alessandra Stifani, foto di Alessandro Boscarini

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