Ogni domenica pomeriggio mio padre mi gridava: “Allora, l’hai pulito o no quel carburatore?”. Io, muta, mi perdevo a guardare le macchie di benzina danzare nelle pozze d’acqua.
Quel dì risposi: “Torno subito” e me ne andai.
Un Disperato Erotico Stomp era appena passato davanti casa, teneva un quadro sotto il braccio e la giacca sporca di colori. Decisi di seguirlo.
Giunti al suo atelier, mi tenne la porta aperta e mi invitò ad entrare. Io curiosai nei suoi spazi.Mi chiese chi fossi, non risposi. Mi chiese cosa vedessi nelle sue opere, emisi un flebile “boh”. Mi chiese se volessi imparare a disegnare. Lo guardai e alzai le spalle.
La prospettiva, la profondità, le ombre, le proporzioni, le sfumature.
Nel mentre crebbi in altezza, in domande e in dolori.
“Per fine anno voglio che mi porti qualcosa di tuo, di personale, di autentico. Guarda dentro e fuori di te e miscela tutto quanto, perché vivere è riscrivere cose nuove”.
Passai le giornate a vagare per la città, in cerca di un soggetto. Una sera d’estate, attorniato da tanti bambini attenti, un saltimbanco mi catturò in una piazza. Raccontava fiabe. Gli adulti non gli davano retta, chiacchieravano tra di loro, scrivevano al telefono, si annoiavano. Io mi sedetti in mezzo a quei piccoli ascoltatori, stupefatto dalle loro domande: “Perché sposti un oggetto da una mano all’altra?”, “Anche tu hai avuto tre anni come noi?”, “A cosa servono i mostri?”.
Disegnerò questo giullare! Deciso! Appena torno a casa! Quest’ultima parola, casa, mi rimase in bocca, non voleva scendere giù. Qual era la mia casa? Lo chiesi al mio maestro, nonché affittuario della piccola mansarda in cui vivevo, e lui chiuse gli occhi: “E’ qualcosa in continua definizione sebbene, alcuni, la banalizzino come un semplice luogo fisico che certo non cammina”.
E allora camminai io, diretta alla mia prima casa.
Da quel “torno subito” erano passati vent’anni. Ed ora il garage era vuoto. Niente scaffali, niente banco lavoro, niente moto. C’erano solo delle macchie a terra e dei poster appesi al muro. Mi misi a fissarli, come allora, e risuonò la voce di mio padre: “Mica ho tempo per quei viaggi lì, io!”. Con lo stesso tono, alla domanda “Com’era il nonno?”, mio padre rispondeva sempre “Tuo nonno faceva il meccanico!”. Mai mi disse se avesse avuto dei sogni, se ci litigava, se gli raccontava storie quand’era piccolo, se fosse severo o permissivo, se amasse la nonna o l’avesse mai tradita.
Guardando quei luoghi sterminati, quei deserti, quelle steppe da raggiungere su due ruote, capii che quelle erano le fiabe di mio padre, era il mondo incantato che voleva raccontarsi e raccontarmi, senza saperlo e senza dirlo. Era il suo bisogno di espandersi, di non essere fatto solo di materia, sebbene se lo negasse di continuo. Quando lo capii, dissi grazie.

Dedicato a tutti i papà, che raccontano sempre delle fiabe ai propri figli, anche se non lo sanno.

Racconto di Paolo Negri, illustrazione di Daniela Landini

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Inserisco la moneta, premo il bottone. Caffè espresso. Le pareti sono bicolore e tra il verde tenue e il bianco si infila una impavida striscia blu. A lato del distributore automatico una bacheca tappezzata di avvisi e messaggi vari. Potrei appenderne uno anch’io, ci scriverei sopra “Mirco è morto, finalmente!”
Quella giornata di luglio iniziò, nei miei ricordi, con uno strofinaccio tra le mani. Alle due di pomeriggio suonai il campanello alla porta di Mirco. Abitava con la madre in un appartamento del terzo piano. Mi aprì, una figura minuta in canottiera bianca e pantaloncini corti. Usciamo, gli chiesi. Devo lavare i piatti, rispose. Aveva nove anni e io undici. Sbuffai, però decisi di aiutarlo. Mi accompagnò in cucina. Sotto il lavello c’era un catino rovesciato, vi salì e fece scorrere l’acqua aggiungendo un po’ di detersivo. Lavò e sciacquò le stoviglie e io le asciugai. Terminate le faccende domestiche scendemmo le scale due gradini alla volta, e poi, in strada, corremmo come se non avessimo un domani. Ai margini della boscaglia prendemmo il sentiero del Coniglio, lo chiamavamo così perché un sabato di maggio scorgemmo una lepre grigia attraversarlo, conduceva alla radura del Grande Menhir, un enorme masso trascinato fin lì da qualche ghiacciaio estinto.
Si fantasticava sul futuro. Il mio sogno era diventare musicista, con il flauto non ero male. Mirco mi rivelò il suo. Rimasi a bocca aperta. Fissai il terreno e quando mi voltai notai le lacrime. Parlava sul serio. Non lo dirò a nessuno, promisi.
Udimmo dei guaiti e delle risa. Ci avvicinammo con cautela. Vidi Pietro e Pinuccio, l’incubo di noi ragazzini, tredicenni dall’anima nera e nel DNA la voglia di fare del male. Bastonavano Botola, un piccolo randagio mite e affettuoso. Ci scagliammo contro di loro, al pari di antichi cavalieri senza macchia e paura. Mirco venne colpito subito alla testa e quasi svenne. Io fui più fortunato, presi solo calci e pugni. Me la cavai con dei lividi e la maglietta stracciata. A lui spaccarono un timpano. Era quasi ora di cena, supini sul prato, a pochi metri da Botola, seguivamo con lo sguardo le nuvole rossastre. Ci alzammo a fatica. Il povero cane non respirava più. Mirco piangendo si mise a scavare frenetico con le mani, per lui, disse. Lo seppellimmo lì, con il cuore morto, accanto al finto menhir. Quel giorno ci strappò dall’infanzia e legò le nostre vite come mai avremmo immaginato.
Sara esce dalla sala operatoria. I medici dicono che è andato tutto bene. È ancora sotto l’effetto dei farmaci, mi vede e sorride. Sorrido anch’io, il suo sogno è stato esaudito. Mi siedo sul bordo del letto, accarezzo i suoi capelli, lunghi, fini, sfioro con le dita l’invisibile apparecchio acustico, lo porta dal luglio di quell’estate di venti anni prima.

di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Daniela Landini

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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