Sono giornalista, e vivo di parole. Scritte, ma non solo, dato che sempre più spesso mi chiedono di fare l’opinionista nei talk show serali. E la cosa che non sono mai riuscito a sopportare (un vero paradosso per uno come me) è quando non mi vengono.
Uno potrebbe pensare che è una cosa che succede, che non ne devo fare una tragedia, ma essere privato del mio strumento è come levare la bicicletta ad un campione del Giro d’Italia. Una menomazione. Ogni tanto, nei momenti meno indicati, non riesco a trovare la parola giusta. Mia moglie cerca di aiutarmi, e spesso la cosa si trasforma in scenette piuttosto ridicole, con me che cerco di spiegare cosa vorrei dire e lei che cerca di indovinare. E quasi mai ci riesce.
Mi capitava spesso anche quando ero piccolo. Allora c’era mio nonno che arrivava in soccorso e a volte riusciva a capire quale era la parola che non trovavo. Un giorno eravamo nel suo studio, e mi dice sai Francesco, in realtà non è colpa tua se ogni tanto le parole non ti vengono, perché questo succede quando vicino a te passa il ladro di parole. E chi è, nonno? E’ un bambino curioso, invisibile, che se sente qualcosa di interessante…oop! ti ruba la parola e tu rimani come un fessacchiotto. Ma il suo lavoro non finisce qui. Una volta a casa, in una delle nuvole più alte del cielo, il ladro di parole completa il suo esercizio, ed elimina quelle brutte, e quelle che lui non vorrebbe mai sentire. E allora comincia a fare la cernita. Guerra, la butto. Fame, non la voglio vedere. Violenza, via nel cesso. Sfruttamento dei bambini, la distruggo. Alla fine tiene da parte solo quelle che assieme possono costruire un racconto bello, e pieno di promesse.
Questa del ladro di parole divenne una favola familiare, anche quando mio nonno, ormai passati i novant’anni, cominciò a sragionare. E quando la domenica a tavola circondato da figli, nipoti e pronipoti non riusciva più a parlare bene tutti, anche i più piccoli, gli dicevano nonno, nonno, non ti preoccupare, sta passando il ladro di parole…
Un giorno di Dicembre – mancava poco a Natale – mi chiamarono al giornale. Nonno era vicino alla fine, anche il medico non sapeva più cosa fare. Passai la notte accanto a lui, e mi raccontava cose senza un filo logico, ormai perso nella sua dimensione. Verso mezzanotte, mentre gli stavo rimboccando le coperte, si sollevò e gli si illuminò il viso. Guardò verso l’alto e mi disse France’, France’, è arrivato il ladro di parole, mi deve fare il suo discorso…poi rimase così per qualche istante, come se ascoltasse qualcuno. Si adagiò sul guanciale, e lasciò questo mondo con uno dei suoi sorrisi migliori.
Il ladro di parole esisteva davvero.

di Gianluca Fiore

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Ed erano passati davvero tanti anni, e non sembrava, ma erano trenta, e come capita in queste circostanze c’era stato uno che si era preso la briga e aveva fatto le convocazioni, e così quella sera ci trovammo come i reduci di un’impresa, e l’impresa non era quella di avere tanti anni prima superato un esame di maturità, ma l’impresa era proprio quella dei trent’anni che erano seguiti, e questo lo capimmo appena ci vedemmo, e io, tranne Sorbaro che lo vedevo quasi tutti i giorni, il Fassi e la Binda che pure qualche volta li incontravo, per gli altri erano trent’anni che non vedevo quelle facce e quei corpi, e riconoscerli non era poi tanto facile, c’erano dentro l’essere e il divenire, e a parte gli inevitabili ricordi, quello a cui pensavo quella sera erano quelle mie compagne di scuola che avevano partorito nuove vite, e mi sembrava la cosa più incredibile, e guardandole le vedevo in quel momento, e certo non come era veramente stato, ma come io mi immaginavo, e non erano i figli in sé o la retorica della famiglia a interessarmi, e i figli poi li ho sempre ritenuti un’illusione, no quello che mi impressionava era proprio l’atto di quelle ragazze che erano diventate donne… e poi la sera era passata come una delle tante, e il più simpatico fu Muser quando tirò fuori da tasca il foglietto con il compito di matematica che la Marika gli aveva passato trent’anni prima, e lo teneva con due dita come una reliquia, e diceva… questo è il tassello senza il quale io avvocato non lo diventavo, e aggiungeva che tutte le volte che trovava un insegnante gli diceva mi raccomando, li lasci copiare quei ragazzi, non faccia loro mancare nessun tassello che li può condurre oltre, e altre sorprese mi attendevano, inaspettate, quella sera, e molte rimasero inespresse, e me ne tornai a casa felice ma sgomento, consapevole della mia pochezza, perché mi apparvero i limiti dello scrivere, e tutte quelle pagine, tutti quei romanzi che avrei voluto e potuto scrivere, in realtà erano già stati scritti.

di Fiorenzo Croci

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Di Francesco Cappellani

Nella tarda estate del 1943, a causa dei bombardamenti degli americani sempre più insistenti sulla ferrovia del Brennero, dove transitavano gran parte dei convogli militari tedeschi, ed anche su Verona, la città dove abitavamo, mio padre riuscì a trovare a Sommacampagna, un paesino a circa tredici chilometri dalla città, alcune stanze a pianterreno ed al primo piano di una grande villa, attualmente patrimonio del FAI, dove sfollare per vivere in condizioni di maggiore sicurezza. La villa era situata in un parco vastissimo dove noi ragazzi potevamo correre a perdifiato senza pericoli e controlli. Il complesso apparteneva ad una coppia di industriali milanesi senza figli che abitavano nell’ala centrale dell’edificio. In un’ala laterale erano alloggiati alcuni alti ufficiali tedeschi, mentre un solitario colonnello della Wehrmacht abitava in una camera vicina alla cameretta dove dormivo io. Questo ufficiale parlava ottimamente l’italiano in quanto credo fosse originario dell’alto Adige; d’altra parte, dopo il 1943, molti militari italiani del sud Tirolo che parlavano correntemente la lingua tedesca, erano confluiti sia nella Wehrmacht che nelle SS. Ad esempio altoatesini erano i ragazzi del battaglione SS Polizei “Bozen”, morti nell’attentato di via Rasella a Roma nel marzo del 1944. Il colonnello, un omone corpulento e pacioso, scambiava ogni tanto qualche rara parola con me (io nel 1943 avevo otto anni) e ricordo che una volta mi fece entrare nella sua camera per mostrarmi e descrivere le armi che possedeva. Troneggiava una baionetta da parata col pomolo a becco d’aquila ed il manico istoriato con un’aquila che sormontava la croce uncinata circondata da una corona d’alloro, e una pistola Luger, un oggetto stupendo per meccanica ed estetica che aveva eccitato in me, dotato di una pistola ammaccata di latta, un desiderio irrefrenabile di possesso. Non capivamo bene quali compiti avesse questo ufficiale e francamente cosa facesse tutto il giorno in quanto stava spesso chiuso per ore in camera.

Intanto la guerra proseguiva implacabilmente, a sera ascoltavamo a bassissimo volume Radio Londra e quasi ogni giorno stormi compatti delle gigantesche “fortezze volanti” (i B24 Liberator) americane oscuravano il cielo bombardando in particolare l’aeroporto militare di Villafranca distante pochi chilometri da noi. Dopo l’8 settembre 1943, a seguito dell’invasione tedesca, l’aeroporto era stato notevolmente potenziato con una pista in cemento di quasi tre chilometri con hangar e depositi di materiale militare che arrivavano vicino all’abitato di Sommacampagna.

Ci fu un intenso bombardamento alleato il 12 ottobre 1943 ed un altro, che colpì parzialmente anche Sommacampagna, il 26 agosto 1944 con la distruzione di alcuni obiettivi militari. La Luftwaffe aveva schierato nell’aeroporto sia caccia tipo Stukas che grossi bombardieri Junker; l’aeroporto venne in seguito completamente distrutto dai bombardamenti degli alleati e dai soldati tedeschi prima di fuggire verso il nord. Per me, come per gli altri ragazzini del paese, il momento magico era la fine delle incursioni annunciata dal suono cupo delle sirene; allora ci scatenavamo nei prati alla ricerca di oggetti bellici soprattutto schegge di bombe e bossoli di ogni dimensione. Ne trovavamo in grande quantità e li mercanteggiavamo con i figli di altre famiglie sfollate.

Con l’incoscienza tipica dell’infanzia, la guerra, soprattutto durante i bombardamenti notturni quando i colpi delle batterie antiaeree, i fasci di luce dei fari, i luminosissimi bengala, i lampi accecanti delle bombe e degli spezzoni incendiari, riempivano l’immenso schermo del cielo, era vissuta da noi come uno spettacolo terribile ma affascinante. Vivendo in campagna non si avvertiva una reale penuria di cibo, c’era latte in abbondanza, mancavano completamente i salumi e ogni tipo di dolciume per la carenza di zucchero e particolarmente l’adorato cioccolato. Ma nel giugno del 1944 avvenne un fatto per me memorabile per la gioia che provo ancora oggi a ricordarlo. Studiavo in casa con un mite e bravissimo professore che mi preparava per l’esame di ammissione alla quinta elementare da dare da esterno nella scuola di Verona che non avevo potuto frequentare. A metà giugno del 1944, dovendo recarmi a Verona a sostenere l’esame, mi ero alzato di buon’ora in quanto il mezzo per andare in città era costituito dalla canna della bicicletta dello stradino di Sommacampagna, un buon uomo di mezza età, che si prestava, sbuffando come una locomotiva appena la strada pianeggiante presentava anche una minima salita, ad accompagnarmi pedalando fino alla scuola e poi, ad esame concluso, a riportarmi in paese.

Il colonnello altoatesino mi vide mentre mi appollaiavo, con tanto di cartella, sulla bici dello stradino e mi chiese dove fossi diretto. A sostenere l’esame, gli risposi, e speriamo che vada tutto bene. L’omone mi fece un sorriso e mi promise, se fossi stato promosso, una scatoletta di cioccolato che loro, come ufficiali della Wehrmacht, avevano modo di reperire. Mantenne la promessa, mi regalò una scatoletta circolare di latta, che conservo ancora gelosamente, con scritto sul bordo del coperchio “Scho-ka-kola – die Stärkende Schokolade” (- il cioccolato rinforzante) e sul retro “Wehrmacht-Packung. Hildebrand – Berlin” e la composizione dettagliata dei cento grammi di prodotto che includeva caffeina e cola. Sicuramente era un cioccolato energetico ed eccitante, da… “combattimento”. Per me fu il cioccolato più buono che avessi mai mangiato in quegli ultimi due anni di guerra, solo poi con l’arrivo degli americani nella primavera del 1945, ritornò sulle nostre tavole questo “cibo degli dei”. Avvicinandosi gli alleati, nei primi mesi del 1945, improvvisamente il colonnello scomparve lasciando armi e divise nella sua cameretta. Sembra che si fosse travestito da prete, aveva un po’ il fisico e l’aria bonaria da pretone di campagna, ed avesse intrapreso una fuga verso l’Austria. Non sapemmo più nulla di lui.

Recentemente, mostrando alle mie nipotine quella scatoletta di latta ho fatto molta fatica a spiegare cosa avesse rappresentato per me in quegli anni quel po’ di cioccolato; mentre raccontavo mi accorgevo sempre più che parlavo di cose troppo diverse dal loro mondo e dalla vita di oggi, per loro era una storia lontana, remota, che non riuscivano ad immaginare vissuta da una persona ancora lì presente con loro!

Di Francesco Cappellani, che gentilmente ha chiesto di essere pubblicato sul sito dell’Associazione IL CAVEDIO


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Silvano fece il discorso più lungo della sua vita un martedì d’inverno, dopo il tramonto, mentre la luce viola trasformava il cielo. Aveva iniziato a parlare alla ragazza d’impulso, senza potersi trattenere. I suoi capelli erano così lucidi. Dovevano essere morbidissimi ma non aveva ancora osato toccarli. Era un discorso d’amore, senza pudore né esitazioni, aldilà della timidezza che l’aveva sempre attanagliato davanti alle donne incontrate. Molte lo avevano colpito al cuore. Qualcuna gli era piaciuta alla prima parola pronunciata dalle labbra rosse sfrontate o perché gli occhi sfuggivano all’incontro con i suoi, di una aveva amato il vederle compiere gesti banali, come salutare con la mano, per altre era stato un movimento con la testa, una risata squillante a conquistarlo. Ma non lo aveva mai detto, a loro. Poche volte aveva pensato con speranza a un contatto, alla nascita di un amore. Era sempre scappato impaurito, talvolta senza neppure dire il suo nome. Era giovane e non era brutto, ma per la gente era come se fosse senza età e peso, senza colori e presenza. Tutti lo sfioravano ma non si accorgevano di lui. E lui si teneva lontano dagli altri, preferiva il silenzio, la solitudine e il lavoro, il suo rifugio. In quel luogo prendeva vita e acquistava sicurezza, si muoveva disinvolto tra gli strumenti del mestiere, annusava con un brivido il profumo dei fiori e del legno. Compiva i gesti che servivano con competenza e precisione. Quel martedì, finalmente, lì, aveva incontrato l’amore. Una specie di euforia l’aveva colto appena aveva visto la ragazza e dopo qualche prima parola impacciata non si era più fermato. Le aveva raccontato mille cose, parlato dei suoi gusti, narrato le sue storie, i sogni, l’intera vita. Senza che si accorgessero era sceso il crepuscolo ma erano rimasti uno di fronte all’altra. Lui non aveva neppure acceso la luce nella stanza. Lei aveva gli occhi come le acque di un lago, tranquilli e profondi, i lineamenti dolci, la pelle bianca e liscia. Le mani eleganti. Era vestita di seta. Sembrava venuta da un altro mondo, con il suo silenzio. Era morta. Quando finì la dichiarazione d’amore Silvano iniziò con dolcezza a massaggiarla con la cera modellante, poi passò un velo di crema per reidratarla, le pennellò il viso con il fondo tinta, le chiuse gli occhi e le diede un lieve bacio sulle labbra fredde.

di Angela Borghi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Se metto a fuoco il bosco di aceri più a sud, il ferro sbiadisce, indistinto, poi scompare.
Mi chiamo Jack London. Già, come lo scrittore. Vivevo a Maville in Ohio, ho trascorso lì gran parte della mia esistenza. Possedevo una casa, un cane, a cui ho avuto il buon senso di affibbiargli il nome di Prince, e una moglie, Vera. Abbiamo condiviso quasi trent’anni insieme, c’erano giorni buoni e, come è giusto che sia, giorni meno buoni. Questi ultimi li ricordo poco.
Mia moglie diceva che al mondo ci sono solo due modi per fare una torta ai mirtilli come si deve, il suo e quello degli altri. Non ho mai avuto cuore di dirglielo, ma la sua era immangiabile. Aggiungeva zenzero e peperoncino, in pratica il sapore di mirtillo spariva sepolto dai forti aromi delle due spezie.
Quella volta che sua cugina Cea di Fresno venne a trovarci, Vera si cimentò nella sua originale preparazione. Le gironzolavo intorno, consigliandole di andarci piano con gli ingredienti, che forse i suoi parenti avrebbero preferito qualcosa di più tradizionale, magari una cheesecake. Mi fulminò con lo sguardo. «Jack London!» Mi apostrofò. «Vai a farti un giro da Mobs, e non tornare prima delle cinque». E così feci, indossai il mio giaccone, il cappello e misi il guinzaglio al vecchio Prince.
Quando rincasai, Cea era già arrivata con suo marito. Cenammo, e fu una serata piacevole. Poi Vera si alzò, e con un’enfasi che non le riconoscevo, disse: «E ora la torta!»
Tornò con un vassoio, lo posò al centro del tavolo, e, con precisione chirurgica, tagliò sei fette. Le mise nei piattini da dolce e le servì. Io mangiai la mia porzione al solito modo: pezzi piuttosto grandi, masticazione quasi assente e ad ogni boccone un sorso cospicuo di birra. Potrei mangiare bocconcini di carne per il cane con quel sistema. Gli ospiti invece apprezzarono. Ne fui sollevato e felice.
Quando si ammalò, non me ne accorsi. Per me era sempre la solita Vera. Sì, ogni tanto si dimenticava dove metteva le cose, ma a quanti succede? Poi peggiorò. Come una giornata di luglio, soleggiata, qualche nuvola, un po’ di pioggia, prima lieve poi sempre più forte, gli scrosci e infine la grandine.
Trovai la lettera nell’armadietto del bagno, dietro la schiuma da barba. La data indicava due settimane prima. Iniziava con “Se mi ami”.
La notte del 2 marzo 2004 uccisi mia moglie con cento gocce di Gradol.
Il bosco di aceri è ancora lì. Ora di definito c’è il ferro rugginoso delle sbarre. Mi volto verso la porta di metallo. La foto di Vera mi osserva. Ancora le sue parole, “Non voltare le spalle alla vita”. Ci sto provando, ma è così difficile, amore mio.

di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Mauro Speri

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Robert D si voltò. Nessuno lo osservava. La stanza del museo era vuota e nell’incavo del muro una scalinata portava al piano inferiore. Ritornò a fissare quella fotografia appesa al muro: un uomo di spalle percorreva un viale in un parco.
Cosa lo attraeva di quello scatto? Quali particolari lo rendevano così famigliare? La camminata nella solitudine? La bellezza del parco? E se al posto degli alberi slanciati ci fossero state delle case colorate?
La testa china verso il basso era indizio, ricerca di qualche pensiero, impronta lasciata sulle foglie. E allontanava sempre più l’eventualità di uno slancio, una furbizia improvvisa, un movimento tale da smascherare chi lo osservava.
Sapeva il fotografo di chi era quel corpo celato da vestiti da viandante?
E sequestrato quel momento, cos’era successo in seguito?
Dite che ci sia un ritrovo verso cui siano dirette tutte le persone ritratte solitarie in cammino?
Oltrepassato il muro, dov’è appesa l’opera, c’è forse ad attenderli una partita a carte in compagnia?
Robert D uscì dalla mostra e si incamminò tenendo d’occhio le domande.
Giunse in un viale in terra battuta, immerso nel verso, con grandi alberi e fitti cespugli. Lo percorse con attenzione, tendendo le orecchie a ogni rumore e voltandosi in prossimità di una curva.
Ritenne il luogo perfetto. Sedette su una panchina e aspettò un individuo camminante.
Nessuno passò, tranne gli istanti che senza mai fermarsi continuavano a fare il giro del parco.
Gli attimi non lo potevano osservare, ma solo attraversare.
Allora estrasse la macchina fotografica, la poggiò su una balaustra e mise un autoscatto tanto lungo da poter percorrere con tutta calma il viale. (È una splendida illusione quella di raggiungere il tempo).
Vedendosi di spalle nel piccolo schermo della sua reflex, pensò che era esaminato da se medesimo dunque osservatore e osservato. Eppure c’era qualcosa di se stesso che gli era sfuggito via.
Robert D concluse: “Se catturo un soggetto solo, faccio in modo che non lo sia più? La compagnia che gli dono non è forse un’effimera preghiera da voyeur? Lui cammina e sparisce. Io stampo un suo doppio che passerà di sguardo in sguardo su una strada di pellicola. Se si fosse girato, nell’attimo dello scatto, tutto sarebbe cambiato. Ci saremmo incontrati. Quanto mi piacerebbe fotografare un viandante che, voltandosi, mostrasse il mio volto, il mio io.”

di Paolo Negri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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A scuola lo chiamavamo Iena ridens. Se ne stava all’ultimo banco, capelli attorcigliati, denti verdi, orecchie e unghie sporche. Puzzava già di par suo e in più faceva partire loffie incredibili, per le quali veniva anche chiamato il loffione, e di soprannomi ne aveva un’infinità, da sorcio in avanti, e ve li lascio immaginare… Aveva un cognome che proprio non ricordo, finiva per u, ma per noi era solo Iena ridens e dicevamo… che cazzo ha da ridere sempre. Il primo mese nei corridoi non si parlava d’altro, poi fu dimenticato, là in fondo alla classe, e anche i professori, dopo qualche interrogazione nella quale scoprirono che era intelligentissimo e imparava solo stando seduto ad ascoltare, preferirono lasciarlo nel suo fetore, lontano. Solo la nuova professoressa di scienze, una terrona con i denti all’infuori e le gambe storte, lo interrogava, e anzi finì che interrogava solo lui, perché i due se la intendevano in quella materia, e lui era veramente un mostro e ne sapeva almeno quanto lei. Una domenica in primavera feci una passeggiata a Milano con la mia ragazza e al parco li vidi insieme, seduti su una panchina, mano nella mano. Non ci credevo, e siccome ero un adolescente pronto a qualsiasi scherzo per ridere degli altri incominciai a tramare, e presi informazioni sulla prof, ma quando scoprii che in un solo giorno aveva perso i genitori e l’unico fratello in un incendio, mi diedi del coglione e per espiare scrissi una poesia intitolata Cuori solitari che si incontrano, o qualcosa del genere, e non dissi mai a nessuno quello che avevo visto, nel terrore che la notizia finisse sui giornali, con titoli del tipo professoressa quarantenne aspetta un bimbo da alunno minorenne. All’inizio dell’anno successivo né l’una né l’altro si presentarono a scuola, e in quei giorni la polizia era sempre in presidenza, e un giorno la notizia finì addirittura in televisione, perché il sospetto era che il corpo di donna trovato in un bosco senza la testa fosse quello della professoressa di scienze. Iena ridens intanto era tornato a vivere al paese, fra pecore e capre, e non ha mai saputo, a oggi, di condividere il suo atroce segreto con me.

di Riccardo Ventolin, illustrazione di Renato Pegoraro

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Lisa è una bambina curiosa, sempre intenta a fare qualcosa. Quel giorno si stava annoiando, era irrequieta. Decisi di portarla al parco per distrarla.
Abitavamo a metà collina e in basso, oltre la piazza, c’era il parco. Scendevamo chiacchierando, poi Lisa si divincolò e prese a correre. Era felice, non c’era in giro nessuno, non c’erano pericoli.
All’improvviso tutto cambiò: giù nella piazza un’auto l’attraversò veloce sgommando inseguita da due auto dei carabinieri.
Dissi a Lisa: “fermati”. Ma lei si girò e impertinente, da monella qual era, fece con le mani uno sberleffo. Le auto si fermarono con uno stridio di freni e dall’auto scese velocissimo un uomo e cominciò a correre verso di noi per sfuggire agli inseguitori. Dietro i carabinieri presero a rincorrerlo.
L’intenzione dell’uomo parve subito evidente: raggiungere la bambina e prenderla in ostaggio, lei andava spensierata nella sua direzione. Urlai con voce autoritaria “Lisa fermati”. Si fermò, si voltò, mi guardò incerta, quella voce non la conosceva e la mia faccia era terribile, non sorridevo più.
L’uomo continuava a correre e anche i carabinieri, ma la strada in salita rendeva più arduo il farlo.
Accelerai il passo per raggiungere mia figlia: parve che tutto si svolgesse al rallentatore. Rividi il giorno in cui nacque, un parto difficile che per poco non mi uccise, allora avevo temuto sarebbe cresciuta senza di me; mio marito era alla ricerca disperata di una medicina speciale per far cessare l’emorragia e giunse poi in elicottero; la lunga convalescenza, ora poteva finire tutto, Lisa presa in ostaggio dal delinquente, cosa le sarebbe accaduto, l’avrebbe portata via, l’avrebbe uccisa?
Scendevo con un passo veloce cercando di non spaventarla, Lisa era ferma, mi guardò, intuì che qualcosa stava accadendo, decise di tornare da me.
L’uomo aveva rallentato l’andatura, la salita era ripida. Dietro di lui il maresciallo tolse dalla fondina la pistola e gli ordinò di fermarsi.
Meno di dieci metri lo separavano da Lisa.
L’uomo si guardò attorno in cerca di una nuova via di fuga, la salita, più erta, gli impediva di accelerare la corsa, si fermò.
Raggiunsi mia figlia e la strinsi a me.
Il maresciallo pallidissimo, grondante sudore e paura, acciuffò l’uomo, e mentre lo ammanettava ci guardammo negli occhi per un istante lungo una vita e ci dicemmo tutto quello che le parole non avrebbero potuto dire. Mi fece un cenno di saluto.
Baciai Lisa, mentre tremante sentivo che le gambe faticavano a sorreggermi.
L’uomo disse qualcosa di offensivo ridendo sguaiatamente, poi sparì circondato dagli agenti.

di Elda Caspani, illustrazione di Giorgio Carro

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I giorni di un’agenda sembrano tutti uguali. Hanno un incedere lento e inesorabile. Nascono, vivono e passano. Un disegnatore e un narratore sono affascinati dalla circolarità che creano e vorrebbero raccontarne la storia, ma quando si avvicinano si accorgono che messi uno dopo l’altro i giorni non formano cerchi perfetti. Sono imprevedibili, diversi, in realtà non ce n’è uno uguale. A ben guardare, sono un po’ bislunghi. E ora tutto è più chiaro. Così è la vita e così è l’agenda del giocatore di rugby, fatta di appuntamenti e di partite, il Sei nazioni, il Tri Nations e il Mondiale ogni quattro anni, e ognuno ha la sua da annotare, lì accanto. E i giorni passano, lenti e inesorabili, e alla fine dell’anno sarà difficile gettare l’agenda.. Il piccolo giocatore ha sognato di diventare un campione e il campione di essere come quel piccolo, i valori restano, e questo è un pensiero bislungo. Ogni giocatore ha un suo ruolo e ogni ruolo ha il suo carattere, e questo è un altro pensiero bislungo. E poi ci sono le immagini, come quel cuore, scoperto, che corre per il campo, accanto a una palla ovale, e poi, dopo la doccia, il giocatore indossa la giacca e quel cuore ce l’ha ancora in mano. Alle spalle c’è un amico, e forse adesso l’amico chiede sostegno, e domani invece sarà lui a prendere, prima che cada, quella palla in mano. Ha la forma della vita, dei giorni imprevedibili, diversi l’uno dall’altro.

di Giangiacomo Furù, illustrazione di Renato Pegoraro

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All’uomo che raccontava storie d’amore veniva facile trovarle, per lui era come andare in un laghetto e gettare la canna con l’amo, e quando gli chiedevano da dove prendeva tutta quella fantasia diceva che bastava guardare, non c’era niente di speciale, e il segreto semmai era quello di cogliere l’attimo, e quando una storia passava lì accanto annotarla su un foglio di carta, perché le storie d’amore, diceva l’uomo che le scriveva, sono come i sogni, svaniscono… e poi si rincorrono le une con le altre, e dicono tutte la stessa cosa, ma in modo diverso, per questo chi non le conosce sostiene che sono una banalità e chi invece è un appassionato non ne trova una simile a un’altra, ma un conto è leggerle e un altro è vederle quando corrono silenziose lì accanto, e l’unico modo per sapere come sono fatte, e quindi riconoscerle, è di averne vissuta una, e se qualcuno non ha vissuto una storia d’amore non le distingue, e così davanti all’indifferenza vanno via come barche su un fiume…
E ciò che l’uomo che raccontava storie d’amore consigliava era di osservare, prender nota, e scriverle subito, e questa, diceva, era l’unica sua abilità, ma c’era una storia che anche lui non aveva mai scritto, ed era quella più importante, forse l’unica che avrebbe davvero messo nero su bianco, ed era la sua… e pensare che per essa avrebbe dato qualunque cosa, proprio qualunque, perché un uomo che scrive è disposto per il suo lavoro davvero a tutto, e ancora non aveva capito se questo impedimento sarebbe durato per sempre o se era solo un tragitto di sofferenza per il quale tutte quelle storie servivano solo per maturare la sua, quell’unica che avrebbe voluto raccontare, e fra le due ipotesi propendeva però per la prima, perché l’essenza delle storie d’amore è il segreto, e lui non ne aveva mai conosciuto una sbandierata ai quattro venti, e per questo, forse, raccontava quelle degli altri e non la sua.

di Anna Bentivoglio, illustrazione di Daniela Di Benedetto

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