“Nonna perché le finestre di quella casetta sono sempre chiuse?” Sara è una ragazzina di tredici anni, molto curiosa. Seduta accanto alla sua dolce nonnina guarda in fondo alla strada. Le nubi grigie di un temporale in arrivo non le permettono di andare in cortile a giocare.
“Sai, in quella casetta viveva una bambina, ora non c’è più nessuno”.
“E perché?” l’innocente curiosità incalza.
Sara si siede in braccio alla nonna per ascoltare il racconto. “Una mattina quella bambina aprì una di quelle finestre, vide le nubi da temporale, come quelle di oggi, e la richiuse. A mezzogiorno erano ancora chiuse. Era molto strano perché la mamma si alzava sempre presto. Io e il nonno abitavamo già in questa casa, mi preoccupai e andai a controllare. Venne ad aprire la piccola, era sporca di sangue, non diceva niente. Entrai e le chiesi cos’era successo, mi prese per mano e mi portò in camera. La scena che vidi era un orrore. Sangue ovunque e i suoi genitori nel letto, morti. Chiamai la polizia, mi fecero molte domande, raccontai quello che sapevo, la mia preoccupazione per le finestre chiuse e come si era presentata la piccola alla porta. La bambina non parlava, lo shock fu tale che rimase muta per molti mesi. Fu affidata a una coppia di sposini, le diedero tanto amore e l’aiuto di cui aveva bisogno. La polizia continuò le indagini, tutti i giorni erano in quella casa per fare rilievi. Trovarono solo lenzuola sporche in modo strano. La piccola era seguita da una psicologa che sperimentò varie terapie, senza successo. Infine tentò con l’ipnosi. Le fece rivivere quella notte e stavolta riuscì. Aveva visto e rimosso tutto. Lo zio Adam, il fratello della mamma, aveva problemi di mente, quella sera era agitato in modo particolare. Aveva rinchiuso in camera da letto i genitori della piccola, picchiati a morte con un bastone e l’aveva obbligata a guardare. Poi li aveva stesi sul letto facendosi aiutare dalla bambina. Le lenzuola erano rimaste candide, tranne dove appoggiavano i corpi. Fece sedere la piccola e le vietò di muoversi, minacciandola di farle lo stesso, lui era in cucina e la vedeva…. “.
“Nonna come sta adesso quella bambina?” Sara era stufa di ascoltare, voleva arrivare alla fine. In quel momento entra la mamma di Sara che le corre incontro per abbracciarla e darle un bacio. “Allora nonna continua, come sta?” Insiste Sara.
La nonna sorride: “Tu che ne dici? La stai abbracciando…”

di Laura De Filippo, illustrazione di Letizia Ghirotto

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Il giorno in cui Nuvola Rossa si inoltrava nel bosco dietro Villa Toeplitz per tornare a casa,io e Cavallo Pazzo ce le stavamo suonando di santa ragione. Il successo nella lotta garantiva il diritto di chiedere a Nuvola Rossa, Mara nella realtà, di diventare la ragazza del vincitore. Si era trasferita con la famiglia pochi giorni dopo la fine della scuola, io e Aldo giocavamo a muro, lei si avvicinò, prese dalla tasca posteriore dei pantaloncini un mazzo di figurine e giocò con noi. Era brava, cazzo se lo era! Nel giro di dieci minuti ci ridusse a ragazzini sfigati con un solo Bettega e un Maldera nelle rispettive tasche. Sorridendo ce le restituì. È così che entrò nelle nostre vite. Mara era la più veloce e agile, sapeva trovare i nidi di tordo sugli alberi, ci aveva insegnato a riconoscere l’erba cucca e a mangiarla, e non temeva di scavalcare la recinzione di ferro arrugginito del frutteto dei Parini dove rubavamo mele, pesche e ciliegie. Lei che, con i suoi occhi verdi e i capelli racchiusi in due treccine amaranto, ci ammoniva di non uccidere i maggiolini o le cavallette, se non siete in grado di ridare la vita, diceva, perché toglierla? Come potevamo non esserne innamorati? Ero sopra Aldo, lo tenevo bloccato. “Arrenditi!” gli urlavo, sentivo ogni fibra dei suoi muscoli tendersi, gli colava sangue dal naso, rivoli simmetrici sulle guance. Lo trattenevo a terra e lui non mollava, strizzava gli occhi da farsi male pur di trattenere le lacrime. Non volevo piangesse, era mio amico. Cacchio! Il mio migliore amico. Allentai la presa e in un attimo mi ritrovai nella posizione opposta. Ora era lui che mi gridava di arrendermi. Sangue sudore e saliva gocciolavano sul mio viso. Mi consegnai al nemico: era il più innamorato. Si alzò, tolse la maglietta e si tamponò il naso. Geronimo, disse, facciamo che sia lei a decidere. Aveva meno forza ma più buon senso di me. Acconsentii. Non servì a nulla, non la vedemmo più. Quello stesso pomeriggio sua madre la caricò sulla Fiat 127 e partirono per chissà dove, volarono lontano da quella casa e da un padre e un marito violento. Sono passati trent’anni da quell’estate, Beatrice, mia figlia, è seduta sul divano con me, ha sedici anni e la voglia di stringersi a suo padre ancora adesso, la ringrazio per questo. Stiamo guardando un documentario, argomento gli insetti. Non ho simpatia per quegli esseri ma sono qui con mia figlia ed è una cosa stupenda. Parlano di cicale, una specie asiatica rimane sottoterra per tredici anni, poi si rivela al mondo e vive nel sole estivo un paio di mesi. Lo sapevi papà? No, le rispondo. Ma ne ho conosciuta una tanto tempo fa, il suo nome era Nuvola Rossa.

di Gian Paolo Zoni

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Il Professore. Così mi chiamano, e questo mi consente di mantenere una certa distanza da quel gruppo di analfabeti che detengono il potere. Magro, basso, occhialetti tondi alla Gramsci, Borsalino e farfallino tutto l’anno. Lo stile non è acqua.
Mi guardano spesso tra il rispetto e l’invidia. Loro, che vanno in giro vestiti in modo dozzinale e con chilate d’oro attaccate al collo. Alla fine sono certo che mi disprezzano. Basta guardarli quando parlottano tra loro, indicandomi.
Gente per la quale il denaro è l’unica cosa che conta davvero. Ma io sono indispensabile. Gestisco tutti i beni della Famiglia, come viene chiamata. A volte mi viene da ridere. Io che una famiglia non l’ho mai voluta, né cercata. E ora mi trovo, obtorto collo, a condividerne una.
Mi ricordo quando arrivai qui nel Meridione da piccolo imprenditore del Nord. I sogni in tasca, la solita burocrazia e i soldi che non bastano mai. Le persone sbagliate presentate dalle persone sbagliate, e in poco tempo un buco finanziario incolmabile. Fino al ricatto di dover lavorare per loro. In quarant’anni ne ho viste di ogni genere. Capitali entrano, investimenti escono, in mercati finanziari che pochi conoscono. Non è più come ai tempi di Al Capone, ora i soldi si fanno con i soldi. E pensare che, da polentone quale sono, questi terroni mi sono sempre stati sulle palle. In occasione dei dieci anni di “onorato servizio” mi hanno anche affiliato alla Famiglia. Sembrava una cerimonia di iniziazione. Mi hanno costretto a indossare questo anello da Padrino che ho sempre odiato. Oro massiccio con una pietra violacea e uno stemma araldico. Che cafonata. E dire che una volta messo non sono più riuscito a levarlo, neanche col sapone. Mi ricorda i legami esistenti, e mi obbliga a non dimenticarli. La Famiglia non si lascia. Mai.
Ed è questo che mi è pesato di più, e mi ha convinto a scappare. A quasi settant’anni, chiuso in una camera a centinaia di chilometri da casa, in fuga. Gli ultimi anni li voglio vivere da uomo libero. Ma ho troppi segreti con me, ho visto troppe cose, sono stato testimone di troppe schifezze. Mi viene da ridere, un Clyde in fuga senza la sua Bonnie.
Quanto durerò? Non lo so, ma ero arrivato a provare disgusto di me stesso. Un semplice cassiere può seminare gentaglia che cerca le persone e le uccide per mestiere? Forse è il caso di fermarsi, e aspettare la fine qui, in un posto anonimo. In fondo, è meglio così. Piuttosto che farsi freddare mentre scappo in un vicolo cieco.
Passi davanti alla porta della mia camera.
Mi scolo le ultime gocce di Bourbon, e chiudo gli occhi.
E pensare che non ho mai sopportato gli spari.

di Gianluca Fiore

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Inserisco la moneta, premo il bottone. Caffè espresso. Le pareti sono bicolore e tra il verde tenue e il bianco si infila una impavida striscia blu. A lato del distributore automatico una bacheca tappezzata di avvisi e messaggi vari. Potrei appenderne uno anch’io, ci scriverei sopra “Mirco è morto, finalmente!”
Quella giornata di luglio iniziò, nei miei ricordi, con uno strofinaccio tra le mani. Alle due di pomeriggio suonai il campanello alla porta di Mirco. Abitava con la madre in un appartamento del terzo piano. Mi aprì, una figura minuta in canottiera bianca e pantaloncini corti. Usciamo, gli chiesi. Devo lavare i piatti, rispose. Aveva nove anni e io undici. Sbuffai, però decisi di aiutarlo. Mi accompagnò in cucina. Sotto il lavello c’era un catino rovesciato, vi salì e fece scorrere l’acqua aggiungendo un po’ di detersivo. Lavò e sciacquò le stoviglie e io le asciugai. Terminate le faccende domestiche scendemmo le scale due gradini alla volta, e poi, in strada, corremmo come se non avessimo un domani. Ai margini della boscaglia prendemmo il sentiero del Coniglio, lo chiamavamo così perché un sabato di maggio scorgemmo una lepre grigia attraversarlo, conduceva alla radura del Grande Menhir, un enorme masso trascinato fin lì da qualche ghiacciaio estinto.
Si fantasticava sul futuro. Il mio sogno era diventare musicista, con il flauto non ero male. Mirco mi rivelò il suo. Rimasi a bocca aperta. Fissai il terreno e quando mi voltai notai le lacrime. Parlava sul serio. Non lo dirò a nessuno, promisi.
Udimmo dei guaiti e delle risa. Ci avvicinammo con cautela. Vidi Pietro e Pinuccio, l’incubo di noi ragazzini, tredicenni dall’anima nera e nel DNA la voglia di fare del male. Bastonavano Botola, un piccolo randagio mite e affettuoso. Ci scagliammo contro di loro, al pari di antichi cavalieri senza macchia e paura. Mirco venne colpito subito alla testa e quasi svenne. Io fui più fortunato, presi solo calci e pugni. Me la cavai con dei lividi e la maglietta stracciata. A lui spaccarono un timpano. Era quasi ora di cena, supini sul prato, a pochi metri da Botola, seguivamo con lo sguardo le nuvole rossastre. Ci alzammo a fatica. Il povero cane non respirava più. Mirco piangendo si mise a scavare frenetico con le mani, per lui, disse. Lo seppellimmo lì, con il cuore morto, accanto al finto menhir. Quel giorno ci strappò dall’infanzia e legò le nostre vite come mai avremmo immaginato.
Sara esce dalla sala operatoria. I medici dicono che è andato tutto bene. È ancora sotto l’effetto dei farmaci, mi vede e sorride. Sorrido anch’io, il suo sogno è stato esaudito. Mi siedo sul bordo del letto, accarezzo i suoi capelli, lunghi, fini, sfioro con le dita l’invisibile apparecchio acustico, lo porta dal luglio di quell’estate di venti anni prima.

di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Daniela Landini

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Era accaduto tutto troppo in fretta: tante cose da fare, decisioni da prendere, non c’era stato il tempo di elaborare il dolore per la perdita della persona che più amava, anzi, aveva amato, doveva abituarsi a usare il passato.
Solo pochi giorni fa erano in montagna a camminare, la loro prima gita senza figli oramai grandi abbastanza per badare a loro stessi.
Un’escursione familiare, un percorso che avevano fatto parecchie volte, da soli, con gli amici, con i bambini, niente di pericoloso, dovevano solo stare un po’ attenti, perché in montagna nulla è mai dato per scontato.
Oltrepassata una forcella Giovanna si era girata a guardarlo, sorrideva, gli mostrò un prato punteggiato di fiori giù in basso, disse qualcosa che in quel momento lui non comprese.
“Cos’hai detto, ripeti, non ho capito”
“È là che voglio stare” rispose, poi si mise a scendere in fretta, come scendono i montanari saltando sui sentieri difficili, un piede qua e uno là.
Un ruzzolone, era inciampata in un sasso, oppure si era buttata giù?
Questo era il pensiero che l’angosciava. Lei era come un capriolo, saliva e scendeva con sicurezza da rocce e tratti impervi, una scalatrice, come aveva potuto cadere in quel punto e finire proprio nel prato? Rivedeva la scena in dettaglio al rallentatore e l’idea che si fosse buttata di proposito diventava quasi certezza, ma non l’avrebbe detto a nessuno, non avrebbe saputo spiegare il perché di questa sua percezione.
La cerimonia era stata bella, centinaia di persone erano intervenute e ora si aggiravano nella piazza chiacchierando a voce bassa. Aveva stretto tante mani, stordito dai fiori nella chiesa non aveva visto veramente nessuno. Gli sembrava di essere sospeso sopra una nuvola e guardando giù vedeva quella gente da estraneo, da spettatore, come se non lo riguardasse. Era vuoto, senza sentimenti, nessuna emozione. I ragazzi vicini a lui, pallidi, spaventati, gli dissero che sarebbero andati dagli zii.
Non ebbe il coraggio di dire: “no, questa sera stiamo insieme”. Avrebbe preferito averli accanto. Invece.
Entrò in casa, era solo. “Com’è potuto accadere?” si chiese per l’ennesima volta riandando a quel momento, rivide nella mente ogni fotogramma della scena, pensò a ogni parola detta durante il giorno, scoppiò a piangere.
Poi notò su di un tavolino d’angolo un mazzo di rose rosse, sedici. Le guardò incuriosito, da quanto tempo erano lì, era sicuro di non averle viste prima, ma forse non ci aveva fatto caso con il trambusto di quei giorni. Pensò: rose rosse, a un funerale, quasi appassite, assurdo. E perché sedici?
Ma, conosceva davvero sua moglie?
Nascosto sotto il vaso trovò un biglietto, lo lesse: “ti amo”

di Elda Caspani

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Ma le avete mai viste, le avete guardate bene le mani di un artista, io ho presente queste, le mani di Samuele Arcangioli… osservate quando le muove nel parlare, non sono gesti comuni, tutti noi tracciamo con esse lo schema delle nostre parole, il pittore no, lui, mentre parla, plasma la materia, osservatele bene… non so che tipo di riferimento abbiate nel vostro intimo, ci sono quelli che credono nello spirito e lo ritengono l’origine di tutte le cose, ci sono poi i materialisti per cui tutto avviene per caso, e ci sono cento, mille, infinite strade, e chi ama l’azione ricercherà in essa l’essenza del lavoro, l’uomo devoto, nel portare il ginocchio a terra e la preghiera al cielo, scoprirà l’amore più grande che esiste fra la terra e il cielo, la persona incline al ragionamento inseguirà gli schemi razionali di una struttura che regga e dia spiegazione di ogni cosa, e tutti noi cerchiamo la realizzazione delle nostre capacità, e così ognuno percorre la strada che più gli è congeniale e, nell’amore e nella conoscenza, esprime quelle facoltà che sono proprie dell’essere umano… e l’energia che muove il mondo, l’energia che è essa il mondo, è nelle cose, è nella materia, nel legno da modellare, nella carta da compilare con diligenza, ed ecco, allora, il significato di quelle mani, delle mani dell’artista che plasma la materia, e quelle di Samuele che stringono l’energia e già la materializzano, nel pulviscolo, nel carbone e nel legno, in una leonessa o in una figura di donna e, se permettete, nelle parole di questo mio piccolo omaggio a lui.

di Abramo Vane, dipinto di Samuele Arcangioli

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Il parcheggio dell‘ipermercato di Gallarate è pieno. Antonio aspetta che si liberi un posto, non ha fretta. La mattina si era svegliato presto, poco abituato a dormire solo. Seduto sul letto di lenzuola fradicie, aveva preso la pistola d’ordinanza dal comodino e spinto la canna in gola fino a farsi lacrimare gli occhi. Ripeteva quel gesto da giorni, senza decidersi. Sua moglie Anna lo aveva lasciato.
Antonio era una guardia giurata, lei commessa in un centro commerciale. Sì, a volte era stato violento, le aveva dato qualche spintone e lasciato lividi sulle braccia quando aveva dovuto ripeterle due volte la stessa cosa. In faccia, però, non l’aveva mai colpita. Ed era un merito, secondo lui.
In quei due mesi, in cui il tempo si era fermato a quel pomeriggio delle valigie riempite di corsa, della Punto scassata di quella stronza della sua amica Serena che aspettava in strada, Antonio aveva perso il lavoro e dieci chili di grasso arrotolati alla cintura. Aveva colmato il vuoto che sentiva dentro con dolore, rabbia e rancore, goccia dopo goccia.
Gli altoparlanti del parcheggio riempiono l’aria delle note di una canzone di Zucchero.
“Ridammi il sole
Che piove dentro me”
Antonio apre la portiera. Cammina lento verso l’ingresso principale. Anna esce e lui sussulta nel vederla vestita in quel modo. Tacchi alti e gonna corta, una camicetta che lascia intravedere il reggiseno nero. Lui non le avrebbe permesso di conciarsi così, da sgualdrina di periferia. Un uomo le si avvicina, indossa una stupida felpa azzurra con la scritta I Love New York sul davanti. La prende per la vita e la solleva. Antonio è a circa trenta metri da loro. Il bacio che si danno lo sconvolge più dei tacchi e delle gambe scoperte. Mano nella mano i due si dirigono alla loro auto. Antonio resta immobile. Li guarda, freddo come l’acciaio che impugna.
La musica continua, altre persone escono dal centro commerciale, con i carrelli pieni e il passo veloce.
“Ridammi il sole
Che avevo dentro me.”
Antonio appare improvviso di fronte ad Anna e al tizio che non conosce. E in quel fermo immagine che è stata la sua vita negli ultimi due mesi, preme Start.
Il primo colpo brucia il reggipetto nero, il secondo la felpa azzurra e tutto quello che c’è dietro. Uno stormo di tordi si alza in volo. Antonio punta la pistola sotto il mento, e questa volta non esita.
Zucchero non canta più. Dagli altoparlanti una voce femminile invita i clienti a visitare il reparto detersivi, cinquanta per cento di sconto su tutti i prodotti. In lontananza si odono le prime sirene.

Di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Mauro Speri

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A Fabio e Serena

L’infermiera si fermò e si appoggiò al bordo del palco, “Ora pensate a quel giorno e dite di che colore lo immaginate”. Sorrise e fece un cenno col mento alla prima di noi seduta davanti. Eravamo una ventina, accomodate in qualche maniera sulle poltrone di platea. Ci zittimmo e, forse senza accorgersi, ognuna di noi aveva appoggiato la mano sul pancione. Qualcuna lo accarezzava. “Verde. Come la speranza che tutto vada bene”. “Giallo. Come il sole che vorrei ci fosse”. Io mi persi. Bianco, freddo, come i neon in sala operatoria, come quelli del macellaio. Blasfema, quasi, in quella circostanza. Eppure la gioia che avrebbe dovuto colmarmi il cuore a volte svaniva. Quel gelo ne prendeva il posto, riportandomi a meno di un anno prima, sotto quella luce bianca, mentre raschiavano via il mio diventare madre. “Azzurro, come il maschietto che deve nascere”, sentii dire alla mia destra. Tornai presente. “Verde” dissi io svogliata “come il camice che ti danno le ostetriche”.

Eccolo il giorno. Dolore. Paura. Rabbia, verso chi hai intorno e continua a dirti quello che devi fare, mentre tu vorresti solo che finisse tutto, e il prima possibile. Respira! Spingi! Riprendo fiato. Spingi! Spingi ancora! Niente verde speranza. Niente giallo come il sole. Rosso, come il viso paonazzo dell’ostetrica.

“Vedo la testa. Spingi!”. Rosso, come i suoi guanti di lattice ormai pieni di sangue. “A me hanno dato venti punti, tra interni ed esterni, tanto ero lacerata” aveva detto quella in prima fila alla sua seconda gravidanza. A chi l’ha già fatto un figlio, dovrebbero proibire di raccontare. Rosso, come la carne lacerata. Rosso, come la paura di morire per il parto. “Spingi! L’ultima spinta ed è fatta!”, mi incalza l’ostetrica. Sento il vagito, finalmente. Il bianco freddo si è dissolto. Lascio cadere indietro la testa e guardo il soffitto. Mi appoggiano sul petto il fagotto da dove sbuca la testolina, un po’ grinzosa, rossa, ancora imbrattata, e tanto, tanto meravigliosa.

Se me lo chiedesse ora, all’infermiera risponderei “Rosso”. Rosso come l’Amore che ho appena messo al mondo.

di Anna Nicodemo, disegno di Ilaria Andreoletti

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Maurizius, il replicante, io l’avevo conosciuto una sera al Cavedio, il più fantastico ritrovo di tutte le galassie, lì la gente arrivava da ogni parte e c’era ancora un’umanità che valeva la pena di incontrare, operai, mercenari, professori, agenti di borsa, replicanti, un filo sottile univa quelle vite, e di vite di quel genere ne rimanevano poche, i tempi erano degenerati, e la Belles Corporation aveva lavorato sui cervelli e li controllava con la Legge delle Libertà, i replicanti della Jappons spacciavano le loro droghe micidiali anche ai bambini e a nessuno interessava niente di niente, e tutti viaggiavano, si divertivano e si facevano con l’ultimo ritrovato sintetico… E Maurizius era diverso, e non solo perché era un replicante della generazione alfa, lui era così felice della completezza che aveva maturato come personaggio di storie di fantascienza che sul suo viso si era stampato il sorriso di chi ha assolto il proprio dovere e dalla vita non si aspetta più niente, e infatti aveva i giorni contati, noi non lo sapevamo, lui sì, e alla Centrale i suoi costruttori erano stati espliciti, lui era uno dei migliori replicanti usciti dalla Fumetteria, ma tutto aveva una fine, era la legge del mercato… E quella sera c’erano i fratelli Marinos, Betty Blue Cap, e poi Carmen Fabian, erano suoi amici, e anche miei, e me lo presentarono e lui si confidò come se ci conoscessimo da sempre, e solo alcuni mesi dopo, quando lui non c’era più, compresi che in quel fiume di parole c’era quella stessa visione della vita che io cercavo di comunicare, perché anch’io inventavo personaggi, e per tanto tempo avevo creduto di generarli dalla mia fantasia, e invece quelli già esistevano, e io non facevo altro che fermarli mentre passavano, ed era questo il significato di quella confessione, di quel sorriso beffardo che Maurizius ebbe per tutta la sera… E mi raccontò le sue avventure, i viaggi, i lavori, mi parlò dei luoghi che aveva visitato, delle città, e di una in modo particolare, di Esperanda, la città magica, la città della fantasia e dell’impossibile, la più bella in assoluto, e sugli schermi giganteschi delle sue strade scorrevano ininterrottamente le storie dei Cavalieri del Futuro, quelli che ti dicevano come sarebbe stato fra due, dieci o vent’anni, e tu non ci credevi fin tanto che un giorno te lo trovavi lì davanti, il futuro, proprio come loro te lo avevano descritto… e poi disse di quell’antica fatica che era il lavoro nei campi, di quelle campagne assolate, e di quando alla sera gli operai tornavano all’azienda e ognuno aveva sempre un pensiero da comunicare, e quel pensiero era maturato nel silenzio, sotto il sole, come se il pensiero fosse un frutto e il cervello un albero, e mi aveva raccontato poi di quella vita meravigliosa che conducevano gli abitanti delle isole di Nervantes dove tutti, dalla mattina alla sera, se ne stavano stravaccati a bere succhi di gullian e intanto parlavano di attività frenetiche, e quando invece si mettevano a lavorare lo facevano per settimane intere senza una sola interruzione e il lavoro era così piacevole che pensavano di essere fermi sotto una palma con una bibita a godersela… E i suoi ricordi, quella sera, mi erano sembrati le allucinazioni di un cocainomane, fantasie, solo fantasie di una mente turbata, e i replicanti erano tutti così, erano un po’ strani, avevano un loro modo di dire le cose… E Maurizius non sapeva leggere, e gli piaceva ascoltare uno dei racconti che stavano appesi alle vetrine del Cavedio, e io gliene lessi uno, il primo che mi capitò, ma siccome le cose non succedono mai per caso scelsi proprio quello di William Acerbi, e io non sapevo neppure che quel giovane scrittore era anche lui un replicante, e invece Maurizius lo riconobbe dopo poche frasi, e rise, rise per la storia di William, ma anche di me, e più di ogni altra cosa rise della mia ingenuità e di tutta quella strada che ancora mi restava da fare.

di Yuri Sansilvestro, illustrazione di Renato Pegoraro

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La sveglia suona alle 6:30. Non sono più abituata a quel suono. È un martello per i timpani dopo le lunghe vacanze forzate, come chiama mia madre il lockdown. Ho ancora la radiosveglia di quando abitavo con i miei, di marca ignota, un cubo nero con un piccolo adesivo a forma di cuore datato tempi della scuola. Allungo il braccio, cerco il tasto e disattivo la suoneria. Il dito sfiora un angolo sbeccato. Sensazione di ruvido. Mi alzo, spalanco le persiane della camera. Giornata di sole, dico a occhi chiusi, per indovinare che tempo farà dall’odore dell’aria. In realtà non mi interessa, è solo un’abitudine. La stagione e la temperatura non avranno influenza sulla mia giornata. Non stamattina. A piedi nudi vado in cucina e mi preparo una tazza di tè. Il pavimento è fresco e la sensazione mi piace. Mi fermo per qualche secondo sulla piastrella. Wendy, la mia gatta, mi vede, sbadiglia ed esce dalla cesta. Stiracchia con pigrizia le zampe, mi viene vicina e struscia il suo pelo morbido contro le mie gambe. Poi con un sottile miagolio si avvicina alla ciotola vuota delle crocchette. Il messaggio è chiaro, ma io la ignoro. Mentre sorseggio scorro in modo distratto sul cellulare i titoli delle notizie del mattino. Niente attrae la mia attenzione. Non ricordo nemmeno cosa ho letto. I pensieri vanno, distratti da ciò che dovrò fare. La micia protesta con un verso gutturale. Mi giro e la osservo: seduta come una sfinge, immobile e perfetta, senza tempo. I suoi occhi verdi mi entrano dentro, sembrano vedere oltre. Non sostengo lo sguardo. Non stamattina. Apro l’armadio per scegliere un vestito, ma è come se fosse vuoto. Non riconosco i miei capi. Tiro fuori un paio di jeans con un maglioncino blu. Raccolgo i capelli con un elastico e poche forcine, un gesto meccanico, non ho bisogno di specchiarmi: meglio così, non ho voglia di guardarmi allo specchio. Niente trucco. Non stamattina. La bocca asciutta. Ho bisogno di bere un bicchiere d’acqua. La borsa è pronta da ieri: un pigiama, le ciabatte e il necessario per la toilette. La sollevo con fatica, la sento pesante e, nel corridoio, mi scivola dalla spalla a terra. Ho dormito poco e male. Un leggero mal di testa mi intorpidisce. Stropiccio gli occhi e cerco d’istinto nella tasca della borsetta le sigarette. Le ho buttate nel cestino fuori dell’ospedale, subito dopo l’esito della mammografia. Guardo l’orologio. Sono in anticipo. Mi siedo sul divano e Wendy si accoccola vicina; le sue fusa accompagnano con ritmo regolare il mio respiro. Placano il mio animo e mi consolano. Prendo la cartella medica e salgo in auto. Sono pronta.

di Annarosa Confalonieri

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