Il giorno in cui scattò la fotografia Tamara indossava un elegante cappotto con inserti di volpe argentata sul collo e sui polsini.
Era una grigia giornata invernale; l’umidità copriva il giardino e rendeva pesante l’aria. Aveva esitato prima di varcare l’alta cancellata di ferro brunito dalle punte lanceolate.
Non sorrideva: l’espressione tirata e sul viso un velo di malinconia. Alle spalle una villa liberty e un viale costeggiato da cespugli spogli.
La villa dei nonni, il luogo dei suoi giochi estivi di bimba, dei pomeriggi domenicali trascorsi nell’orto e dei Natali caldi che sapevano d’arrosto con le patate e di torta di mele. Amava quella casa e aveva sempre pensato che un giorno , proprio lì, lei avrebbe accolto i nipoti.
Erano passati tanti anni da quando aveva fermato quel luogo con uno scatto, come se temesse di perderlo o dimenticarlo.
Ricordava le ultime foglie gialle a terra che non si notavano nella fotografia in bianco e nero e, se chiudeva gli occhi, sentiva ancora il profumo di terra bagnata e di muschio. Poche settimane prima il crollo della borsa di Wall Street: il 24 ottobre 1929, passato alla storia come il “giovedì nero”.
Tamara ripensò ai nonni, contadini italiani emigrati alla fine del 1800 per cercare fortuna negli Stati Uniti, la Terra Promessa. Le sembrava di sentire ancora i racconti dei loro sacrifici per raggiungere un po’ di benessere da lasciare in eredità a figli e nipoti. E all’improvviso la crisi, il fallimento di banche, industrie e piccole imprese agricole che avevano investito tutto il loro denaro in macchinari moderni.
Le testate giornalistiche riportavano numeri spaventosi in caratteri cubitali neri: tredici milioni di disoccupati.
La voce di suo padre tremava: per fronteggiare i debiti non restava che ipotecare la “ casa di famiglia”, come ormai la chiamavano, simbolo concreto e visibile che ce l’avevano fatta. Sconforto e paura presero il posto di ottimismo e fiducia.
I ricordi di quegli anni scorrevano vivi mentre se ne stava seduta davanti al camino acceso con una scatola di vecchie fotografie sulle gambe. Le avrebbe mostrate l’indomani alla nipote, sempre pronta ad ascoltare le sue storie. Un brivido la scosse. Si alzò, ravvivò la fiamma e si affacciò alla finestra. Sorrise. Fuori era buio, ma la luce dei lampioni illuminava l’alto cancello di ferro brunito dalle punte lanceolate da cui partiva il viale che portava alla villa.

di Annarosa Confalonieri

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Caro papà, voglio vivere, o morire, combattendo… come tuo nonno in Africa a El Alamein al grido di Folgore, come i partigiani fucilati dai nazisti, come i rivoluzionari di Zapata per un tozzo di giustizia, come i contadini russi lanciati senza fucile contro il nemico a Stalingrado, come gli spartani alle Termopili, come Giulio Cesare tradito, come tutti gli uomini che avevano casacche diverse, ideali diversi, patrie diverse, come tutti gli uomini che mi hanno preceduto nella storia dell’umanità, voglio vivere e morire da uomo libero.
Sono passato per regioni gialle, arancioni e rosse. Ho attraversato confini, e ti assicuro che non tutte le terre sono omologate, come dicono i mass media. Dove mi trovo adesso la mascherina non la mette nessuno, e se qualcuno mi ordinerà di metterla ho un coltello nello zainetto. Giorgio, il mio grande amico, è con me. Abbiamo deciso insieme, dopo un anno di video chiamate. C’è anche Anna, la sua ragazza. Invece Laura, la Lauretta che ti era tanto simpatica, così rispettosa dei genitori del suo ragazzo, lei non ce l’ha fatta, aveva le lezioni da seguire per l’esame di maturità. Non so come andrà a finire, una cosa è certa: l’aria è fresca, e questo mi basta. Il destino è già scritto, e l’aria è fresca.
Caro papà, ti lascio ai tuoi telegiornali, alle attenzioni per la famiglia, allo smart working, ai decreti ministeriali, ai virologi saputelli, ai giornalisti leccapiedi, ai politici in cerca di voti. Sappi che ti voglio bene, la tua voce mi accompagna sempre, e le tue parole (ce la faremo, speriamo speriamo, il vaccino ci salverà…) mi spronano e danno coraggio. Le ho qui nelle orecchie. Non tornerò indietro a risentirle dal vero. Ti chiedo solo un favore. Non parlare più di guerra, non dire che stiamo vivendo una guerra. A Dresda in soli tre giorni sono morti innocenti tre volte tanto quelli di un anno intero in Italia per presunto covid19. E poi tutti gli altri sessanta milioni, fra dolori e atrocità.
Ti ho apprezzato l’ultima sera quando ti sei commosso ricordando il tuo collega morto d’infarto perché all’ospedale non c’era posto, e il figlioletto della vicina che non vuole più vedere gli amichetti e vive con lo smartphone in mano, e tutta quella gente depressa, quei suicidi che nessuno racconta, quelle storie di miseria e disperazione, di violenza famigliare. Quando hai espresso il dubbio che il nostro amministratore di condominio s’è preso la leucemia a causa dello stato di debolezza che il terrore del virus gli ha procurato, io avevo già un piede sulla porta per uscire, e mi sono fermato. Tu però hai acceso la tele saltando da un talk show all’altro. In quel momento ho risentito la voce virile del padre di quando da bambino mi dovevano operare alle tonsille, Coraggio figliolo, non temere… e così la tua mano mi ha sospinto fuori dall’uscio, verso la vita. Ho raggiunto gli amici.
Vogliamo vivere!

di Abramo Vane

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“Mancano le lamine di abete rosso”, la matita di Luigi si blocca a metà della conferma d’ordine. Il ragazzo delle consegne sospira “la tempesta Vaia ha spazzato via decine di ettari di bosco in Val di Fiemme. Ci vorranno settimane perché la legna arrivi”. Ma Luigi non lo ascolta più.
Izumi era entrata nella bottega il giorno prima. In città Luigi era noto per l’estrema cura dedicata a ogni strumento, paragonabile solo al suo carattere schivo. Era un uomo dal piglio deciso, in particolare quando l’estro creativo lo invadeva e una scintilla di pazzia gli balenava negli occhi. Trasalì nel vedere i tratti esotici e le labbra un po’ imbronciate della giovane. Dalla borsa di cuoio aveva sfilato alcuni spartiti e aveva eseguito l’Ave Maria di Schubert, con un suono trasparente, quasi liquido. Izumi gli aveva chiesto di realizzare un violino su misura per lei e si era proposta di partecipare per il laboratorio di Luigi al Concorso Triennale Internazionale degli Strumenti ad Arco “Antonio Stradivari”, l’Olimpiade della Liuteria. Luigi accettò, quel liquido si era fatto strada nella sua naturale diffidenza.
Data la scarsità di abete rosso,usato per i piani armonici, sceglie un legno più leggero, adatto a una ragazza esile come Izumi e studia antiche ricette di vernici. Solo due mesi e la competizione inizierà. Lavora duramente e, a una settimana dalla gara, l’opera è terminata.
Di Izumi, però, nessuna traccia. Dal loro primo incontro, non l’ha più rivista. La cerca al conservatorio, ma non risulta tra le iscritte. Prova allora nella biblioteca della scuola e consulta gli annuari dei diplomati. Ed ecco il suo il volto comparire tra le pagine consunte. Sotto la foto scorge incredulo l’anno dello scatto, 1978. Scopre poi che la ragazza era rimasta vittima di un incidente d’auto la notte precedente al concorso di quell’anno, a cui avrebbe dovuto partecipare.
La sera del concerto è arrivata, il salone si popola di abiti da sera scintillanti. Luigi ha un sussulto quando le note dell’Ave Maria di Schubert fendono la platea, e al posto della musicista ingaggiata all’ultimo, appare Izumi. La pelle candida, gli occhi socchiusi, la testa reclinata sulla mentoniera. Per tutta la durata della canzone lei è lì, dopo tanto tempo, avvolta dalle luci del palco. La sua voce danza nell’aria, libera, levigata in ogni dettaglio dalla lima di Luigi. Poi, l’ultimo suono si spegne, e nel locale riecheggia il tonfo del violino, privato del suo sostegno.

di Olga Riva Rovaglio

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Lo zoo è il parco preferito da Tony, mio figlio, ha dieci anni, oggi festeggiamo il suo compleanno con la giornata degli animali. Ogni anno visitiamo uno zoo diverso, questo è il terzo. Ha deciso che da grande farà il veterinario, vuole curare tutti gli animali feriti. La giornata è ideale: sole, cielo terso e leggera brezza.
Camminiamo lungo un sentiero che, secondo la mappa, ci porterà al lago degli ippopotami. E’ la prima volta che li vediamo. Ci raggiungono due ragazzi che corrono spaventati e urlano che è scappata la tigre e ha sbranato un custode. Corriamo anche noi verso l’uscita, mi preoccupo per Tony. Sbagliamo strada e arriviamo di fronte alla gabbia vuota. La situazione è spettrale, il corpo di un custode dello zoo giace martoriato, quello della tigre è poco distante, abbattuto da un sonnifero sparato da un altro custode che al nostro arrivo sussulta, punta contro il fucile e intima di girare al largo. Ha lo sguardo fisso su un’ascia per terra accanto alla gabbia. Non sanno se è scappata qualche altra belva. Andiamo in un capanno lì vicino e chiudiamo le porte, con noi ci sono i gestori e altri visitatori spaventati. Dopo due ore arriva la buona notizia, possiamo uscire dallo zoo e tornare a casa. Recuperiamo i nostri zaini, ripassiamo davanti alla gabbia della tigre e Tony mi dice… Guarda mamma, c’è una lente di ingrandimento su quell’albero, per cui avviso subito un responsabile.
Fuori dello zoo decidiamo di fermarci in una pizzeria, è stata una giornata pesante, partita per esplorare un parco e finita con il morto. Tony è molto eccitato, non vede l’ora di raccontare tutto ai compagni di scuola, invece io non vedo l’ora di andare a dormire. Il giorno dopo leggo sul Corriere che un custode dello zoo ha confessato l’omicidio. Il resoconto è dettagliato perché lo ha raccontato lui stesso. Ha legato un’ascia a un filo di paglia sopra la gabbia, poi ha posizionato una lente di ingrandimento su un ramo alto della quercia accanto. Ha aspettato mezzogiorno, nascosto fra le fronde dell’albero. A quell’ora il sole è alla massima altezza, il suo raggio attraverso la lente ha bruciato il filo di paglia a cui era legata l’ascia che ha tagliato la corda che assicurava la chiusura della gabbia della tigre. Il collega non ha neanche sentito avvicinarsi l’animale, ed è stato azzannato. Voleva ucciderlo perché era l’amante della moglie, e aveva studiato per mesi la posizione del sole. Un delitto perfetto.
Quando è tornato a casa ha trovato un biglietto della moglie che era scappata con un altro uomo.

di Laura De Filippo

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Lo chiamavano Nuvolari perché al volante era un asso.
Gli avevano cucito addosso quel soprannome da un momento all’altro, però gli piaceva, sapeva di cielo e di sogni.
Ironia del destino, guidava un’Alfa rossa come il grande Tazio. Se c’era qualcosa di cui non era a corto erano proprio i sogni; al contrario i soldi non bastavano mai.
Campava con un misero impiego da meccanico, eppure nessuno meglio di lui sapeva mettere a punto un motore.
Era successo anche con il quattro cilindri boxer di Corsaiola, la sua Alfa, capitata un pomeriggio sul ponte dell’officina.
Millesette, sedici valvole, centotrentasette cavalli, fu amore appena alzato il cofano.
Da quelle parti bazzicavano certi tipi loschi che organizzavano corse clandestine di automobili; aveva bisogno di soldi per mettere le ali ai suoi sogni e quella era la sua occasione.
Ben presto scoprì di avere talento per la velocità e conobbe l’ebbrezza della vittoria.
Di trionfo in trionfo la posta in palio cresceva, gli avversari si facevano più agguerriti e lui sempre un soffio più veloce di loro.
Decise di correre un’ultima volta, poi via per sempre in qualche posto esotico.
Un giro completo del Grande Raccordo Anulare in notturna sarebbe stata la sua ultima gara.
Partenza all’una da via della Magliana e ritorno, per il primo al traguardo un cachet da cento milioni di lire.
L’esplosione di due grossi petardi e le macchine schizzarono oltre la linea di partenza.
I motori ruggivano, affondò sul pedale giusto prima della rampa d’ingresso del GRA e si portò in testa.
Le auto si allargarono fra le corsie, il ritmo di gara scandito dallo slalom nel traffico della notte; lui al comando, gli altri all’inseguimento.
Casal Lumbroso, Aurelia, Montespaccato, nel retrovisore guizzavano i lampeggianti delle pantere: quella sera si giocava a guardie e ladri.
Boccea, Casal del Marmo, Trionfale, i fari degli inseguitori non mollavano, ma non riuscivano ad avvicinarsi.
Non gli bastava vincere, era la sua ultima gara e doveva essere un’apoteosi.
Settebagni, Bufalotta, Nomentana, mille pensieri in testa, persino quell’ex pilota che raccontava di vedere sempre una donna in abito scuro sul sedile accanto superati i duecento all’ora.
Diceva che era a causa di certe endorfine che produceva il cervello sotto stress. Schiacciò a tavoletta per lasciarsi tutti alle spalle.
Non si era mai spinto a tanto; l’anteriore sinistra non resse, il mozzo saltò e la macchina entrò in testacoda. La Donna fece scivolare le spalline del vestito e lo tirò a sé.

d Daniele Bin, illustrazione di Lucia Casavola

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Io sono il Nero. Le dita sporche di terra stringono la testa del cavallo. Osservo il Bianco. Occhi scuri come la madre, poco più alto di uno stocco di granturco ai primi di giugno. Sandy, dodici anni, mia nipote. Giochiamo a un tavolo del pub di Bud, sulla End Street. Il televisore è sintonizzato su un nuovo canale che trasmette notizie 24 ore su 24. Notizie dall’Iraq. Stiamo vincendo.
Se avanzo in C7, in due mosse sarà scacco matto. Lascio la presa, sposto un pedone in A4, che la partita duri più a lungo.
Sulla strada passa un carro funebre, altre auto lo seguono, tutte nere, tutte di grossa cilindrata. So di chi si tratta: John Mann. Un’onesta carriera di compositore a Hollywood e il desiderio di essere inumato accanto al fratello, morto di cancro alla stessa età di Sandy, nel ’49. Si chiamava Robert, una testa troppo grande per quel corpo magro, ti fissava sempre sorridente con i suoi occhi da albino e suonava il banjo. E per noi, che eravamo giovani in quegli anni, era conosciuto come il Re Marziano. Quel soprannome gli piaceva, e se era stato coniato per offendere, perse in breve tempo tale accezione negativa.
Regina in D6. Mi mette in difficoltà la piccola.
Ricordo quando i fratelli entrarono nell’emporio di Jack Prest, entrambi con un strumento a tracolla. Robert impilò sul bancone una dozzina di monete da un centesimo, ordinò una gazzosa, o “gaazzosaa” come la pronunciava lui, in quel modo tutto suo di prolungare la vocale “a”.
Jack gli restituì il denaro. “Oggi offro io”, disse. La reazione del ragazzo fu incredibile. Si scostò dal bancone spingendosi con le braccia, compì una mezza giravolta e al contempo imbracciò il banjo. Gli occhi grigi si illuminarono, ammiccò al fratello, che, sapendo cosa stava per accadere, era già pronto con la chitarra.
L’ambiente si riempì di musica. Accordi su accordi, note su note. Robert toccava e pizzicava le corde a una velocità impressionante con la stessa competenza di un professionista. John stentava a stargli dietro con la sua Fender. Il Re Marziano, che a fatica avrebbe scritto il suo nome su un foglio di carta, si rivelò un musicista fenomenale.
Torre in D2. Difesa a oltranza.
Il povero Robert non entrò più nel locale di Prest, né camminò per le strade polverose di Given. I medici non gli allungarono la vita, come era solito fare lui con le “a”.
Molti anni più tardi, John Mann inserì quello stesso brano nel film Deliverance*.
«Scacco Matto!» Sandy mi coglie di sorpresa. Quel viso pieno di lentiggini mi guarda compiaciuto. Eh già. Il mio pezzo più importante non ha vie di uscita.
Sconfitto, perché distratto da un altro Re.


*Un Tranquillo Weekend Di Paura.

di Zoni Gian Paolo, illustrazione di Mauro Speri

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È pomeriggio e la pioggia di novembre cade fitta.
La meta si avvicina, trascino il bagaglio a fatica; si è fatto pesante giorno dopo giorno, immagini volti suoni e sensazioni, non ho saputo buttare via nulla.
Era leggero, il giorno della partenza: nella luce abbacinante della sala parto tra sorrisi e qualche lacrima, era lì, pronto proprio per me. Un respiro profondo, un urlo da combattente e ho afferrato la bisaccia: sembrava vuota, eppure c’era già tutto. Era stato facile partire, una passeggiata senza una destinazione, una spiaggia soleggiata, il fruscio delle onde, e l’abbraccio di mia madre.
Non sapevo ancora quanto fango avrei trovato sulla strada, quanti scogli avrebbero deviato il mio cammino, quanto fosse lunga la notte e freddo l’inverno. Ora lo so.
Riconosco gli scalini in pietra, i lecci sbattuti dal vento e il rumore delle onde che si schiantano sulle rocce. Sono stanco, ma sorrido: eccomi a casa. Il profumo salmastro del mare mi avvolge, vorrei un ultimo respiro, ma non posso e ho paura.
Cerco il sorriso di Marisa che dai tempi del liceo ha illuminato il mio percorso. So che non c’è più: l’ho spento per sempre la notte in cui ho confessato il tradimento. Sparite in un attimo le risate, dimenticata la mano che accarezza i capelli, le giornate di sole, i sogni; è rimasta una smorfia di dolore, un macigno senza assoluzione.
Mi avvicino alla piccola folla che mi guarda, i volti tesi, qualcuno piange: sono Martina e Alessia, belle e severe come la loro mamma, sparite ancora ragazzine dietro la porta di casa sbattuta con determinazione, mute al telefono e insofferenti durante le squallide cene a cui le obbligavo. Un tempo consolavo i loro pianti di bambine, scacciavo i mostri della notte, curavo con un soffio le piccole ferite; oggi le loro lacrime silenziose potrebbero scaldarmi il cuore se non fosse ormai gelato, immobile.
La sacca consunta striscia sui sassi; vorrei fare ancora qualche passo, ma gli arti spezzati dalla caduta sono rigidi e non ho le scarpe. Nei lunghi mesi della malattia, chiamavo Tonya l’infermiera e le chiedevo di portarmele, ma i piedi erano ogni giorno più gonfi, e le tenevo in grembo, simbolo di una fuga ancora possibile. Le avevo con me la sera in cui mi ha sorretto fino alla terrazza dell’ultimo piano, e mi ha lasciato lì sotto il cielo stellato con la coperta sulle spalle. Le ho appoggiate con cura sul parapetto, non servono scarpe per volare.
Appoggio il bagaglio sulla terra smossa di fresco, sul travertino bianco posato lì vicino, il mio nome.

di Alessandra Stifani

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“Peggio di così non poteva andare” disse il capobarca sistemandosi sullo scoglio per riprendere fiato, aveva perso tutto: la barca e la merce. Anni di fatiche per crearsi un piccolo benessere, era sparito in quella strana notte, gli era rimasta la vita, ma in quel momento non sapeva se esserne contento o meno. Dopo essersi accostati alla motonave, trasbordato il carico e pagato la merce, un’operazione facilitata dal mare calmo, avevano ripreso la via del ritorno. Erano a poche miglia dalla costa, il faro ben visibile, erano in tre, tutti esperti di quel tratto di costa insidiosa, ma era successo qualcosa che aveva sconvolto i loro piani.
Erano certi che fosse andato tutto bene, poi, all’improvviso, le onde presero ad arricciarsi, i mulinelli a gonfiarsi, la corrente diventò quasi una tromba marina, sollevò la barca nel vortice e la scagliò sopra quelle schegge di rocce conficcate in mare che conoscevano ed evitavano sempre con cura: la barca fu tagliata a metà, il carico scivolò in mare e loro nuotarono nell’acqua gelida per salvarsi la vita.
Il mare non è mai buono, prima o poi te la fa, per quello ora erano lì, su quello sperone di roccia a due miglia dal faro e quattro dalla costa, la stessa roccia che a fine Ottocento era stata scelta per costruirvi il faro, e dopo una mareggiata che aveva affondato la nave e ucciso gli operai addetti alla costruzione, il progetto fu abbandonato e chiamarono quella zona “punta maledetta”. Erano in buone condizioni. Qualche ammaccatura, ma non avevano subito danni. La marea stava scendendo e metteva a nudo le punte delle rocce emergenti, fra quelle videro qualche oggetto sbalzato fuori dalla barca, li recuperarono, potevano servire.
La luna piena li guidava, li raggiunsero e li portarono su quella che era stata la base abbandonata del faro: bottiglie con lacqua, scatole galleggianti sparsi qua e là. Poi si stesero sulla piattaforma immersi nei propri pensieri. Era la terza volta che caricavano merce di contrabbando, una vita da persone oneste fino a quando erano stati tentati e si erano detti “perché no?”, molti lo fanno, facciamolo anche noi. Era andata male. Come tornare a terra? Ondate lunghe si precipitavano sugli scogli. La marea stava salendo e il linguaggio del mare si faceva più possente e fragoroso. Pensarono alle famiglie, agli amici, come giustificare quel naufragio? Non c’era un motivo per trovarsi in mare di notte in quella zona. Tutti avrebbero capito che avevano fatto del contrabbando, la vergogna li travolse.
Il rumore di un elicottero li svegliò, il sole era già alto, sventolarono le magliette, furono visti, gli fecero cenno che sarebbero tornati a prenderli. Giurarono di non parlare del carico, era in fondo al mare, avevano pagato per la loro stupidità, avrebbero detto che erano usciti a pescare, improbabile ma non impossibile.
Erano vivi, ripartivano da zero, la vita continuava.

di Elda Caspani

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Se ne sta lì davanti a me di spalle, ha la luna storta. “Io vado a fare un giro”, dico, “hai bisogno di qualcosa?” Nessuna risposta, e senza guardarmi si dirige verso la sua stanza tutta impettita e con gli occhi quasi chiusi per evitare i miei. E inciampa nel tappeto! Mi lancio per sorreggerla ma lei si scosta e urta la libreria: “Guerra e Pace”, già in precario equilibrio, cade a terra con un tonfo sordo. Non riesco a soffocare una risata. Apriti cielo! Entra in camera sua, chiude sbattendo la porta e sancisce così aperte le ostilità.
Mia sorella! Da quando mi ha invitata a passare un po’ di tempo insieme ogni giorno è una battaglia. All’inizio mi trattenevo, ma lei è insofferente nei miei confronti perché, nonostante l’invito, le dà fastidio avermi tra i piedi in casa sua, allora io divento cattiva e ribatto su tutto. Insomma, un tormento.
È stato così fin da bambine. Giocavamo insieme ma finiva sempre che litigavamo per storie di bambole e bambolotti e giù parole a non finire. Seguivano ore di bronci e mutismo. Poi la sera a letto, nella stessa camera, facevamo pace e il giorno dopo si ricominciava. Con l’adolescenza ci fu una tregua. Io ero ancora bambina quando lei dava già i primi baci e fumava sigarette di nascosto dai nostri genitori. Fu lei che mi instradò al vizio… veramente fui io a insistere in modo ossessivo fino a che una sera cedette e fumai la mia prima sigaretta, d’inverno davanti alla finestra spalancata per via dell’odore di fumo, un freddo cane! Ricordo che mi girò la testa. Ah, ma le liti non erano ancora finite. Lei studiava pianoforte e passava i pomeriggi a ripetere e ripetere sempre gli stessi pezzi o, peggio, le scale per allenare le dita. Nella camera accanto io friggevo. A pensarci ora mi viene da sorridere.
Intanto fuori si è fatto buio, accendo la lampada a stelo e una luce calda invade la stanza. Accanto allo stereo un CD attira la mia attenzione, lo inserisco nella fessura.
Il pianoforte è padrone della scena, la musica impregna l’aria e si espande in tutta la casa. Mi adagio in poltrona e mi godo la meraviglia quando lei entra nella stanza. Lascio che si sbilanci per prima, e lo fa: “CLAIR DE LUNE, DEBUSSY, dolce come il miele!”
Eccome, non lo sapevo?, penso, ma sto zitta. “Non sei poi uscita?”, dice.
“No, non ne avevo più voglia”. “Ho fatto il tè” e dopo aver appoggiato il vassoio con la bevanda fumante sul tavolino si siede nella poltrona davanti a me e mi sorride: “Un biscottino?”
Il cielo è limpido e la luna si è raddrizzata.

di Ester Tognola

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Bau-bau, faceva sempre Storm, e Storm non era un bambino che imitava il verso del cane, Storm era un cane che voleva essere bambino e, come cane, non era poi tanto giovane, anzi ormai era più vecchio che giovane, però giocava ancora come un cucciolotto, e del bambino gli era rimasto l’animo buono, e così papà Egisto tolse dal cancello quell’avviso che diceva attenti al cane, non corrispondeva al vero, e infatti Storm non avrebbe fatto del male a nessuno, e se fossero arrivati i ladri avrebbe giocato con loro, era un tipo così, voleva solo giocare, era generoso e simpatico con tutti ma con papà Egisto aveva un rapporto speciale, e si è scoperto che papà Egisto leggeva i suoi pensieri, e questo non lo aveva rivelato a nessuno, lo ha detto solo ora, e papà Egisto non è una donnetta che vive sola e parla con il cane, lui è un professionista serio e se ha detto una cosa del genere vuol dire che davvero Storm aveva dei pensieri e lui li leggeva, e in fondo non è una cosa poi tanto assurda, è certo infatti che gli scienziati di energia vitale e di amore non hanno mai capito tanto, e anche se non vogliono ammetterlo, semplicemente non è la loro materia… e a Storm, come a ogni cane lupo, piaceva correre nel vento, ma del vento aveva anche paura, e questo era molto strano per un cane, e non però per un bambino, e quando c’era vento scappava via, e un giorno che papà Egisto andava con la famiglia in città vide un’automobile con il portellone aperto e un cane lupo che ci stava salendo, e disse… guardate, quello sembra Storm… è vero, dissero tutti, ma si corressero subito… ma quello non sembra, quello… è Storm! E lo riportarono a casa, e scene di questo tipo accaddero in continuazione, una volta lo ritrovarono che correva sull’autostrada, un’altra volta era scappato nel bosco, fino all’ultima, quando se ne è andato col vento, come aveva sempre detto di fare. Ciao, Storm, ciao eterno bambino.

di FMK, foto di Leonardo Pigoli

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