Il parcheggio dell‘ipermercato di Gallarate è pieno. Antonio aspetta che si liberi un posto, non ha fretta. La mattina si era svegliato presto, poco abituato a dormire solo. Seduto sul letto di lenzuola fradicie, aveva preso la pistola d’ordinanza dal comodino e spinto la canna in gola fino a farsi lacrimare gli occhi. Ripeteva quel gesto da giorni, senza decidersi. Sua moglie Anna lo aveva lasciato.
Antonio era una guardia giurata, lei commessa in un centro commerciale. Sì, a volte era stato violento, le aveva dato qualche spintone e lasciato lividi sulle braccia quando aveva dovuto ripeterle due volte la stessa cosa. In faccia, però, non l’aveva mai colpita. Ed era un merito, secondo lui.
In quei due mesi, in cui il tempo si era fermato a quel pomeriggio delle valigie riempite di corsa, della Punto scassata di quella stronza della sua amica Serena che aspettava in strada, Antonio aveva perso il lavoro e dieci chili di grasso arrotolati alla cintura. Aveva colmato il vuoto che sentiva dentro con dolore, rabbia e rancore, goccia dopo goccia.
Gli altoparlanti del parcheggio riempiono l’aria delle note di una canzone di Zucchero.
“Ridammi il sole
Che piove dentro me”
Antonio apre la portiera. Cammina lento verso l’ingresso principale. Anna esce e lui sussulta nel vederla vestita in quel modo. Tacchi alti e gonna corta, una camicetta che lascia intravedere il reggiseno nero. Lui non le avrebbe permesso di conciarsi così, da sgualdrina di periferia. Un uomo le si avvicina, indossa una stupida felpa azzurra con la scritta I Love New York sul davanti. La prende per la vita e la solleva. Antonio è a circa trenta metri da loro. Il bacio che si danno lo sconvolge più dei tacchi e delle gambe scoperte. Mano nella mano i due si dirigono alla loro auto. Antonio resta immobile. Li guarda, freddo come l’acciaio che impugna.
La musica continua, altre persone escono dal centro commerciale, con i carrelli pieni e il passo veloce.
“Ridammi il sole
Che avevo dentro me.”
Antonio appare improvviso di fronte ad Anna e al tizio che non conosce. E in quel fermo immagine che è stata la sua vita negli ultimi due mesi, preme Start.
Il primo colpo brucia il reggipetto nero, il secondo la felpa azzurra e tutto quello che c’è dietro. Uno stormo di tordi si alza in volo. Antonio punta la pistola sotto il mento, e questa volta non esita.
Zucchero non canta più. Dagli altoparlanti una voce femminile invita i clienti a visitare il reparto detersivi, cinquanta per cento di sconto su tutti i prodotti. In lontananza si odono le prime sirene.

Di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Mauro Speri

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A Fabio e Serena

L’infermiera si fermò e si appoggiò al bordo del palco, “Ora pensate a quel giorno e dite di che colore lo immaginate”. Sorrise e fece un cenno col mento alla prima di noi seduta davanti. Eravamo una ventina, accomodate in qualche maniera sulle poltrone di platea. Ci zittimmo e, forse senza accorgersi, ognuna di noi aveva appoggiato la mano sul pancione. Qualcuna lo accarezzava. “Verde. Come la speranza che tutto vada bene”. “Giallo. Come il sole che vorrei ci fosse”. Io mi persi. Bianco, freddo, come i neon in sala operatoria, come quelli del macellaio. Blasfema, quasi, in quella circostanza. Eppure la gioia che avrebbe dovuto colmarmi il cuore a volte svaniva. Quel gelo ne prendeva il posto, riportandomi a meno di un anno prima, sotto quella luce bianca, mentre raschiavano via il mio diventare madre. “Azzurro, come il maschietto che deve nascere”, sentii dire alla mia destra. Tornai presente. “Verde” dissi io svogliata “come il camice che ti danno le ostetriche”.

Eccolo il giorno. Dolore. Paura. Rabbia, verso chi hai intorno e continua a dirti quello che devi fare, mentre tu vorresti solo che finisse tutto, e il prima possibile. Respira! Spingi! Riprendo fiato. Spingi! Spingi ancora! Niente verde speranza. Niente giallo come il sole. Rosso, come il viso paonazzo dell’ostetrica.

“Vedo la testa. Spingi!”. Rosso, come i suoi guanti di lattice ormai pieni di sangue. “A me hanno dato venti punti, tra interni ed esterni, tanto ero lacerata” aveva detto quella in prima fila alla sua seconda gravidanza. A chi l’ha già fatto un figlio, dovrebbero proibire di raccontare. Rosso, come la carne lacerata. Rosso, come la paura di morire per il parto. “Spingi! L’ultima spinta ed è fatta!”, mi incalza l’ostetrica. Sento il vagito, finalmente. Il bianco freddo si è dissolto. Lascio cadere indietro la testa e guardo il soffitto. Mi appoggiano sul petto il fagotto da dove sbuca la testolina, un po’ grinzosa, rossa, ancora imbrattata, e tanto, tanto meravigliosa.

Se me lo chiedesse ora, all’infermiera risponderei “Rosso”. Rosso come l’Amore che ho appena messo al mondo.

di Anna Nicodemo, disegno di Ilaria Andreoletti

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Maurizius, il replicante, io l’avevo conosciuto una sera al Cavedio, il più fantastico ritrovo di tutte le galassie, lì la gente arrivava da ogni parte e c’era ancora un’umanità che valeva la pena di incontrare, operai, mercenari, professori, agenti di borsa, replicanti, un filo sottile univa quelle vite, e di vite di quel genere ne rimanevano poche, i tempi erano degenerati, e la Belles Corporation aveva lavorato sui cervelli e li controllava con la Legge delle Libertà, i replicanti della Jappons spacciavano le loro droghe micidiali anche ai bambini e a nessuno interessava niente di niente, e tutti viaggiavano, si divertivano e si facevano con l’ultimo ritrovato sintetico… E Maurizius era diverso, e non solo perché era un replicante della generazione alfa, lui era così felice della completezza che aveva maturato come personaggio di storie di fantascienza che sul suo viso si era stampato il sorriso di chi ha assolto il proprio dovere e dalla vita non si aspetta più niente, e infatti aveva i giorni contati, noi non lo sapevamo, lui sì, e alla Centrale i suoi costruttori erano stati espliciti, lui era uno dei migliori replicanti usciti dalla Fumetteria, ma tutto aveva una fine, era la legge del mercato… E quella sera c’erano i fratelli Marinos, Betty Blue Cap, e poi Carmen Fabian, erano suoi amici, e anche miei, e me lo presentarono e lui si confidò come se ci conoscessimo da sempre, e solo alcuni mesi dopo, quando lui non c’era più, compresi che in quel fiume di parole c’era quella stessa visione della vita che io cercavo di comunicare, perché anch’io inventavo personaggi, e per tanto tempo avevo creduto di generarli dalla mia fantasia, e invece quelli già esistevano, e io non facevo altro che fermarli mentre passavano, ed era questo il significato di quella confessione, di quel sorriso beffardo che Maurizius ebbe per tutta la sera… E mi raccontò le sue avventure, i viaggi, i lavori, mi parlò dei luoghi che aveva visitato, delle città, e di una in modo particolare, di Esperanda, la città magica, la città della fantasia e dell’impossibile, la più bella in assoluto, e sugli schermi giganteschi delle sue strade scorrevano ininterrottamente le storie dei Cavalieri del Futuro, quelli che ti dicevano come sarebbe stato fra due, dieci o vent’anni, e tu non ci credevi fin tanto che un giorno te lo trovavi lì davanti, il futuro, proprio come loro te lo avevano descritto… e poi disse di quell’antica fatica che era il lavoro nei campi, di quelle campagne assolate, e di quando alla sera gli operai tornavano all’azienda e ognuno aveva sempre un pensiero da comunicare, e quel pensiero era maturato nel silenzio, sotto il sole, come se il pensiero fosse un frutto e il cervello un albero, e mi aveva raccontato poi di quella vita meravigliosa che conducevano gli abitanti delle isole di Nervantes dove tutti, dalla mattina alla sera, se ne stavano stravaccati a bere succhi di gullian e intanto parlavano di attività frenetiche, e quando invece si mettevano a lavorare lo facevano per settimane intere senza una sola interruzione e il lavoro era così piacevole che pensavano di essere fermi sotto una palma con una bibita a godersela… E i suoi ricordi, quella sera, mi erano sembrati le allucinazioni di un cocainomane, fantasie, solo fantasie di una mente turbata, e i replicanti erano tutti così, erano un po’ strani, avevano un loro modo di dire le cose… E Maurizius non sapeva leggere, e gli piaceva ascoltare uno dei racconti che stavano appesi alle vetrine del Cavedio, e io gliene lessi uno, il primo che mi capitò, ma siccome le cose non succedono mai per caso scelsi proprio quello di William Acerbi, e io non sapevo neppure che quel giovane scrittore era anche lui un replicante, e invece Maurizius lo riconobbe dopo poche frasi, e rise, rise per la storia di William, ma anche di me, e più di ogni altra cosa rise della mia ingenuità e di tutta quella strada che ancora mi restava da fare.

di Yuri Sansilvestro, illustrazione di Renato Pegoraro

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La sveglia suona alle 6:30. Non sono più abituata a quel suono. È un martello per i timpani dopo le lunghe vacanze forzate, come chiama mia madre il lockdown. Ho ancora la radiosveglia di quando abitavo con i miei, di marca ignota, un cubo nero con un piccolo adesivo a forma di cuore datato tempi della scuola. Allungo il braccio, cerco il tasto e disattivo la suoneria. Il dito sfiora un angolo sbeccato. Sensazione di ruvido. Mi alzo, spalanco le persiane della camera. Giornata di sole, dico a occhi chiusi, per indovinare che tempo farà dall’odore dell’aria. In realtà non mi interessa, è solo un’abitudine. La stagione e la temperatura non avranno influenza sulla mia giornata. Non stamattina. A piedi nudi vado in cucina e mi preparo una tazza di tè. Il pavimento è fresco e la sensazione mi piace. Mi fermo per qualche secondo sulla piastrella. Wendy, la mia gatta, mi vede, sbadiglia ed esce dalla cesta. Stiracchia con pigrizia le zampe, mi viene vicina e struscia il suo pelo morbido contro le mie gambe. Poi con un sottile miagolio si avvicina alla ciotola vuota delle crocchette. Il messaggio è chiaro, ma io la ignoro. Mentre sorseggio scorro in modo distratto sul cellulare i titoli delle notizie del mattino. Niente attrae la mia attenzione. Non ricordo nemmeno cosa ho letto. I pensieri vanno, distratti da ciò che dovrò fare. La micia protesta con un verso gutturale. Mi giro e la osservo: seduta come una sfinge, immobile e perfetta, senza tempo. I suoi occhi verdi mi entrano dentro, sembrano vedere oltre. Non sostengo lo sguardo. Non stamattina. Apro l’armadio per scegliere un vestito, ma è come se fosse vuoto. Non riconosco i miei capi. Tiro fuori un paio di jeans con un maglioncino blu. Raccolgo i capelli con un elastico e poche forcine, un gesto meccanico, non ho bisogno di specchiarmi: meglio così, non ho voglia di guardarmi allo specchio. Niente trucco. Non stamattina. La bocca asciutta. Ho bisogno di bere un bicchiere d’acqua. La borsa è pronta da ieri: un pigiama, le ciabatte e il necessario per la toilette. La sollevo con fatica, la sento pesante e, nel corridoio, mi scivola dalla spalla a terra. Ho dormito poco e male. Un leggero mal di testa mi intorpidisce. Stropiccio gli occhi e cerco d’istinto nella tasca della borsetta le sigarette. Le ho buttate nel cestino fuori dell’ospedale, subito dopo l’esito della mammografia. Guardo l’orologio. Sono in anticipo. Mi siedo sul divano e Wendy si accoccola vicina; le sue fusa accompagnano con ritmo regolare il mio respiro. Placano il mio animo e mi consolano. Prendo la cartella medica e salgo in auto. Sono pronta.

di Annarosa Confalonieri

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La mamma era incinta e aspettava due bambine, ma non nacquero due bambine, nacque Esmeralda, ed Esmeralda però valeva per due, e la mamma allora disfece quelle due tutine, e quelle due cuffiette e quelle due di tutto che aveva già confezionato, ed erano giusto giusto le misure per Esmeralda, e fin dai primi vagiti si capì che non era una bimba come le altre, e se ne stava tranquilla e mangiava ogni quattro ore, e faceva degli sbadigli da sembrare un leoncino, e anche quando si iscrisse alla classe prima le diedero un banco per due, e con la maestra in cattedra e lei nell’ultimo banco quei bambini si sentivano protetti, e non c’erano, come sempre capita, i soliti scapestrati che rovinano tutto, o forse sì, all’inizio ce n’era uno che faceva il galletto, ma Esmeralda lo aveva preso per una manina e quello aveva capito che gliela poteva stritolare come una noce e divenne subito ubbidiente, e anzi chiedeva il permesso per giocare durante la ricreazione, ed Esmeralda non dimenticò mai che la mamma aspettava due gemelle e mangiava e cresceva per due, e aveva diciotto anni quando passò dal paese un circo e per la prima volta vide Omero, l’amore della sua vita, e Omero era un ragazzetto della sua età ma era piccolo e magro, non più di quaranta chili, e raccoglieva la cacca degli elefanti durante lo spettacolo, ma anche lui aveva una parte da artista perché faceva l’imitazione di Charlot e ammaestrava le pulci… e da quel giorno, per alcuni anni, i due si scrissero lettere d’amore, lui immensi fogli perché non sapeva come esprimere tutto il suo amore, ed Esmeralda piccoli biglietti a forma di cuore con scritto dentro ti amo, e di parole ne diceva poche e piuttosto faceva i fatti, e così un giorno si unì al circo e sposò il suo Omero, e divenne la donna cannone, e ogni sera sotto la sua tenda si raccoglievano tanti bambini, lei gettava la sua lunga treccia e alcuni si arrampicavano fino alle spalle, due di qua e due di là, e altrettanti li teneva sugli avambracci, e alla fine era così piena di gioia che emetteva un peto formidabile, come una palla di cannone, e i bambini si rotolavano dal ridere, e dopo lo spettacolo quelli del circo sapevano che Esmeralda e Omero facevano un sesso sfrenato e anche le leonesse, gli elefanti e i cammelli erano impressionati da quelle grida di piacere… e questo è l’antefatto della storia il cui prosieguo tutti conoscono, di Esmeralda che fu riconosciuta la più famosa donna cannone nella storia dello spettacolo, e del tragico epilogo di quella sera, quando non buttò fuori dal corpo la gioia accumulata e morì soffocata, e del povero Omero che tutte le mattine va al cimitero e piange tanto perché ha due tombe da riempire con le lacrime e perché un amore così grande, prima di lui, nessuno lo aveva mai vissuto.

di Abramo Vane, illustrazione di Renato Pegoraro

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Le ultime ore della notte schiarivano il cielo quando i due uomini arrivarono ai piedi della collina e nell’ombra delle grandi sculture. Imhotep, il più valente architetto e astronomo del paese e il gran sacerdote Vennofer, curatore del patrimonio reale si fermarono a guardare l’opera dedicata alla gloria di Ramses II, protettore dell’Egitto, eletto di Ra. Non era ancora terminata ma quel giorno verificavano la riuscita di una magia che avrebbe suscitato la meraviglia del Faraone. Secondo i calcoli dell’architetto all’alba la luce avrebbe illuminato le quattro statue scolpite all’interno del tempio, sulla parete del Santuario. Solo in due giorni all’anno era possibile: nella data di nascita del re e nel mese di Tybi, anniversario dell’incoronazione, giorno d’inizio delle inondazioni.
Entrarono e si sedettero su una pietra. Per l’emozione non sentivano il gelo della roccia e non sprecavano parole.
Quando i raggi del sole penetrarono dalla porta scavata nella montagna colpirono le statue di Amon-Ra e di Ramses, poi si allargarono su quella di Ra-Harakhti ma lasciarono sempre in ombra l’ultima, quella del dio della guerra Montu.
Le parole di Vennofer furono più fredde dell’aria del santuario:
– Come lo spiegherai al Faraone questo errore? Darà in pasto il tuo cuore ai coccodrilli.Hai poche lune per rimediare.Ti consiglio di farlo!
Non aggiunse altro. Lo lasciò lì, sulla roccia, sgomento.
Lo sconforto di Imhotep durò poco, poi nella mente si fece strada una soluzione. Era audace ma non aveva scelta: voleva conservare il posto e la vita. Radunò gli scultori e i tagliapietra più abili e veloci e promise loro un onorario principesco se avessero realizzato la sua idea.
Il giorno stabilito Ramses e il seguito vennero al tempio rupestre. Alla vista della magnifica costruzione bisbigli di eccitazione e meraviglia sorsero tra i dignitari, le donne, le guardie del re. Vennofer aveva il volto duro come la roccia. Il Faraone taceva.
Imhotep tremava.
All’alba i raggi di luce colorarono di rosa la terra del deserto, poi entrarono nella montagna, lambirono il dio del sole con la corona di piume, la testa di falco di Ra-Harakhtie abbracciarono il volto del divino Ramses. Lasciarono ancora in ombra la quarta statua, che non era più quella del dio della guerra ma di Ptah, dio dei trapassati, con la stretta barba e lo scettro.
L’architetto si fece coraggio e disse:
– Ptah, signore dell’oltretomba e amico delle tenebre non può essere toccato dalla luce – Ramses sorrise e mosse il bastone in segno di approvazione. Imhotep riprese a respirare.

di Angela Borghi, illustrazione di Marzia Nigro

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Il Principe di Persia uscì dalla mia testa. A cavallo di un puledro, diretto verso il sole. Poi chiusero il sipario al teatro delle ombre. Mi pagarono per il ruolo da cupola e me andai.
Incrociai per strada il Gran Guignol, mancava poco alla mezzanotte, dovevo affrettarmi!
Era il 31 dicembre 1899, ero a Parigi. Ero l’uomo proiettile! Sparato verso gli astri, tra i fuochi dalla Cina, sarei stato l’ariete che buca il grande chapiteau del secolo! Indossavo un vestito aderente rosso fiammante con al centro una stella gialla e sulle spalle un mantello magico.
La gente ammutolì davanti a quella cannonata e mentre volavo sentivo solo il riso beffardo dell’impresario che mi aveva ingaggiato: Mefistofele!
Scommetto sia stata una sua diavoleria a sospendermi in aria. Per cento anni, di solitudine, immobile. Solo il mio mantello svolazzava e i miei occhi piangevano.
Cento lunghi anni.
Poi allo scoccare del 2000 iniziai una folle caduta a una velocità mai raggiunta da uomo volante. Qualcuno espresse un desiderio. Il mio era di salvarmi e più perdevo quota e più diventavo piccolo. L’impatto, tremendo, fu prima con una finestra (che si ruppe) poi con un portaritratti che cadde dal comodino ma non si infranse. Chi mi trovò rimase allibito: dove prima c’era una gallina, ora c’era il busto di un uomo vigoroso con un elmetto a forma di proiettile e la gallina in braccio: spennata.
Ma la curiosità non bastò per trattenermi. Fui scambiato con un videogioco a un mercatino dell’usato. Ricominciai a girovagare.
Mi pescò, con un sorriso, una ragazza a cui piacquero i miei baffi. E mi regalò a un amico pittore che passava le giornate nel suo atelier. Lui mi appese di fronte all’unico quadro non astratto di tutta quella galleria.
Feci amicizia con l’unico personaggio di quell’immenso dipinto che vedevo tutti i giorni, tutto il giorno: un povero soldato dell’esercito napoleonico, disegnato sconfitto e stravolto. Ci raccontammo le nostre vicissitudini. Lui e la sua campagna sconfinata, io e la mia gallina. Lui non aveva mai visto un circo, io una guerra.
Iniziammo una vita di soli racconti. I nostri e quelli dei ragazzi che si mettevano a parlare, certe volte appartati, dei loro segreti, ignari che noi li potessimo ascoltare.
Di loro non mi sorpresero le nuove tecnologie, sebbene stucchevoli. Ma l’impellente bisogno di guardare il cielo stellato. E quei giovani, che facevano sempre un gran baccano, un giorno colorarono la volta dell’atelier di blu. Ci aggiunsero dei puntini bianchi e si sdraiarono a terra, in silenzio. Io chiusi gli occhi e sognai di perforarlo quel soffitto. Mentre il mio compagno sognava di sciogliersi in un Kandinskij.

di Paolo Negri, illustrazione di Nicolò Piva

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La salita alla baita non finiva mai. Le ruote della Panda 4×4, un modello di dieci anni fa noleggiata in aeroporto, tradivano una scarsa aderenza al terreno coperto da un sottile strato di ghiaccio. Lisa guardò il cellulare: poco campo. Anche il navigatore le era di scarso aiuto: non riconosceva il percorso, ma la voce, che la invitava a svoltare indietro appena possibile, le teneva compagnia. ”Speriamo di non rimanere a piedi in questo deserto bianco”. Pulì con la mano la condensa che si formava sul parabrezza e si piegò leggermente in avanti per vedere meglio la strada. Il paesaggio era magnifico e un po’ inquietante. La neve, scesa copiosa nei giorni precedenti, aveva coperto i rami dei pini che affollavano la vallata. Tutto era candido e fermo. Su una curva la macchina fece un rumore da ferrovecchio stanco di essere al mondo. “Non mi abbandonare proprio ora”. Ma la Panda non l’ascoltò. Lisa batté un pugno sul volante e girò con forza la chiave nel cruscotto. L’auto sussultò e poi si spense. Guardò di nuovo il cellulare: morto. Non poteva nemmeno avvisare Luca. Aspettò qualche minuto, immobile, le mani strette sul volante. Tirò un sospiro, aprì la portiera e scese dall’auto. Allacciò il piumino, infossò la testa nel cappuccio di pelo, mise la torcia in tasca e si avviò a piedi. Camminava a passo svelto per combattere il gelo che veniva dal terreno, le irrigidiva la punta dei piedi e saliva lungo la schiena. Un brivido la scosse, sfregò le mani per scaldarle e accese la pila. Il fascio di luce le diede sollievo. “Perché ho ceduto! Io odio la montagna!” Cosa avrebbe dato ora per essere su una spiaggia tropicale ad aspettare l’anno nuovo con le sue amiche! Sentì un rumore. Si voltò di scatto a scrutare il paesaggio intorno a lei. Trattenne il respiro. “Non è nulla, è la mia immaginazione, magari ci fosse qualcuno”. Riprese a camminare, l’orecchio teso, le gambe pesanti, aveva freddo. Dal cielo gonfio, scendevano leggeri fiocchi di neve, che sul terreno asciutto attaccavano e facevano scricchiolare gli scarponi. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé. I fiocchi, infittiti, creavano un muro attraversato dalla luce della torcia e si posavano sulle ciglia. Gli occhi di Lisa si velarono. Il sapore salato delle lacrime sulle labbra di nuovo le portavano la nostalgia delle spiagge e del mare. Era sola in tutto quel silenzio e non vedeva bene. Scivolò. Un colpo secco alla testa. Qualcosa di caldo le toccò le tempie. Forse una carezza di Luca. Doveva essere arrivata alla baita. Le sembrò di sentire la musica e il tepore del camino. Era contenta di essere lì. Il freddo era sparito. Sarebbe stato un romantico Capodanno. Chiuse gli occhi, mentre la neve si tingeva di rosso.

di Anna Rosa Confalonieri, fotografia di Leonardo Pigoli

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Qualcuno ha fatto la spia, come ai tempi del Kgb in Russia. Il Beppe Colombo l’altra sera tornando a casa è stato bloccato dai carabinieri, e gli è andata bene perché ha pagato la multa di 400 euro. Se gli avessero fatto l’alcol test era peggio. Suo cognato che abita di fronte al bar di Silvano, che quello spiritoso dell’RPK ha ribattezzato Il Bar dei Birla, è stato fermato alle tre di notte e portato in questura come un partigiano della brigata Garibaldi. Non gli hanno dato l’olio di ricino, ma due ceffoni sì. Lui non ha parlato.
– Sono andato da mia mamma che ha ottant’anni e ha preso il coronavirus – ma l’alibi ha funzionato solo quando ha tirato fuori un certificato medico compilato dal dottor Fuscari.
Silvano si è messo al riparo. Ha murato la porta di dietro, che adesso solo lui può aprire dal di dentro e chi non lo sa dall’esterno non la vede nemmeno. La saracinesca davanti in strada è abbassata, e lui il bar a mezzogiorno non lo apre. La vita inizia con l’aperitivo serale, quando gli altri chiudono e i cagasotto vanno a dormire, col coprifuoco, come se fossimo in guerra e arrivassero gli aerei a bombardare gli innocenti. E chi glielo dice a questi che la guerra era un’altra cosa?
Il clima si è fatto più teso ultimamente, e il dottor Fuscari si è messo a scrivere certificati a tutto spiano. Il televisore è spento e nessuno vuol vedere le partite di calcio perché il calcio senza pubblico è un topo morto che puzza.
Fabio Fabian, in questa ultima serata dell’anno, per sciogliere le tensioni, è salito sulla sedia e ha declamato una sua poesia in dialetto veneto.
A conclusione un coro di bravo bravo, al nostro poeta! accompagnato da un’alzata di boccali.
Giò Bassi ha preso la chitarra e Mimì ha cantato canzoni del vecchio west, così la serata ha preso quota. Un brindisi a Fabian, uno a Giò, un altro a Mimì, e il prossimo vedremo.
A mezzanotte la moglie di Silvano è entrata in sala con il cotechino e le lenticchie.
Il Beppe Colombo, che era arrivato in bici passando nei boschi, ha alzato il boccale per il brindisi di fine anno.
– Brindiamo al 21, che sarà senz’altro peggio del 20.
L’Anselmo ha scosso la testa.
– Ma cosa dici? Con il vaccino il terrorismo sulla gente non avrà più senso e le persone torneranno libere.
– Scemo, non hai capito che il Beppe scherza? – l’ha rimproverato l’Ettore Bignante, che poi ha alzato le braccia chiedendo il silenzio.
– Un attimo d’attenzione, prego, un attimo d’attenzione. Adesso consegnatemi tutti i vostri telefonini, smartphone e qualsiasi strumento che possa essere intercettato.
Li ha messi in una borsa dell’Esselunga ed è sparito su di sopra, poi è tornato distribuendo un foglio a tutti con su una lista di nomi.
– Ragazzi, ragazzi – di nuovo l’Ettore ha chiesto il silenzio.
– Al primo della lista ci penso io! L’operazione è questa: ognuno di noi ne fa fuori uno. Qualunque cosa accada noi non ci conosciamo.
– Che bello scherzo – ha detto l’Anselmo, ubriaco sul suo bicchiere di birra.
Nessuno gli ha risposto.
– Questo non è uno scherzo, scemo!

di Abramo Vane

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Mi capitò tempo fa di andare al Pronto Soccorso, mia moglie era caduta da una scala e si era rotta in vari punti. Era imbottita di antidolorifici e dormiva il sonno dei sofferenti e a me, seduto di fianco al suo letto, non restava che osservare la varia umanità che si alternava nello stanzone d’ospedale. Un movimento di lenzuola nel letto accanto attirò la mia attenzione: come una tartaruga dal suo carapace spuntò la testa di un ragazzino. Gli sorrisi con un ciao al quale rispose con un salve che esprimeva tutto il gap di età che ci divideva.
Andai fuori a fumare una sigaretta. Era mattino presto e nel cielo scorsi Venere, luminosissima. La mia buona stella, pensai, giornata fortunata! Al ritorno il letto del ragazzo-tartaruga era vuoto. Un’infermiera azzurra si avvicinò e mi chiese: “Dov’è andato il ragazzo? Lo aspettiamo per la TAC, glielo dica lei, è suo padre?” “No”, e un brivido mi corse lungo la schiena, io non avevo figli, purtroppo. Lui tornò trascinandosi appresso una piantana con la flebo. Visto in piedi notai che era molto magro, poveretto, chissà come mai era lì dentro.“Ti hanno cercato”, gli dissi “devi fare la TAC”. Non sembrò interessato alla cosa e con movenze lente, degne del suo status, si sdraiò, spossato. Prese il cellulare e fece vorticare il pollice sullo schermo come solo i ragazzi sanno fare. Poi con l’unico braccio libero tentò di sistemarsi i cuscini dietro la schiena. “Vuoi una mano?” “Sì, grazie”. “Ci mancherebbe”, sono tuo padre, pensai. Riprese il cellulare: “Ma chi è questo?”. Lo disse per farsi sentire da me? Forse. “Mi scrivono, ma io non li conosco”. Il mio sguardo doveva avere i punti interrogativi al posto delle pupille perché subito dopo aggiunse: “Ho perso la memoria. Ho battuto la testa e non mi ricordo più niente. Mi arrivano dei messaggi, e non so chi sono”. Rimasi instupidito, senza sapere cosa dire, ma l’infermiera azzurra che era tornata mi tolse dall’imbarazzo. Prima di andarsene, il ragazzo-tartaruga mi disse: “A dopo”. Quindi ci sarebbe stato un dopo, avevo il tempo di riordinare le idee e recuperare l’impasse. Ha perso la memoria? Non sa chi è? Mi balenò allora nella mente un pensiero spudorato. E se gli dicessi che sono suo padre? Che anche la mamma è caduta con lui e presto ce ne torneremo tutti e tre a casa? Ci occuperemmo di lui, lo accudiremmo e alla nostra morte erediterà la casa… e immerso nella mia allucinazione vidi con occhi nuovi rientrare il tartarughino: “Mio padre è venuto a prendermi, i medici dicono che sarà questione di qualche giorno, poi mi ricorderò”.
Assaporavo la sigaretta, e nel cielo terso dell’imbrunire brillava la stella della sera, ancora lei, Venere. Che illusione, pensai, Venere non è una stella!

di Ester Tognola

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