La mamma era incinta e aspettava due bambine, ma non nacquero due bambine, nacque Esmeralda, ed Esmeralda però valeva per due, e la mamma allora disfece quelle due tutine, e quelle due cuffiette e quelle due di tutto che aveva già confezionato, ed erano giusto giusto le misure per Esmeralda, e fin dai primi vagiti si capì che non era una bimba come le altre, e se ne stava tranquilla e mangiava ogni quattro ore, e faceva degli sbadigli da sembrare un leoncino, e anche quando si iscrisse alla classe prima le diedero un banco per due, e con la maestra in cattedra e lei nell’ultimo banco quei bambini si sentivano protetti, e non c’erano, come sempre capita, i soliti scapestrati che rovinano tutto, o forse sì, all’inizio ce n’era uno che faceva il galletto, ma Esmeralda lo aveva preso per una manina e quello aveva capito che gliela poteva stritolare come una noce e divenne subito ubbidiente, e anzi chiedeva il permesso per giocare durante la ricreazione, ed Esmeralda non dimenticò mai che la mamma aspettava due gemelle e mangiava e cresceva per due, e aveva diciotto anni quando passò dal paese un circo e per la prima volta vide Omero, l’amore della sua vita, e Omero era un ragazzetto della sua età ma era piccolo e magro, non più di quaranta chili, e raccoglieva la cacca degli elefanti durante lo spettacolo, ma anche lui aveva una parte da artista perché faceva l’imitazione di Charlot e ammaestrava le pulci… e da quel giorno, per alcuni anni, i due si scrissero lettere d’amore, lui immensi fogli perché non sapeva come esprimere tutto il suo amore, ed Esmeralda piccoli biglietti a forma di cuore con scritto dentro ti amo, e di parole ne diceva poche e piuttosto faceva i fatti, e così un giorno si unì al circo e sposò il suo Omero, e divenne la donna cannone, e ogni sera sotto la sua tenda si raccoglievano tanti bambini, lei gettava la sua lunga treccia e alcuni si arrampicavano fino alle spalle, due di qua e due di là, e altrettanti li teneva sugli avambracci, e alla fine era così piena di gioia che emetteva un peto formidabile, come una palla di cannone, e i bambini si rotolavano dal ridere, e dopo lo spettacolo quelli del circo sapevano che Esmeralda e Omero facevano un sesso sfrenato e anche le leonesse, gli elefanti e i cammelli erano impressionati da quelle grida di piacere… e questo è l’antefatto della storia il cui prosieguo tutti conoscono, di Esmeralda che fu riconosciuta la più famosa donna cannone nella storia dello spettacolo, e del tragico epilogo di quella sera, quando non buttò fuori dal corpo la gioia accumulata e morì soffocata, e del povero Omero che tutte le mattine va al cimitero e piange tanto perché ha due tombe da riempire con le lacrime e perché un amore così grande, prima di lui, nessuno lo aveva mai vissuto.

di Abramo Vane, illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Le ultime ore della notte schiarivano il cielo quando i due uomini arrivarono ai piedi della collina e nell’ombra delle grandi sculture. Imhotep, il più valente architetto e astronomo del paese e il gran sacerdote Vennofer, curatore del patrimonio reale si fermarono a guardare l’opera dedicata alla gloria di Ramses II, protettore dell’Egitto, eletto di Ra. Non era ancora terminata ma quel giorno verificavano la riuscita di una magia che avrebbe suscitato la meraviglia del Faraone. Secondo i calcoli dell’architetto all’alba la luce avrebbe illuminato le quattro statue scolpite all’interno del tempio, sulla parete del Santuario. Solo in due giorni all’anno era possibile: nella data di nascita del re e nel mese di Tybi, anniversario dell’incoronazione, giorno d’inizio delle inondazioni.
Entrarono e si sedettero su una pietra. Per l’emozione non sentivano il gelo della roccia e non sprecavano parole.
Quando i raggi del sole penetrarono dalla porta scavata nella montagna colpirono le statue di Amon-Ra e di Ramses, poi si allargarono su quella di Ra-Harakhti ma lasciarono sempre in ombra l’ultima, quella del dio della guerra Montu.
Le parole di Vennofer furono più fredde dell’aria del santuario:
– Come lo spiegherai al Faraone questo errore? Darà in pasto il tuo cuore ai coccodrilli.Hai poche lune per rimediare.Ti consiglio di farlo!
Non aggiunse altro. Lo lasciò lì, sulla roccia, sgomento.
Lo sconforto di Imhotep durò poco, poi nella mente si fece strada una soluzione. Era audace ma non aveva scelta: voleva conservare il posto e la vita. Radunò gli scultori e i tagliapietra più abili e veloci e promise loro un onorario principesco se avessero realizzato la sua idea.
Il giorno stabilito Ramses e il seguito vennero al tempio rupestre. Alla vista della magnifica costruzione bisbigli di eccitazione e meraviglia sorsero tra i dignitari, le donne, le guardie del re. Vennofer aveva il volto duro come la roccia. Il Faraone taceva.
Imhotep tremava.
All’alba i raggi di luce colorarono di rosa la terra del deserto, poi entrarono nella montagna, lambirono il dio del sole con la corona di piume, la testa di falco di Ra-Harakhtie abbracciarono il volto del divino Ramses. Lasciarono ancora in ombra la quarta statua, che non era più quella del dio della guerra ma di Ptah, dio dei trapassati, con la stretta barba e lo scettro.
L’architetto si fece coraggio e disse:
– Ptah, signore dell’oltretomba e amico delle tenebre non può essere toccato dalla luce – Ramses sorrise e mosse il bastone in segno di approvazione. Imhotep riprese a respirare.

di Angela Borghi, illustrazione di Marzia Nigro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Il Principe di Persia uscì dalla mia testa. A cavallo di un puledro, diretto verso il sole. Poi chiusero il sipario al teatro delle ombre. Mi pagarono per il ruolo da cupola e me andai.
Incrociai per strada il Gran Guignol, mancava poco alla mezzanotte, dovevo affrettarmi!
Era il 31 dicembre 1899, ero a Parigi. Ero l’uomo proiettile! Sparato verso gli astri, tra i fuochi dalla Cina, sarei stato l’ariete che buca il grande chapiteau del secolo! Indossavo un vestito aderente rosso fiammante con al centro una stella gialla e sulle spalle un mantello magico.
La gente ammutolì davanti a quella cannonata e mentre volavo sentivo solo il riso beffardo dell’impresario che mi aveva ingaggiato: Mefistofele!
Scommetto sia stata una sua diavoleria a sospendermi in aria. Per cento anni, di solitudine, immobile. Solo il mio mantello svolazzava e i miei occhi piangevano.
Cento lunghi anni.
Poi allo scoccare del 2000 iniziai una folle caduta a una velocità mai raggiunta da uomo volante. Qualcuno espresse un desiderio. Il mio era di salvarmi e più perdevo quota e più diventavo piccolo. L’impatto, tremendo, fu prima con una finestra (che si ruppe) poi con un portaritratti che cadde dal comodino ma non si infranse. Chi mi trovò rimase allibito: dove prima c’era una gallina, ora c’era il busto di un uomo vigoroso con un elmetto a forma di proiettile e la gallina in braccio: spennata.
Ma la curiosità non bastò per trattenermi. Fui scambiato con un videogioco a un mercatino dell’usato. Ricominciai a girovagare.
Mi pescò, con un sorriso, una ragazza a cui piacquero i miei baffi. E mi regalò a un amico pittore che passava le giornate nel suo atelier. Lui mi appese di fronte all’unico quadro non astratto di tutta quella galleria.
Feci amicizia con l’unico personaggio di quell’immenso dipinto che vedevo tutti i giorni, tutto il giorno: un povero soldato dell’esercito napoleonico, disegnato sconfitto e stravolto. Ci raccontammo le nostre vicissitudini. Lui e la sua campagna sconfinata, io e la mia gallina. Lui non aveva mai visto un circo, io una guerra.
Iniziammo una vita di soli racconti. I nostri e quelli dei ragazzi che si mettevano a parlare, certe volte appartati, dei loro segreti, ignari che noi li potessimo ascoltare.
Di loro non mi sorpresero le nuove tecnologie, sebbene stucchevoli. Ma l’impellente bisogno di guardare il cielo stellato. E quei giovani, che facevano sempre un gran baccano, un giorno colorarono la volta dell’atelier di blu. Ci aggiunsero dei puntini bianchi e si sdraiarono a terra, in silenzio. Io chiusi gli occhi e sognai di perforarlo quel soffitto. Mentre il mio compagno sognava di sciogliersi in un Kandinskij.

di Paolo Negri, illustrazione di Nicolò Piva

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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La salita alla baita non finiva mai. Le ruote della Panda 4×4, un modello di dieci anni fa noleggiata in aeroporto, tradivano una scarsa aderenza al terreno coperto da un sottile strato di ghiaccio. Lisa guardò il cellulare: poco campo. Anche il navigatore le era di scarso aiuto: non riconosceva il percorso, ma la voce, che la invitava a svoltare indietro appena possibile, le teneva compagnia. ”Speriamo di non rimanere a piedi in questo deserto bianco”. Pulì con la mano la condensa che si formava sul parabrezza e si piegò leggermente in avanti per vedere meglio la strada. Il paesaggio era magnifico e un po’ inquietante. La neve, scesa copiosa nei giorni precedenti, aveva coperto i rami dei pini che affollavano la vallata. Tutto era candido e fermo. Su una curva la macchina fece un rumore da ferrovecchio stanco di essere al mondo. “Non mi abbandonare proprio ora”. Ma la Panda non l’ascoltò. Lisa batté un pugno sul volante e girò con forza la chiave nel cruscotto. L’auto sussultò e poi si spense. Guardò di nuovo il cellulare: morto. Non poteva nemmeno avvisare Luca. Aspettò qualche minuto, immobile, le mani strette sul volante. Tirò un sospiro, aprì la portiera e scese dall’auto. Allacciò il piumino, infossò la testa nel cappuccio di pelo, mise la torcia in tasca e si avviò a piedi. Camminava a passo svelto per combattere il gelo che veniva dal terreno, le irrigidiva la punta dei piedi e saliva lungo la schiena. Un brivido la scosse, sfregò le mani per scaldarle e accese la pila. Il fascio di luce le diede sollievo. “Perché ho ceduto! Io odio la montagna!” Cosa avrebbe dato ora per essere su una spiaggia tropicale ad aspettare l’anno nuovo con le sue amiche! Sentì un rumore. Si voltò di scatto a scrutare il paesaggio intorno a lei. Trattenne il respiro. “Non è nulla, è la mia immaginazione, magari ci fosse qualcuno”. Riprese a camminare, l’orecchio teso, le gambe pesanti, aveva freddo. Dal cielo gonfio, scendevano leggeri fiocchi di neve, che sul terreno asciutto attaccavano e facevano scricchiolare gli scarponi. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé. I fiocchi, infittiti, creavano un muro attraversato dalla luce della torcia e si posavano sulle ciglia. Gli occhi di Lisa si velarono. Il sapore salato delle lacrime sulle labbra di nuovo le portavano la nostalgia delle spiagge e del mare. Era sola in tutto quel silenzio e non vedeva bene. Scivolò. Un colpo secco alla testa. Qualcosa di caldo le toccò le tempie. Forse una carezza di Luca. Doveva essere arrivata alla baita. Le sembrò di sentire la musica e il tepore del camino. Era contenta di essere lì. Il freddo era sparito. Sarebbe stato un romantico Capodanno. Chiuse gli occhi, mentre la neve si tingeva di rosso.

di Anna Rosa Confalonieri, fotografia di Leonardo Pigoli

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Qualcuno ha fatto la spia, come ai tempi del Kgb in Russia. Il Beppe Colombo l’altra sera tornando a casa è stato bloccato dai carabinieri, e gli è andata bene perché ha pagato la multa di 400 euro. Se gli avessero fatto l’alcol test era peggio. Suo cognato che abita di fronte al bar di Silvano, che quello spiritoso dell’RPK ha ribattezzato Il Bar dei Birla, è stato fermato alle tre di notte e portato in questura come un partigiano della brigata Garibaldi. Non gli hanno dato l’olio di ricino, ma due ceffoni sì. Lui non ha parlato.
– Sono andato da mia mamma che ha ottant’anni e ha preso il coronavirus – ma l’alibi ha funzionato solo quando ha tirato fuori un certificato medico compilato dal dottor Fuscari.
Silvano si è messo al riparo. Ha murato la porta di dietro, che adesso solo lui può aprire dal di dentro e chi non lo sa dall’esterno non la vede nemmeno. La saracinesca davanti in strada è abbassata, e lui il bar a mezzogiorno non lo apre. La vita inizia con l’aperitivo serale, quando gli altri chiudono e i cagasotto vanno a dormire, col coprifuoco, come se fossimo in guerra e arrivassero gli aerei a bombardare gli innocenti. E chi glielo dice a questi che la guerra era un’altra cosa?
Il clima si è fatto più teso ultimamente, e il dottor Fuscari si è messo a scrivere certificati a tutto spiano. Il televisore è spento e nessuno vuol vedere le partite di calcio perché il calcio senza pubblico è un topo morto che puzza.
Fabio Fabian, in questa ultima serata dell’anno, per sciogliere le tensioni, è salito sulla sedia e ha declamato una sua poesia in dialetto veneto.
A conclusione un coro di bravo bravo, al nostro poeta! accompagnato da un’alzata di boccali.
Giò Bassi ha preso la chitarra e Mimì ha cantato canzoni del vecchio west, così la serata ha preso quota. Un brindisi a Fabian, uno a Giò, un altro a Mimì, e il prossimo vedremo.
A mezzanotte la moglie di Silvano è entrata in sala con il cotechino e le lenticchie.
Il Beppe Colombo, che era arrivato in bici passando nei boschi, ha alzato il boccale per il brindisi di fine anno.
– Brindiamo al 21, che sarà senz’altro peggio del 20.
L’Anselmo ha scosso la testa.
– Ma cosa dici? Con il vaccino il terrorismo sulla gente non avrà più senso e le persone torneranno libere.
– Scemo, non hai capito che il Beppe scherza? – l’ha rimproverato l’Ettore Bignante, che poi ha alzato le braccia chiedendo il silenzio.
– Un attimo d’attenzione, prego, un attimo d’attenzione. Adesso consegnatemi tutti i vostri telefonini, smartphone e qualsiasi strumento che possa essere intercettato.
Li ha messi in una borsa dell’Esselunga ed è sparito su di sopra, poi è tornato distribuendo un foglio a tutti con su una lista di nomi.
– Ragazzi, ragazzi – di nuovo l’Ettore ha chiesto il silenzio.
– Al primo della lista ci penso io! L’operazione è questa: ognuno di noi ne fa fuori uno. Qualunque cosa accada noi non ci conosciamo.
– Che bello scherzo – ha detto l’Anselmo, ubriaco sul suo bicchiere di birra.
Nessuno gli ha risposto.
– Questo non è uno scherzo, scemo!

di Abramo Vane

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Mi capitò tempo fa di andare al Pronto Soccorso, mia moglie era caduta da una scala e si era rotta in vari punti. Era imbottita di antidolorifici e dormiva il sonno dei sofferenti e a me, seduto di fianco al suo letto, non restava che osservare la varia umanità che si alternava nello stanzone d’ospedale. Un movimento di lenzuola nel letto accanto attirò la mia attenzione: come una tartaruga dal suo carapace spuntò la testa di un ragazzino. Gli sorrisi con un ciao al quale rispose con un salve che esprimeva tutto il gap di età che ci divideva.
Andai fuori a fumare una sigaretta. Era mattino presto e nel cielo scorsi Venere, luminosissima. La mia buona stella, pensai, giornata fortunata! Al ritorno il letto del ragazzo-tartaruga era vuoto. Un’infermiera azzurra si avvicinò e mi chiese: “Dov’è andato il ragazzo? Lo aspettiamo per la TAC, glielo dica lei, è suo padre?” “No”, e un brivido mi corse lungo la schiena, io non avevo figli, purtroppo. Lui tornò trascinandosi appresso una piantana con la flebo. Visto in piedi notai che era molto magro, poveretto, chissà come mai era lì dentro.“Ti hanno cercato”, gli dissi “devi fare la TAC”. Non sembrò interessato alla cosa e con movenze lente, degne del suo status, si sdraiò, spossato. Prese il cellulare e fece vorticare il pollice sullo schermo come solo i ragazzi sanno fare. Poi con l’unico braccio libero tentò di sistemarsi i cuscini dietro la schiena. “Vuoi una mano?” “Sì, grazie”. “Ci mancherebbe”, sono tuo padre, pensai. Riprese il cellulare: “Ma chi è questo?”. Lo disse per farsi sentire da me? Forse. “Mi scrivono, ma io non li conosco”. Il mio sguardo doveva avere i punti interrogativi al posto delle pupille perché subito dopo aggiunse: “Ho perso la memoria. Ho battuto la testa e non mi ricordo più niente. Mi arrivano dei messaggi, e non so chi sono”. Rimasi instupidito, senza sapere cosa dire, ma l’infermiera azzurra che era tornata mi tolse dall’imbarazzo. Prima di andarsene, il ragazzo-tartaruga mi disse: “A dopo”. Quindi ci sarebbe stato un dopo, avevo il tempo di riordinare le idee e recuperare l’impasse. Ha perso la memoria? Non sa chi è? Mi balenò allora nella mente un pensiero spudorato. E se gli dicessi che sono suo padre? Che anche la mamma è caduta con lui e presto ce ne torneremo tutti e tre a casa? Ci occuperemmo di lui, lo accudiremmo e alla nostra morte erediterà la casa… e immerso nella mia allucinazione vidi con occhi nuovi rientrare il tartarughino: “Mio padre è venuto a prendermi, i medici dicono che sarà questione di qualche giorno, poi mi ricorderò”.
Assaporavo la sigaretta, e nel cielo terso dell’imbrunire brillava la stella della sera, ancora lei, Venere. Che illusione, pensai, Venere non è una stella!

di Ester Tognola

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Il suo nome era Mario, ma lo chiamavano Mariolino perché era gracile, trascorreva sempre le vacanze nella casa dei nonni.
Passava buona parte del tempo nel suo rifugio favorito, la soffitta, dove leggeva, e viveva idealmente nel Medio Evo. Si era dato il nome di Bartolomeo, come Bartolomeo Colleoni, il suo modello di cavaliere. Aveva visto una volta a Bergamo la statua equestre rivestita d’oro del condottiero e da allora si immedesimava in lui, inventava storie in cui combatteva e vinceva. Le scriveva e le leggeva al nonno, lui gli faceva da padre. Insieme passavano molte ore.
Il giardino dove giocava era più un bosco che altro, e lì avvenivano le scorrerie più cruente, lui come unico protagonista, oltre a un cane paziente che era, all’occorrenza, un destriero, il nemico, il resto del battaglione.
Il nonno gli aveva costruito un cavallo di legno, come lo usavano ai suoi i tempi, un bastone lungo da tenere in mezzo alle gambe con incollato la sagoma della faccia di un cavallo.
Quando fu più grandicello, costruì una torre di avvistamento in alto sulle acacie, giorni e giorni di tentativi per tenerle insieme, non erano gli alberi più adatti per sostenerla, cadde più volte ma la sua ostinazione nel ricostruirla era più forte del vento. Consumò mille chiodi, corde, martellò ferocemente le dita, ma la torre rimase lassù, ferma e quasi stabile, fino alla fine dell’estate.
Era il giorno del suo compleanno, nove anni. I nonni organizzarono una festicciola, non ci sarebbero stati ospiti, loro tre, la mamma, il destriero.
Scese dalla torre raggiante, aveva sconfitto la Repubblica di Venezia e tornava al castello felice e affamato.
Si fermò, un’auto era parcheggiata nel cortile, sua madre. Ma come, era già arrivata a prenderlo, e la festa?
Da fuori sentì la voce alta della mamma e quella del nonno che urlava, la nonna cercava di mettere pace.
Il nonno accusava la figlia di ricevere in casa uomini.
Uomini? Sì, si era dimenticato della condizione in cui vivevano.
Sapeva che di notte c’era un andirivieni di gente in casa, li sentiva, ma non poteva uscire dalla sua camera. Era un segreto.
Avrebbe preferito vivere con i nonni, qui era libero, felice, non aveva paura, si sentiva protetto, ma non poteva lasciare la mamma sola, a modo suo aveva bisogno di lui.
Urlavano, oh come urlavano.
Tre mesi di felicità cancellati in un solo momento: la realtà. Era stato felice, tanto felice, troppo felice.
Riprese il cavallo e cominciò a correre, galoppare, si fermò sotto il piedestallo del condottiero e guardò su, non era un vero piedestallo ma lo era per lui. Si arrampicò in fretta, dall’alto scorse il nemico che avanzava nel bosco, urlò: “caricaaaa” e con un balzo gli andò incontro

di Elda Caspani, disegno di George Crowhurst

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Bruno era un bruco. Dopo un’operazione coi bisturi diventò Lucrezia. Uscita dal bozzolo, si vestì da farfalla e andò a posarsi tutte le sere sulla panchina che guardava villa Selznick. Da una finestra del secondo piano della villa uscivano le nuvole.
Ma un giorno il maggiordomo chiuse le imposte, fermò l’orologio disegnato sulla facciata e spense il lucernario dell’ingresso. Il signor Selznick da mesi andava rinsecchendosi e quella sera diventò definitivamente un’edera rampicante posta sulla parete nord.
Che si era ora condannati al cielo terso?
Lucrezia volle domandarlo e suonò coraggiosa il campanello.
Le fu aperta la porta d’ingresso ma nessuno la accolse. Ispezionò la casa e il giardino circostante. Incontrò due anziani signori dalla forma di grossi bignè. Un cordiale dialogo svelò la causa della loro impazienza: l’oro. Lo cercavano così da averne abbastanza per forgiare un bambino da vendere al mondo. Col ricavato si garantivano una tomba, una volta defunti e sepolti, dello stesso luccicante materiale!
“E tu, bambina, cosa vai cercando?”. “Le nuvole miei gentili signori”.
Lucrezia si era giusto imbattuta nei sarti cucitori che le indicarono dove trovare gli scarti: “Da quella parte, vai, là si conservano tutte quelle non spedite in cielo”.
Nel vecchio capannone Lucrezia attraversò parecchie nuvole e all’uscita, oltre al piacere, trovò attaccati alla suola delle scarpe i disegni di quella massa di vapore acqueo condensato.
Al maggiordomo che bagnava l’edera chiese informazioni a riguardo e lui, con garbo, le diede le chiavi di una stanza al pianterreno dove la ragazza scoprì l’esistenza di una stampante a forma cubica da cui, se azionata, uscivano proprio i disegni che i due bignè poi cucivano.
Rimase delusa Lucrezia: si aspettava la fantasia ad animare meraviglie, non la corrente elettrica! Eppure volle conoscere gli interni di quel marchingegno.
Chiese il come a due astronomi studiosi dei raggi della bicicletta. Ma essi si mostrarono interessati solo al disegno che formavano, se uniti, i nei comparsi sul suo braccio destro: Cassiopea!
Tuttavia furono ben disposti nel recapitarle l’indirizzo di un matematico indiano che una volta esaminato il “cubo artista” disse: “Geniale! Costruito in modo tale che se smontato non può essere rimontato. Dunque: vuoi altri disegni di nuvole o scoprire come vengono creati?”.
Lucrezia nervosa iniziò a scarabocchiare su un foglio. Un orango tango, amico del matematico, le sorrise, le prese il foglio, lo appoggiò al vetro della finestra e con una mano mimò la caduta della neve.

di Paolo Negri, fotografia di Tiziana Titì Barbaro (Instagram: titi_fotoamando)

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Anche oggi la Piana di Salinagrande è arroventata. Perfino il cavallo sembra percepire l’aria immobile che ci circonda, dove nessuno osa muoversi e anche gli animali cercano di risparmiare energia. Il sudore cola lungo il suo collo muscoloso. Trovo rifugio sotto un albero di fico, le Egadi mi guardano, circondate da un’atmosfera tremolante.
Comincio il mio giro di perlustrazione della proprietà, un’abitudine che ho ereditato da mio nonno. Il padrone deve sempre farsi vedere. Scendo verso il mare, oggi è giornata di mercato e nonostante il caldo i contadini sono arrivati dalle campagne per vendere il poco raccolto che la stagione arida gli ha concesso. Già percepisco i loro richiami, come se urlare più forte potesse cambiare la loro giornata.
Il mio obiettivo, però, è un altro. È il banco di frutta di Rosaria. Mi avvicino, e la scorgo mentre il profumo dei meloni e delle angurie mi colpisce, violento.
La guardo. Occhi penetranti, capelli corvini abbandonati lungo le spalle. Gocce colano con una lentezza estenuante tra i seni. La voce, roca, mi risveglia.
Comandi, signor Conte, anche oggi a mischiarsi col popolo? Fossi in lei me ne sarei stata sotto gli alberi di Villa delle Palme. Cosa le posso offrire?
La frutta la conosci te, meglio di me. Cosa vuoi suggerirmi?
Dipende quello che cerca, signor Conte. La frutta è come la vita. Il fico d’India è per chi non si ferma alle apparenze, per chi è disposto ad andare a fondo, a oltrepassare la superficie delle cose. Magari pagando qualcosa in più riesce, alla fine, a godere di splendidi sapori. Un po’ d’uva? Se vuole provare il dolce e l’aspro della vita senza chiedersi prima come sarà, senza sapere se sarà quel chicco a tradirti, l’uva è la frutta per lei. O la banana, che copre tutti i sapori, nessuno escluso, con la sua consistenza morbida e rassicurante?
Mi si avvicina. Dall’alto la sua scollatura diventa ipnotica. Mi rendo conto che le pulsazioni prendono un ritmo insolito. E che anche io sudo, e non so se per la temperatura.
Ma oggi fa caldo, Conte. È la giornata dell’anguria. Una giornata da stare sdraiati alla spiaggia giù alle Saline, con l’anguria a mollo nell’acqua. La si prende, si divide a metà, e si immerge la faccia nella polpa. Si beve, e si mangia. E poi, ancora col succo che cola, ci si bacia. Perché tutto, Conte, diventa dolce.
Ma mi scusi, Conte, come al solito divagavo. Che le posso dare?
Rosaria, dammi un pomodoro. Uno solo. Ma che sia grosso, e saporito. E morbido. Che lo possa mangiare anche chi i denti non li ha più.

di Gianluca Fiore

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C’è, da qualche giorno, un leone in città, ha la criniera del re e il baffo del conquistatore, passeggia nelle vie di questa cittadina e il tempo si è fermato, ha spezzato la frenesia, lui è lento, agile, forte, dentro di sé ha l’Africa, l’istinto della caccia, e non conosce la psicologia contorta, non l’illusione di Maya, non il superfluo… qualcuno teme per sé e per i figli, il commerciante ha chiuso la saracinesca, ma poi si è affacciato dalla finestra… E mi sono sbagliato, questo leone non è solo, ce ne sono altri, oggi ne ho incontrati almeno tre, il primo è lui, quello che dicevo, ha l’occhio di chi vigila dal suo rialzo e controlla la savana, attento, imperscrutabile, regale, è il sovrano più naturale che esiste al mondo, gli altri lo hanno solo imitato… e il secondo è un giovane leone, è ancora un ragazzotto, ha voglia di giocare, mi sembra un adolescente che non vuole crescere, ma è così bello, e nel suo occhio timido vedo le facoltà che lui ancora non ha scoperto… e poi c’è il terzo, il più inquietante forse, vi scorgo dentro l’essere umano, l’uomo che ritrova i suoi istinti, l’animale che vive nella natura, più lo osservo e più vedo ciò che l’uomo ha perso e che in qualche modo deve ricuperare, se anche lui vuole sopravvivere, se anche lui vuole divenire quello che è… E tutti questi felini sono di proprietà di Samuele Arcangioli, pittore, lui stesso ha criniera e baffo, l’occhio calmo e vigile, lui stesso è un giovane animale timido e manifesta l’istinto primordiale, e ora che l’ho conosciuto meglio direi che questi leoni non gli appartengono. È lui che appartiene a loro.

di Fedele Mozzi, dipinto di Samuele Arcangioli

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