La rivista di giardinaggio a cui è abbonata mia moglie arriva ogni primo mercoledì del mese, puntuale come l’orticaria quando mangi fragole selvatiche prima di lavarle a dovere. Un bollettino postale da 40 euro per 12 numeri, tutti verdi. Sulla terza di copertina pubblica una poesia scritta dagli stessi lettori.
Di solito non la guardo neanche, ma ieri era sul tavolino in soggiorno, accanto alla poltrona dove mi ero seduto in attesa che la mia dolce consorte terminasse i preparativi per uscire a cena. L’ho sfogliata veloce e poi mi sono soffermato sul componimento, finiva così:
“I piedi si avvicinano alla schiuma rabbiosa
Sono quelli di chi non ha più niente da offrire
E tra le nubi la Luna curiosa
Lascia lo sguardo vagare nel chiaro
Così da notare soltanto un bicchiere
Dove prima stava l’amico mio caro.”

Mi ha ricordato una sera di inizio estate del ’77, e Clara.
Vivevo a Padova in quel periodo. Ero un quindicenne irrequieto. Il pomeriggio rubai dal portafoglio di mia madre ventimila lire. Cercai Gerry sulla Saturnia e comprai con quel denaro un po’ di erba. Andai al ponte dell’Osservatorio sul Bacchiglione, una zona poco frequentata. Il cielo ingrigiva e la lunga giornata di giugno volgeva al termine. Mi appoggiai al parapetto sotto l’unico lampione che era rotto da settimane. La notai che risaliva via Arpi, io avevo in mano una confezione di cartine.
Clara, tre anni più grande di me, la più bella della scuola, però faticai a riconoscerla. Cappello di paglia a coprire i capelli d’oro e il corpo da Pinocchio. Io all’inizio la ignorai, ero troppo concentrato nel mio lavoro. Le prime gocce di pioggia caddero bagnando il buro*. Lei con il cappello lo riparò. Le sorrisi. Restammo a fumare seduti a cavalcioni con il fiume che scorreva rapido a pochi metri dalle nostre scarpe. Lei era silenziosa, aspirava come se l’avesse fatto decine di volte, e probabilmente era così. Persi la cognizione del tempo. I suoi occhi, su quel volto pieno di spigoli, erano magnetici. Le diedi un bacio, di quelli veri, e lei non si ritrasse, fu meglio del fumo.
Era l’una passata e, mascalzone o no, a casa le avrei buscate. Le dissi che sarei stato felice di rivederla. Fece un mezzo sorriso, di quelli che hanno sapore di tutto, gioia esclusa.
Avrei potuto cambiare il corso degli eventi? Non lo so. La Luna quella notte non cedette alla curiosità, rimase indifferente al di là delle nuvole. E io, ormai davanti al portone dell’Osservatorio, cercai Clara con lo sguardo, trovai solo buio nel buio.
Il giorno dopo a Chioggia, dove il Bacchiglione si versa nel Brenta, due bambini in bicicletta avvistarono, tra le berule e le fienarole, un burattino dai capelli d’oro.

*canna in veneto

di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Mauro Speri

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L’atmosfera del locale è carica di musica e fumo; un’impalpabile nebbiolina aleggia nell’aria in barba ai divieti appesi alle pareti.
Pochi clienti questa sera, d’altra parte è mercoledì: giusto un paio di tavoli in disparte e qualche habitué a darsi il cambio al bar.
Benvenuti al Sassofono Blu, da oltre quarant’anni approdo sicuro per nottambuli convinti e occasionali frequentatori delle ore piccole.
Da sempre uguale a sé stesso, sopravvissuto al passare del tempo.
Dal palco le struggenti note di Woman di Neneh Cherry graffiano l’anima prima che l’aria: “You gotta be fortunate / You gotta be luckynow” (1) …
Un bicchiere di whiskey sul bancone è rimasto a fare da segnaposto di fronte a uno sgabello vuoto.
La Rossa seduta fino a un attimo prima si è alzata dopo averne bevuto un sorso.
Di che colore erano i capelli di Venere? Giurerei come i suoi, del colore della passione.
Avvolta in un tubino nero che pareva una seconda pelle, le sue gambe gridavano “Vieni a prendermi!”
Sventole del genere si vedono di rado in posti come il Sassofono Blu: sono tipe da privé di qualche discoteca di corso Como, accompagnate a un viveur ben in grano.
Al ritorno dalla toilette, però, nessun uomo ad attenderla.
“There ain’t a woman in this world / Not a woman or a little girl / That can’t deliver love / In a man’s world” (2) intonano dal palco di donne coraggiose che soffrono e che amano.
Una lacrima improvvisa svela la sua tristezza; riga il viso e le cade sulle gambe.
Il tubino attillato ora è un travestimento che la tiene prigioniera.
Che emozioni provava Venere? Il mito non lo dice.
La descrivono di immensa bellezza, capricciosa e volitiva.
Mai una parola, invece, sui suoi sentimenti.
Ha mai amato la Rossa prima di stasera? Ne sarà capace in futuro?
Conoscerà la risposta solo chi saprà frugarle l’anima anziché le mutandine.
“I’ve died so many times / I’m only just coming to life” (3) continua la musica.
Mi alzo e vado da lei.

Note
1 Devi essere fortunata / devi essere fortunata ora
2 Non c’è una donna a questo mondo / non una donna o una piccola ragazza / che non possa donare amore / in un mondo
di uomini
3 Sono morta così tante volte / che sono appena rinata

di Daniele Bin

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Sua mamma amava il blu. Erano blu i cappottini e gli abitini di velluto con colletti di pizzo bianchi che indossava le domeniche d’inverno per andare a Messa, la cartella di scuola e gli occhi della bambola regalata ad ogni compleanno: tutto era blu. Loretta era stata una bambina abituata alle buone maniere, ubbidiente e cortese, di indole docile, mai con le mani sporche o le ginocchia sbucciate; come conveniva alla figlia maggiore del maestro del paese. Aveva anche una grande responsabilità: due sorelle a cui dare il buon esempio. Dietro questo formalismo, nascondeva la sua timidezza, ma l’abitudine a tenere a bada le emozioni la rese severa e distante agli occhi degli altri.
Era bella, i capelli rossi e le lentiggini la facevano sembrare più giovane della sua età, però i ragazzi preferivano corteggiare le altre, meno complicate, più alla mano. Così, negli anni, le sue amiche e le sue sorelle si erano sposate e lei era diventata la figlia zitella del vecchio maestro del paese.
A trentanove anni, indossava ancora cappotti blu, qualche filo bianco si intrecciava alle ciocche rosse e provava il desiderio nascosto di andare via, no, di essere portata via.
Pensava a questo mentre usciva dalla biblioteca dove trascorreva il sabato pomeriggio. Preferiva la sezione dei libri dedicati ai bambini e sceglieva, per le sue nipoti, libri con grandi immagini che riempivano le pagine; quei libri in cui le parole si confondono tra colori sfumati e figure leggere.
Quel giorno fu attratta da un titolo, Manuale d’arte per piccoli. Lo avrebbe dato alla maggiore delle sue nipoti, Arianna, una bambina che amava disegnare e le riempiva la casa di fogli colorati.
Si coricò, accese la radio sul comodino e cominciò a sfogliare distrattamente le pagine. Lo sguardo si fermò sulla stampa di un quadro di Chagall, La passeggiata, in cui il pittore trattiene per una mano la moglie che levita nell’aria trasportata dal vento. Lui stesso è come sospeso sul paesaggio. Un amore che fa volare al di sopra di ogni cosa, trascendente, un sogno. Il suo sogno. Ingoiò una lacrima. Alla radio annunciarono il vincitore di Sanremo 1958. Loretta chiuse gli occhi e si lasciò andare… per volare nel cielo infinito.

di Annarosa Confalonieri

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Vi confesso subito una cosa. Dell’Uomo Qualunque inventato da Guglielmo Giannini, mi sembra nel primo dopoguerra, non sono mai andato al di là dello slogan. UOMO QUALUNQUE, quale io sono sempre stato. Non dico altro, ma siccome so che avete il vizio di inquadrare le persone, vi dico anche che dalla terza media sono stato buttato fuori a calci nel sedere, e sono ancora riconoscente a quel professore d’italiano che diede la spinta maggiore, lui che sosteneva che a scuola si impara poco o niente, tranne lo stare insieme.
Col mio amico Marco un tempo, bei tempi davvero, ci trovavamo alla partita di calcetto, e poi a bere una birra come fanno quelli del rugby. Da lunedì invece, per via del coprifuoco, ci incontriamo direttamente da Silvano. Ore 21, come al solito.
Silvano ha un bar in centro, la saracinesca è chiusa, e ci fa entrare da dietro. Niente di speciale, nel senso che non ci sono donnine o cose del genere. Ci beviamo le nostre tre o quattro birrette, e in questo periodo teniamo le distanze di legge, un metro, anzi noi ne teniamo due. Non come i professionisti del calcio che a ogni gol si danno i baci in bocca, o come quelli in metrò che praticano ancora la mano morta. A volte Silvano ci porta lo stinco cucinato dalla moglie e tiriamo le due o le tre di notte. Tanto abitiamo tutti lì attorno. Il Beppe Colombo però sta a 20 km. Lui rischia, ma dice che ne vale la pena perché la libertà ha sempre avuto un costo. Al massimo pago la multa, afferma tranquillo, o se proprio va male mi mettono in galera.
Suo cognato, che da dieci anni occupa lo stesso sgabello, l’altra sera, con il computer appoggiato al bancone, si è messo a leggere a voce alta un articolo su LegnanoNews del virologo Paolo Viganò. In sala s’è fatto silenzio, e anche a lettura terminata il silenzio si tagliava a fette. Uomini qualunque che la pensano come un emerito professore della medicina.
Silvano, fin dall’inizio sull’attenti, irrigidito come un soldato davanti al Milite ignoto, a un certo punto si è sciolto. “Questo giro lo offre la casa”, ha gridato alzando al cielo il suo bicchiere. E il cognato del Beppe Colombo gli ha risposto: “Quello dopo lo offro io, alla salute di Paolo Viganò”.

di Abramo Vane, illustrazione di Renato Pegoraro

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Il giorno in cui scattò la fotografia Tamara indossava un elegante cappotto con inserti di volpe argentata sul collo e sui polsini.
Era una grigia giornata invernale; l’umidità copriva il giardino e rendeva pesante l’aria. Aveva esitato prima di varcare l’alta cancellata di ferro brunito dalle punte lanceolate.
Non sorrideva: l’espressione tirata e sul viso un velo di malinconia. Alle spalle una villa liberty e un viale costeggiato da cespugli spogli.
La villa dei nonni, il luogo dei suoi giochi estivi di bimba, dei pomeriggi domenicali trascorsi nell’orto e dei Natali caldi che sapevano d’arrosto con le patate e di torta di mele. Amava quella casa e aveva sempre pensato che un giorno , proprio lì, lei avrebbe accolto i nipoti.
Erano passati tanti anni da quando aveva fermato quel luogo con uno scatto, come se temesse di perderlo o dimenticarlo.
Ricordava le ultime foglie gialle a terra che non si notavano nella fotografia in bianco e nero e, se chiudeva gli occhi, sentiva ancora il profumo di terra bagnata e di muschio. Poche settimane prima il crollo della borsa di Wall Street: il 24 ottobre 1929, passato alla storia come il “giovedì nero”.
Tamara ripensò ai nonni, contadini italiani emigrati alla fine del 1800 per cercare fortuna negli Stati Uniti, la Terra Promessa. Le sembrava di sentire ancora i racconti dei loro sacrifici per raggiungere un po’ di benessere da lasciare in eredità a figli e nipoti. E all’improvviso la crisi, il fallimento di banche, industrie e piccole imprese agricole che avevano investito tutto il loro denaro in macchinari moderni.
Le testate giornalistiche riportavano numeri spaventosi in caratteri cubitali neri: tredici milioni di disoccupati.
La voce di suo padre tremava: per fronteggiare i debiti non restava che ipotecare la “ casa di famiglia”, come ormai la chiamavano, simbolo concreto e visibile che ce l’avevano fatta. Sconforto e paura presero il posto di ottimismo e fiducia.
I ricordi di quegli anni scorrevano vivi mentre se ne stava seduta davanti al camino acceso con una scatola di vecchie fotografie sulle gambe. Le avrebbe mostrate l’indomani alla nipote, sempre pronta ad ascoltare le sue storie. Un brivido la scosse. Si alzò, ravvivò la fiamma e si affacciò alla finestra. Sorrise. Fuori era buio, ma la luce dei lampioni illuminava l’alto cancello di ferro brunito dalle punte lanceolate da cui partiva il viale che portava alla villa.

di Annarosa Confalonieri

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Caro papà, voglio vivere, o morire, combattendo… come tuo nonno in Africa a El Alamein al grido di Folgore, come i partigiani fucilati dai nazisti, come i rivoluzionari di Zapata per un tozzo di giustizia, come i contadini russi lanciati senza fucile contro il nemico a Stalingrado, come gli spartani alle Termopili, come Giulio Cesare tradito, come tutti gli uomini che avevano casacche diverse, ideali diversi, patrie diverse, come tutti gli uomini che mi hanno preceduto nella storia dell’umanità, voglio vivere e morire da uomo libero.
Sono passato per regioni gialle, arancioni e rosse. Ho attraversato confini, e ti assicuro che non tutte le terre sono omologate, come dicono i mass media. Dove mi trovo adesso la mascherina non la mette nessuno, e se qualcuno mi ordinerà di metterla ho un coltello nello zainetto. Giorgio, il mio grande amico, è con me. Abbiamo deciso insieme, dopo un anno di video chiamate. C’è anche Anna, la sua ragazza. Invece Laura, la Lauretta che ti era tanto simpatica, così rispettosa dei genitori del suo ragazzo, lei non ce l’ha fatta, aveva le lezioni da seguire per l’esame di maturità. Non so come andrà a finire, una cosa è certa: l’aria è fresca, e questo mi basta. Il destino è già scritto, e l’aria è fresca.
Caro papà, ti lascio ai tuoi telegiornali, alle attenzioni per la famiglia, allo smart working, ai decreti ministeriali, ai virologi saputelli, ai giornalisti leccapiedi, ai politici in cerca di voti. Sappi che ti voglio bene, la tua voce mi accompagna sempre, e le tue parole (ce la faremo, speriamo speriamo, il vaccino ci salverà…) mi spronano e danno coraggio. Le ho qui nelle orecchie. Non tornerò indietro a risentirle dal vero. Ti chiedo solo un favore. Non parlare più di guerra, non dire che stiamo vivendo una guerra. A Dresda in soli tre giorni sono morti innocenti tre volte tanto quelli di un anno intero in Italia per presunto covid19. E poi tutti gli altri sessanta milioni, fra dolori e atrocità.
Ti ho apprezzato l’ultima sera quando ti sei commosso ricordando il tuo collega morto d’infarto perché all’ospedale non c’era posto, e il figlioletto della vicina che non vuole più vedere gli amichetti e vive con lo smartphone in mano, e tutta quella gente depressa, quei suicidi che nessuno racconta, quelle storie di miseria e disperazione, di violenza famigliare. Quando hai espresso il dubbio che il nostro amministratore di condominio s’è preso la leucemia a causa dello stato di debolezza che il terrore del virus gli ha procurato, io avevo già un piede sulla porta per uscire, e mi sono fermato. Tu però hai acceso la tele saltando da un talk show all’altro. In quel momento ho risentito la voce virile del padre di quando da bambino mi dovevano operare alle tonsille, Coraggio figliolo, non temere… e così la tua mano mi ha sospinto fuori dall’uscio, verso la vita. Ho raggiunto gli amici.
Vogliamo vivere!

di Abramo Vane

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“Mancano le lamine di abete rosso”, la matita di Luigi si blocca a metà della conferma d’ordine. Il ragazzo delle consegne sospira “la tempesta Vaia ha spazzato via decine di ettari di bosco in Val di Fiemme. Ci vorranno settimane perché la legna arrivi”. Ma Luigi non lo ascolta più.
Izumi era entrata nella bottega il giorno prima. In città Luigi era noto per l’estrema cura dedicata a ogni strumento, paragonabile solo al suo carattere schivo. Era un uomo dal piglio deciso, in particolare quando l’estro creativo lo invadeva e una scintilla di pazzia gli balenava negli occhi. Trasalì nel vedere i tratti esotici e le labbra un po’ imbronciate della giovane. Dalla borsa di cuoio aveva sfilato alcuni spartiti e aveva eseguito l’Ave Maria di Schubert, con un suono trasparente, quasi liquido. Izumi gli aveva chiesto di realizzare un violino su misura per lei e si era proposta di partecipare per il laboratorio di Luigi al Concorso Triennale Internazionale degli Strumenti ad Arco “Antonio Stradivari”, l’Olimpiade della Liuteria. Luigi accettò, quel liquido si era fatto strada nella sua naturale diffidenza.
Data la scarsità di abete rosso,usato per i piani armonici, sceglie un legno più leggero, adatto a una ragazza esile come Izumi e studia antiche ricette di vernici. Solo due mesi e la competizione inizierà. Lavora duramente e, a una settimana dalla gara, l’opera è terminata.
Di Izumi, però, nessuna traccia. Dal loro primo incontro, non l’ha più rivista. La cerca al conservatorio, ma non risulta tra le iscritte. Prova allora nella biblioteca della scuola e consulta gli annuari dei diplomati. Ed ecco il suo il volto comparire tra le pagine consunte. Sotto la foto scorge incredulo l’anno dello scatto, 1978. Scopre poi che la ragazza era rimasta vittima di un incidente d’auto la notte precedente al concorso di quell’anno, a cui avrebbe dovuto partecipare.
La sera del concerto è arrivata, il salone si popola di abiti da sera scintillanti. Luigi ha un sussulto quando le note dell’Ave Maria di Schubert fendono la platea, e al posto della musicista ingaggiata all’ultimo, appare Izumi. La pelle candida, gli occhi socchiusi, la testa reclinata sulla mentoniera. Per tutta la durata della canzone lei è lì, dopo tanto tempo, avvolta dalle luci del palco. La sua voce danza nell’aria, libera, levigata in ogni dettaglio dalla lima di Luigi. Poi, l’ultimo suono si spegne, e nel locale riecheggia il tonfo del violino, privato del suo sostegno.

di Olga Riva Rovaglio

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Lo zoo è il parco preferito da Tony, mio figlio, ha dieci anni, oggi festeggiamo il suo compleanno con la giornata degli animali. Ogni anno visitiamo uno zoo diverso, questo è il terzo. Ha deciso che da grande farà il veterinario, vuole curare tutti gli animali feriti. La giornata è ideale: sole, cielo terso e leggera brezza.
Camminiamo lungo un sentiero che, secondo la mappa, ci porterà al lago degli ippopotami. E’ la prima volta che li vediamo. Ci raggiungono due ragazzi che corrono spaventati e urlano che è scappata la tigre e ha sbranato un custode. Corriamo anche noi verso l’uscita, mi preoccupo per Tony. Sbagliamo strada e arriviamo di fronte alla gabbia vuota. La situazione è spettrale, il corpo di un custode dello zoo giace martoriato, quello della tigre è poco distante, abbattuto da un sonnifero sparato da un altro custode che al nostro arrivo sussulta, punta contro il fucile e intima di girare al largo. Ha lo sguardo fisso su un’ascia per terra accanto alla gabbia. Non sanno se è scappata qualche altra belva. Andiamo in un capanno lì vicino e chiudiamo le porte, con noi ci sono i gestori e altri visitatori spaventati. Dopo due ore arriva la buona notizia, possiamo uscire dallo zoo e tornare a casa. Recuperiamo i nostri zaini, ripassiamo davanti alla gabbia della tigre e Tony mi dice… Guarda mamma, c’è una lente di ingrandimento su quell’albero, per cui avviso subito un responsabile.
Fuori dello zoo decidiamo di fermarci in una pizzeria, è stata una giornata pesante, partita per esplorare un parco e finita con il morto. Tony è molto eccitato, non vede l’ora di raccontare tutto ai compagni di scuola, invece io non vedo l’ora di andare a dormire. Il giorno dopo leggo sul Corriere che un custode dello zoo ha confessato l’omicidio. Il resoconto è dettagliato perché lo ha raccontato lui stesso. Ha legato un’ascia a un filo di paglia sopra la gabbia, poi ha posizionato una lente di ingrandimento su un ramo alto della quercia accanto. Ha aspettato mezzogiorno, nascosto fra le fronde dell’albero. A quell’ora il sole è alla massima altezza, il suo raggio attraverso la lente ha bruciato il filo di paglia a cui era legata l’ascia che ha tagliato la corda che assicurava la chiusura della gabbia della tigre. Il collega non ha neanche sentito avvicinarsi l’animale, ed è stato azzannato. Voleva ucciderlo perché era l’amante della moglie, e aveva studiato per mesi la posizione del sole. Un delitto perfetto.
Quando è tornato a casa ha trovato un biglietto della moglie che era scappata con un altro uomo.

di Laura De Filippo

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Lo chiamavano Nuvolari perché al volante era un asso.
Gli avevano cucito addosso quel soprannome da un momento all’altro, però gli piaceva, sapeva di cielo e di sogni.
Ironia del destino, guidava un’Alfa rossa come il grande Tazio. Se c’era qualcosa di cui non era a corto erano proprio i sogni; al contrario i soldi non bastavano mai.
Campava con un misero impiego da meccanico, eppure nessuno meglio di lui sapeva mettere a punto un motore.
Era successo anche con il quattro cilindri boxer di Corsaiola, la sua Alfa, capitata un pomeriggio sul ponte dell’officina.
Millesette, sedici valvole, centotrentasette cavalli, fu amore appena alzato il cofano.
Da quelle parti bazzicavano certi tipi loschi che organizzavano corse clandestine di automobili; aveva bisogno di soldi per mettere le ali ai suoi sogni e quella era la sua occasione.
Ben presto scoprì di avere talento per la velocità e conobbe l’ebbrezza della vittoria.
Di trionfo in trionfo la posta in palio cresceva, gli avversari si facevano più agguerriti e lui sempre un soffio più veloce di loro.
Decise di correre un’ultima volta, poi via per sempre in qualche posto esotico.
Un giro completo del Grande Raccordo Anulare in notturna sarebbe stata la sua ultima gara.
Partenza all’una da via della Magliana e ritorno, per il primo al traguardo un cachet da cento milioni di lire.
L’esplosione di due grossi petardi e le macchine schizzarono oltre la linea di partenza.
I motori ruggivano, affondò sul pedale giusto prima della rampa d’ingresso del GRA e si portò in testa.
Le auto si allargarono fra le corsie, il ritmo di gara scandito dallo slalom nel traffico della notte; lui al comando, gli altri all’inseguimento.
Casal Lumbroso, Aurelia, Montespaccato, nel retrovisore guizzavano i lampeggianti delle pantere: quella sera si giocava a guardie e ladri.
Boccea, Casal del Marmo, Trionfale, i fari degli inseguitori non mollavano, ma non riuscivano ad avvicinarsi.
Non gli bastava vincere, era la sua ultima gara e doveva essere un’apoteosi.
Settebagni, Bufalotta, Nomentana, mille pensieri in testa, persino quell’ex pilota che raccontava di vedere sempre una donna in abito scuro sul sedile accanto superati i duecento all’ora.
Diceva che era a causa di certe endorfine che produceva il cervello sotto stress. Schiacciò a tavoletta per lasciarsi tutti alle spalle.
Non si era mai spinto a tanto; l’anteriore sinistra non resse, il mozzo saltò e la macchina entrò in testacoda. La Donna fece scivolare le spalline del vestito e lo tirò a sé.

d Daniele Bin, illustrazione di Lucia Casavola

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Io sono il Nero. Le dita sporche di terra stringono la testa del cavallo. Osservo il Bianco. Occhi scuri come la madre, poco più alto di uno stocco di granturco ai primi di giugno. Sandy, dodici anni, mia nipote. Giochiamo a un tavolo del pub di Bud, sulla End Street. Il televisore è sintonizzato su un nuovo canale che trasmette notizie 24 ore su 24. Notizie dall’Iraq. Stiamo vincendo.
Se avanzo in C7, in due mosse sarà scacco matto. Lascio la presa, sposto un pedone in A4, che la partita duri più a lungo.
Sulla strada passa un carro funebre, altre auto lo seguono, tutte nere, tutte di grossa cilindrata. So di chi si tratta: John Mann. Un’onesta carriera di compositore a Hollywood e il desiderio di essere inumato accanto al fratello, morto di cancro alla stessa età di Sandy, nel ’49. Si chiamava Robert, una testa troppo grande per quel corpo magro, ti fissava sempre sorridente con i suoi occhi da albino e suonava il banjo. E per noi, che eravamo giovani in quegli anni, era conosciuto come il Re Marziano. Quel soprannome gli piaceva, e se era stato coniato per offendere, perse in breve tempo tale accezione negativa.
Regina in D6. Mi mette in difficoltà la piccola.
Ricordo quando i fratelli entrarono nell’emporio di Jack Prest, entrambi con un strumento a tracolla. Robert impilò sul bancone una dozzina di monete da un centesimo, ordinò una gazzosa, o “gaazzosaa” come la pronunciava lui, in quel modo tutto suo di prolungare la vocale “a”.
Jack gli restituì il denaro. “Oggi offro io”, disse. La reazione del ragazzo fu incredibile. Si scostò dal bancone spingendosi con le braccia, compì una mezza giravolta e al contempo imbracciò il banjo. Gli occhi grigi si illuminarono, ammiccò al fratello, che, sapendo cosa stava per accadere, era già pronto con la chitarra.
L’ambiente si riempì di musica. Accordi su accordi, note su note. Robert toccava e pizzicava le corde a una velocità impressionante con la stessa competenza di un professionista. John stentava a stargli dietro con la sua Fender. Il Re Marziano, che a fatica avrebbe scritto il suo nome su un foglio di carta, si rivelò un musicista fenomenale.
Torre in D2. Difesa a oltranza.
Il povero Robert non entrò più nel locale di Prest, né camminò per le strade polverose di Given. I medici non gli allungarono la vita, come era solito fare lui con le “a”.
Molti anni più tardi, John Mann inserì quello stesso brano nel film Deliverance*.
«Scacco Matto!» Sandy mi coglie di sorpresa. Quel viso pieno di lentiggini mi guarda compiaciuto. Eh già. Il mio pezzo più importante non ha vie di uscita.
Sconfitto, perché distratto da un altro Re.


*Un Tranquillo Weekend Di Paura.

di Zoni Gian Paolo, illustrazione di Mauro Speri

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