Camminiamo da ore nella foresta, impaurite dagli alberi sbattuti dal vento e dai versi degli animali che non trovano quiete. Passo dopo passo il respiro si fa corto e la stanchezza ci rallenta.
Dobbiamo raggiungere il fiume prima dell’alba e seguirne la riva fino alla città. E sarai salva.
La luna piena brilla nel cielo africano e mi ricorda la notte in cui sei nata, dieci anni fa. Un grande disco bianco sopra al villaggio che pareva abbandonato. Si udivano solo il canto lamentoso dello stregone, e le mie urla di bambina col ventre gonfio squarciato da un dolore sconosciuto. Giacevo su una stuoia sporca nella capanna dove vivevo in solitudine da quando il vecchio, cui mi avevano dato in sposa, era morto con la bava alla bocca e il corpo martoriato da pustole sanguinanti. Prima gli anziani, poi la pestilenza si era portata via i giovani, e i campi erano rimasti incolti, aridi. Mesi di fame e angoscia, un maleficio misterioso ci aveva travolto.
Un ultimo grido, e sei arrivata nel bagliore della luna, candida come nulla avevo visto prima. La pelle trasparente, la sottile peluria più chiara dell’erba secca, gli occhi arrossati.
Femmina, e albina.
Sfinita, ti ho preso tra le braccia color della pece e rivolta ai fiotti di luce che entravano dalla porta, ho sussurrato: “Ti chiamerai Mwezi, il nome della luna! Il mattino seguente i giovani si alzarono dai giacigli di morte e i campi tornarono fertili. Un prodigio inatteso. E così, a ogni plenilunio lo sciamano ti alzava al cielo e il candore della tua pelle splendeva nella luce della grande luna, un talismano prezioso. Sei cresciuta silenziosa nella penombra della capanna al riparo dal sole e dagli sguardi, una creatura solitaria dagli occhi ciechi in continuo movimento e la pelle delicata. Ma non è bastato.
La tua fama propiziatrice si é diffusa in fretta tra i villaggi. Uomini donne e bambini giungevano a frotte e mani fameliche cercavano ciocche dei tuoi capelli, lembi di pelle, orecchie, naso, mani piedi arti. In tanti erano disposti a pagare per la tua stessa vita, e quando gli sguardi si sono fatti vogliosi ho deciso di portarti lontano. La foresta si apre, il fiume scorre silenzioso, all’orizzonte il bagliore della città.
Corriamo Mwezi, mia piccola luna bianca, sei salva.

di Alessandra Stifani, illustrazione particolare da “Per natura ed eternità” (acrilico, olio e matite su tela). Soluzioni Alessandrine, 2022

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


vai all’archivio Il racconto del giorno feriale

IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Una Milano col mare: così l’avevo immaginata, ma il mare non l’ho ancora visto. Da giorni, e non so più quanti, il mio mondo è il camerone all’ultimo piano: una fila di lettini lungo la parete, le lenzuola ruvide ben tirate, il comodino con la vaschetta per lavarsi e una finestra nel sottotetto, unica fonte di luce.
Cinquanta ragazzini portati qui dal torpedone in una domenica di inizio estate: la colonia estiva, una vacanza anche per noi, figli di operai della Breda, lontano dalla bruma di Sesto San Giovanni. Mio papà aveva rinunciato al “bianchin sprüzà” del sabato sera per tutto l’inverno, quattro soldi risparmiati per mandarmi in villeggiature. La mamma se ne era andata con lo zio Salvo in un giorno di ottobre, senza una parola. Non era più tornata, ma adesso avrei visto il mare.
Eravamo arrivati a tarda sera, stremati dalle curve sull’Appennino, affamati. La Madre Superiora aspettava davanti al cancello, a braccia conserte, il rumore secco del piede sul marciapiede. Ci aveva spinto senza un sorriso verso il refettorio: una ciotola di riso, un formaggio maleodorante, la cotognata nella stagnola; faceva schifo, ma eravamo abituati a mangiare tutto e l’indomani ci aspettava il mare. Non ero riuscita a dormire; nella camerata singhiozzi trattenuti, qualche colpo di tosse. All’alba erano iniziati i brividi e i conati di vomito, unica compagnia la paura. Poi avevo sporcato il letto e la suora di turno voleva che pulissi da sola. Ho conosciuto così Maria, la sguattera bergamasca, brutta e tozza: si era intrufolata nella camerata, aveva sistemato le lenzuola e riempito la brocca di acqua fresca.
Stamattina i bambini sono usciti presto. Guardo il ritaglio di cielo terso, sarà una bella giornata.
“Abbronzate, tutte chiazze, pelli rosse un po’ paonazze, son le ragazze che prendono il sol…“.
Maria lava i panni in cortile e canta. Suor Angela la lascia fare, lavora da mulo e si accontenta degli avanzi di cucina. La sua voce sale senza fatica fino a me, vorrei chiamarla, ma sono troppo stanca per alzarmi. Mi giro nel letto, il cuscino di crine gratta la pelle: ancora febbre, il mal di pancia mi lascia senza fiato e l’acqua è finita da un pezzo.
Cala la sera e i bambini dormono sfiniti dal sole e dai giochi nell’acqua, un’altra giornata felice. Alla finestra si affaccia un disco luminoso, la luna piena.
“…Sopra al tetto come i gatti e se c’é la luna piena…”.
La voce di Maria si confonde col miagolio dei gatti, sento la sua mano ruvida che mi accarezza le guance roventi; guardo quel volto sgraziato e la chiamo mamma. Il calore della febbre mi abbandona, e oscillo senza peso nella luce bianca. Corro sulla spiaggia assolata verso il mare: è bello nuotare.
“Tin tin tin, raggi di luna, tin tin tin, baciano te
al mondo nessuna é candida come te”

di Alessandra Stifani

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Dopo la scuola, girovagava per le strade della città fino al calar della notte, quando il buio la costringeva a tornare a casa: due locali in periferia, una mamma rimasta vedova presto e troppo stanca per combattere, tre fratelli capaci solo di picchiarsi e poi lui, l’orco, il crudele padrone delle loro vite.
Era una bella bambina: bionda, capelli lisci, un incarnato rosato inconsueto in una famiglia in cui tutti erano scuri e ricciuti; no, il nonno no, lui era rosso di pelo come una volpe, affamata. La chiamavano Melina e tutti pensavano al frutto, ma era solo il diminutivo di Carmela, il nome della nonna morta giovane cadendo dalla finestra della camera da letto. Lei era ancora piccola, l’aveva sentita piangere e urlare, poi un tonfo: un segreto di famiglia.
Col tempo incominciò a capire:
“Vieni, Melina bella, vieni sulle mie ginocchia!”
Sembrava amore, ma giorno dopo giorno gli occhi che dovevano amarla si erano fatti famelici, la bramavano senza tregua: un abisso di dolore, nel silenzio. A scuola nessuno sapeva, pensavano fosse timida, parlava poco, non giocava coi compagni; in compenso era l’unica che leggeva i libri della piccola biblioteca di classe, nascosta in un angolo quasi fosse una vergogna.
Lì c’era il suo preferito, quello del bambino che vola, che prende per mano Wendy, John e Michele e porta tutti i Bimbi Sperduti nel cielo… SECONDA STELLA A DESTRA,
FINO ALL’ISOLA CHE NON C’È …
Stamattina è uscita presto e ancora vaga in questo strano inverno senza gelo. Il corpo e l’anima pieni di lividi, stanca di piangere sotto le coperte e di avere paura.
Guarda il cielo e nel crepuscolo brilla Sirio la prima stella, lì vicino la seconda, la piccola Nana Bianca; sulla destra, una strada dritta e l’insegna luminosa del posto di Polizia.
SECONDA STELLA A DESTRA,
POI SEMPRE DRITTO
E LA STRADA LA TROVI DA TE
FINO ALL’ISOLA CHE … C’È

di Alessandra Stifani, illustrazione di Alessandro Boscarini

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Si alzò con calma, non aveva fretta né voleva svegliare anzitempo i bambini.
Spinse la coperta che chiudeva l’ingresso della tenda e alzò gli occhi al cielo: un’altra giornata di bianco lattiginoso, l’aria ferma, un silenzio opprimente.
Quattordici anni appena compiuti e un unico scopo: sopravvivere.
Guardò i fagotti stesi sul pavimento: quattro bambini sconosciuti che aveva trovato per strada; l’avevano implorato di portarli via dalla città abbandonata e adesso erano la sua famiglia.
Venus e Alba, quasi ragazzine, che portavano in spalla i piccoli quando erano troppo sfiniti per camminare: Jem, gli occhi scavati il corpo scosso da tremori, si spegneva giorno dopo giorno e il piccolo Adam, che ancora sapeva sorridere.
Le scorte di acqua erano quasi finite, oggi avrebbero raggiunto il crinale delle colline, scavato nel fondo delle crepe e, forse, sarebbero sopravvissuti, almeno un po’.
«Max, dove sei?»
«Adam, cerca di dormire! È presto per mettersi in cammino!»
«Ho paura, vieni da me, raccontami ancora la storia del nonno»
Già, la “storia del Nonno”: era passata di bocca in bocca da generazioni e nessuno sapeva più chi fosse il Nonno. Max l’aveva sentita da suo padre, che a sua volta l’aveva sentita da uno zio, e lui chissà da chi…
Si accoccolò vicino al bambino e sussurrò:
«C’era una volta una grande casa piena di bambini e animali in libertà. La chiamavano fattoria, era circondata da campi e alberi carichi di frutti. In lontananza si sentiva il rumore del fiume carico d’acqua che correva verso valle …»
Il respiro di Adam si fece regolare, bastava poco per sognare.
«Max ti prego continua!» Anche Venus e Alba si erano svegliate.
«… Si susseguivano le stagioni, il sole, poi la pioggia e la neve: faceva un gran freddo, la terra restava sotto una coltre bianca a riposare, pronta a rinascere a primavera…»
Jem emise un lamento, bruciava di febbre e non trovava riposo.
«… e quando il cielo si faceva scuro e tuoni e lampi di luce spaventavano il cuore dei bambini, dal cielo cadevano secchiate di pioggia, lo chiamavano temporale…»
«Max, hai mai visto un…?»
La parola rimase sospesa, in lontananza un brontolio sconosciuto, un vento forte.
Si alzò di corsa e uscì dalla tenda: il cielo era scuro, pareva correre verso le colline: dovevano essere così le nuvole cariche di pioggia!
Max non aveva mai visto un temporale, né la pioggia, né prati né alberi, ma seppe che erano salvi.

di Alessandra Stifani, foto di Alessandro Boscarini

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

È pomeriggio e la pioggia di novembre cade fitta.
La meta si avvicina, trascino il bagaglio a fatica; si è fatto pesante giorno dopo giorno, immagini volti suoni e sensazioni, non ho saputo buttare via nulla.
Era leggero, il giorno della partenza: nella luce abbacinante della sala parto tra sorrisi e qualche lacrima, era lì, pronto proprio per me. Un respiro profondo, un urlo da combattente e ho afferrato la bisaccia: sembrava vuota, eppure c’era già tutto. Era stato facile partire, una passeggiata senza una destinazione, una spiaggia soleggiata, il fruscio delle onde, e l’abbraccio di mia madre.
Non sapevo ancora quanto fango avrei trovato sulla strada, quanti scogli avrebbero deviato il mio cammino, quanto fosse lunga la notte e freddo l’inverno. Ora lo so.
Riconosco gli scalini in pietra, i lecci sbattuti dal vento e il rumore delle onde che si schiantano sulle rocce. Sono stanco, ma sorrido: eccomi a casa. Il profumo salmastro del mare mi avvolge, vorrei un ultimo respiro, ma non posso e ho paura.
Cerco il sorriso di Marisa che dai tempi del liceo ha illuminato il mio percorso. So che non c’è più: l’ho spento per sempre la notte in cui ho confessato il tradimento. Sparite in un attimo le risate, dimenticata la mano che accarezza i capelli, le giornate di sole, i sogni; è rimasta una smorfia di dolore, un macigno senza assoluzione.
Mi avvicino alla piccola folla che mi guarda, i volti tesi, qualcuno piange: sono Martina e Alessia, belle e severe come la loro mamma, sparite ancora ragazzine dietro la porta di casa sbattuta con determinazione, mute al telefono e insofferenti durante le squallide cene a cui le obbligavo. Un tempo consolavo i loro pianti di bambine, scacciavo i mostri della notte, curavo con un soffio le piccole ferite; oggi le loro lacrime silenziose potrebbero scaldarmi il cuore se non fosse ormai gelato, immobile.
La sacca consunta striscia sui sassi; vorrei fare ancora qualche passo, ma gli arti spezzati dalla caduta sono rigidi e non ho le scarpe. Nei lunghi mesi della malattia, chiamavo Tonya l’infermiera e le chiedevo di portarmele, ma i piedi erano ogni giorno più gonfi, e le tenevo in grembo, simbolo di una fuga ancora possibile. Le avevo con me la sera in cui mi ha sorretto fino alla terrazza dell’ultimo piano, e mi ha lasciato lì sotto il cielo stellato con la coperta sulle spalle. Le ho appoggiate con cura sul parapetto, non servono scarpe per volare.
Appoggio il bagaglio sulla terra smossa di fresco, sul travertino bianco posato lì vicino, il mio nome.

di Alessandra Stifani

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org