Un podcast a cura di Jacopo Bravo


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

di Roberto Filippini

La nostra classe, la terza D del Liceo di Saronno, era divisa in due quartieri, a destra quello delle ragazze e a sinistra i maschi. Angela era in prima fila vicino alla porta e quando si voltava verso di me, che stavo in fondo dall’altra parte, trovava sempre i miei occhi su di lei.

Un giorno il burbero insegnante di scienze la richiamò: “Signorina Angela ma lei ha il torcicollo?” Angela temette di essere stata scoperta e la sua sensibilità non resistette. Dalla mia postazione notai che si asciugava una lacrima.

Anch’io mi sentii offeso dal professore, e la vulnerabilità di Angela risvegliò qualcosa dentro di me, un coraggio che non sapevo di avere. La lacrima è una silenziosa confessione, un linguaggio che va oltre le parole.

Scrissi su un foglietto: “Al tramonto, al Parco della Pianeta” e glielo feci arrivare come si faceva nei compiti in classe da un banco all’altro. 

All’appuntamento giunsi mezz’ora prima e ripassai tutte le frasi che mi ero preparato, ma quando comparve in fondo alla stradina ero già senza parole.

Ci sedemmo su una panchina. Il sole non sapeva più come aiutarci con i suoi riflessi sugli alberi. Ogni respiro diventava un dialogo nascosto.

Angela era accanto a me, il calore della sua presenza come una promessa non ancora svelata. Le parole danzavano sulla punta della mia lingua, ma il timore di rompere un incantesimo mi tratteneva ancora. E poi accadde, finalmente. Dalla tasca della giacca presi lo smarphone e dissi: “Ti voglio far sentire una canzone che piaceva ai miei genitori quando erano giovani”.

Lei mi guardò, i suoi occhi lucidi riflettevano la luce del tramonto e dissolvevano i miei dubbi. “Il peso di tutto ciò che non diciamo è troppo da portare”, disse con una certa commozione che di nuovo le procurò una lacrima.

In quel momento compresi che il nostro silenzio non era una barriera, ma un desiderio che entrambi temevamo esplodesse distruggendo l’amore.

Due anni dopo ci iscrivemmo all’Università. Lei biologia, io ingegneria meccanica. L’anno scorso è nato Roberto, che noi chiamiamo Bobby.

Roberto Filippini, ingegnere meccanico, di norma scrive rapporti di carattere tecnico-industriale. Sportivo, pratica il wakesurf sul lago di Como. Prima o poi ne scriverà un racconto.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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IL FINALE, una stoccata di classe

C’è poco da dire, dopo tutta l’attenzione che abbiamo messo per arrivarci. Magari il finale l’avevamo in mente fin dall’inizio, magari è maturato nello sviluppo, magari è saltato fuori inaspettato, oppure è rimasto volutamente sospeso. Va tutto bene. Un pericolo che ho notato nei nostri racconti è che a volte il finale ha condizionato tutto lo sviluppo. Vale a dire, siamo partiti con il finale già in mente, una bella stoccata, e non abbiamo visto l’ora di arrivarci, senza cioè curare lo sviluppo. Il giorno in cui avremo in mente un romanzo commetteremo lo stesso errore. E un conto è aver lavorato per un raccontino, che possiamo facilmente riscrivere, un altro se cento pagine sono rimaste vuote in attesa del tocco finale che probabilmente nessuno arriverà a leggere, sopraffatto dalla noia. Al contrario, avere in mente un buon finale deve essere lo stimolo per tenere alta la tensione.

Arriverà il finale, concentrato in due pagine oppure nell’intero ultimo capitolo, e sarà una luce su tutto quanto è stato raccontato prima.

Mi aspetta una bella Guinness, e non mi dilungo oltre. Solo l’esempio di un allievo che mi ha consegnato un racconto di 10.000 battute, con un finale buttato lì, senza una conclusione all’altezza della storia narrata. Il racconto era stimolante e mi sentivo il finale nelle mani. Gli ho detto di riscriverlo lui. È chiaro, vero, che il finale di questo corso lo scrivete voi?

continua il 4 maggio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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Il cielo mi aveva aspettato, senza nuvole, per la arrampicata al Sass de Stria. Una salita ripida, tra le rocce, con il fiato che stentava, ma arrivato in cima mi sedetti ai piedi della croce e ritrovai il Lagazuoi, la Tofana, la Marmolada. Quel giorno dividevo però le Dolomiti con un altro uomo. Non ero solo, lassù.
Mi aveva rivolto la parola, lo sconosciuto, in un modo come se non fosse affatto uno sconosciuto. Un giovane, con il viso ovale da vecchio, il naso sottile e occhialini rotondi come non vedevo più dagli anni settanta. Mi raccontava un episodio della Grande Guerra. Pensai che fosse un’improbabile guida, messa lì ad accogliere i turisti, ma lo strano era che narrava in prima persona, come se avesse assistito agli eventi. Ma raccontava bene e io ero stregato dalle sue parole:
– … la selletta qui in basso era presidiata dagli Austriaci, il 3° reggimento dei Kaiserjäger. Perciò era importante che conquistassimo il Sass de Stria dove avevano sistemato un osservatorio. All’alba potevamo sorprenderli e proteggere, con il fuoco dall’alto, l’arrivo del nostro plotone. Ci offrimmo in quattordici volontari e partimmo dal Castello di Andraz la sera del 17 ottobre 1915. Iniziammo la scalata dalla parete occidentale che gli Austriaci ritenevano inaccessibile. Arrivammo, stremati, alle due di notte, e trovammo la cresta deserta. Ma, poco prima della luce, ci scoprì un gruppo di Kaiserjäger saliti all’osservatorio. Non riuscimmo a catturarli tutti e diedero l’allarme. Ci attaccarono in più di cinquanta quando il plotone non era ancora giunto. Ci riparammo nelle trincee ma era un inferno di fuoco. E il plotone tardava. –
Il discorso era terminato, bruscamente. Vidi che erano comparse delle nuvole grigie spinte da una brezza gelida. Avevo freddo, ma volevo ancora ascoltare.
– E poi? –
– Troverà la fine sui libri di storia. – mi disse sorridendo – ora è tardi, devo andare.-
E con due passi sparì dalla parte opposta alla via che avevo percorso io per salire.
– Come si chiama? – gridai assurdamente nella sua direzione, al suono che i suoi scarponi non avevano fatto, all’aria che non aveva trattenuto alcun odore, al terreno che non portava traccia del suo passaggio.
– Mario – mi rispose una voce, lontana come un’eco.
– Mario Fusetti –
E la fine della storia l’avevo poi trovata davvero, la storia di quel gruppo di coraggiosi che erano saliti al Sass de Stria e di cui pochi erano sopravvissuti. Il loro comandante, fulminato da un proiettile austriaco in piena fronte, era il sottotenente Mario Fusetti, il cui corpo giace ancora, senza riposo, nei crepacci del Sass de Stria.

di Angela Borghi, fotografia di Ettore Borghi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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di Michele Massa

Bari, 8 dicembre 1965.

Avevo dormito poco. Non vedevo l’ora di preparare il presepe, regalatomi da zio Gino qualche mese prima, per il mio decimo compleanno. Era monumentale, in legno e sughero. Per allestirlo, io e mio padre impiegammo tutta la mattinata. Alla fine, il risultato fu sorprendente. Non restava che aspettare i parenti e gli amici che sarebbero venuti a vederlo.

La prima visita, già programmata, per me sarebbe stata la più importante: nel pomeriggio sarebbe venuta Patrizia, la mia compagna di banco, con sua madre. Tutta la classe m’invidiava perché ero seduto accanto a lei: la più bella della scuola. Ne ero innamorato, ma per lei ero soltanto uno dei suoi spasimanti.

Patrizia arrivò puntuale alle cinque, con sua madre e una maestosa torta al cioccolato. Ma le mie attenzioni erano soltanto per lei. Mi piacevano i suoi capelli lunghi e biondi, gli occhi di un celeste chiaro e quel neo su uno zigomo. Col maglioncino rosa con le perline, e gli orecchini a cuoricino, era semplicemente bellissima. Io, invece, ero semplicemente incantato. Le nostre mamme cominciarono a chiacchierare. Patrizia e io, da subito annoiati, andammo a giocare nella mia cameretta. Con lei il tempo volava. La ingolosii con una spremuta d’arancia fatta da me e qualche biscottino natalizio fatto da mia madre. Lei era felice. Anch’io ero felice. Ma volevo fare di più. Mi feci coraggio, la presi per mano e l’accompagnai al presepe. L’idea le piacque: sembrava incuriosita e piacevolmente sorpresa. Cercai di darmi un tono da professore e m’improvvisai esperto di presepi napoletani, pur non sapendone niente. Ma proprio niente. Patrizia era incantata dalle mie parole. E io parlavo, parlavo, parlavo…

Sul più bello, accorse sua madre: dovevano andare via. Patrizia batté i piedi a terra perché voleva restare. Sua madre, insensibile alle suppliche, andò nell’ingresso a prenderle il cappotto. Io mi rattristai. Una lacrimuccia scivolò sull’incantevole viso di Patrizia. Lei mi guardò, si sollevò sulla punta dei piedi e mi diede un bacio su una guancia.

Divenni rosso come un pomodoro. Tremavo. Ce l’avevo fatta: eravamo fidanzati! Avrei voluto saltare di gioia, abbracciarla, regalarle l’album con le figurine dei calciatori. Sul momento, come promessa di matrimonio, le donai una pecorella del presepe: la più bella di tutte. Mi aspettavo un altro bacio.

Lei la prese e se la rigirò tra le dita. «Grazie, che carina… la regalerò a Remigio. Ѐ il più bravo della classe e mi fa pure i compiti a casa!» Fine del fidanzamento. Ma, forse, di essere stata la mia fidanzata non l’aveva mai saputo.

Michele Massa è nato a Bari il 30 agosto 1955. Bancario in pensione, vive a Bologna. Oltre mille interventi sulla principale stampa italiana. Di recente ha pubblicato con Apollo Edizioni, Il Cuscino di Stelle, Historica, Temperino rosso (in stampa).

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Una volta pensavo a una storia da scrivere, e avevo già deciso come realizzarla. Il periodo da raccontare era di vent’anni e avevo pensato di partire dal fondo, dall’ultimo mese, e poi riprendere la vita del protagonista con vari flashback.  Mi è venuta fuori una storia lineare che parte dalla sua nascita e si conclude dopo vent’anni. Questo per dire che nel nostro lavoro ritroviamo l’imprevedibilità della vita. E voi vorreste rinunciarvi in cambio di una struttura preconfezionata? Personalmente preferisco le strutture complicate, mi ci trovo a mio agio perché io sono una persona complicata, ma la vita è formidabile, e io la conosco con la mia fatica sulla pagina bianca. Se seguissi le trame dei miei maestri perderei il bello dell’atto creativo. Da giovane lessi l’Ulisse di Joyce, considerato uno dei romanzi più importanti della letteratura moderna, e siccome volevo fare lo scrittore poi comprai un libretto che ne esaminava la trama e la struttura. Dopo poche pagine lo abbandonai. Ne presi un altro, e la stessa cosa. Comprai allora quello del suo maggior critico e conoscitore, e qui per la verità arrivai a pagina 40. Tutto interessante, ma non era quella lettura e quello studio che mi aiutavano davvero. E adesso, avendolo nominato, approfitto di Joyce e del suo Ulisse. Dieci anni per scriverlo. Mille pagine, alla media dunque di cento pagine all’anno. Vi pongo una domanda. Che pensate facesse Joyce in quei dieci anni? Lavorava al suo romanzo, certo. Ma quando andava a teatro alla sera con la sua Nora, oppure quando dava lezioni d’inglese a Italo Svevo, che c’era nel fondo della sua mente? Sempre lui, l’Ulisse che stava scrivendo. La sua vita era in quelle pagine bianche che voleva scrivere e poi in quelle già scritte che doveva riscrivere.

Riprendo una frase detta al primo incontro. La scrittura è una via di conoscenza privilegiata. Un racconto scritto bene mi ha dato soddisfazione. Che cosa mi darà un romanzo? Sono in grado di affrontarlo? Ci provo. Sono qui per questo.

continua il 27 aprile

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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di Benedetta Pivetti

– Ben tornata! Da dove arrivi?

– Dalla cena coi colleghi, te l’avevo detto.

– Ma è quasi l’una di notte, un po’ tardi per una cena, non trovi?

– Lo sai come vanno a finire queste serate, Fabio. Abbiamo aspettato un sacco, c’era il locale pieno, poi abbiamo preso tutto, dall’antipasto all’ammazza-caffè, poi siamo rimasti fuori a chiacchierare nel parcheggio e c’era Mauro che era pieno e dava spettacolo.

– Strano…

– Cosa strano? È andata così. Perché sei sospettoso? –   Strano perché io ero nel parcheggio dalle undici e mezza, e non c’era nessuno di voi.

– …

– Stai attenta a quello che dici Bea.

– Fabio, aspetta. Prima ho dimenticato di dirti che abbiamo accompagnato Mauro a casa dopo le undici. Non si reggeva in piedi, non poteva guidare, capisci?

– Che combinazione, proprio prima che arrivassi io.-   Sì, devo aver perso la cognizione del tempo, ho bevuto anche io, mi conosci.

– Un’ora e mezzo per riaccompagnarlo a casa? E non capisco nemmeno perché ci sia andata anche tu.

– Perché eravamo tutti insieme! Poi siamo rimasti davanti a casa sua a chiacchierare. Perchè questo interrogatorio? –   Guarda come sei diventata brava a raccontare palle. Ma chi ho sposato?

– Cosa stai dicendo Fabio? Sei fuori.

– Bea, è un po’ che ti osservo, sei sempre distratta, attaccata al cellulare, credi non me ne sia accorto? Cosa mi nascondi?

– Non ti nascondo nulla e tu sei paranoico.

– Porca puttana, Beatrice, io ero già lì, ti ho vista salire sull’auto di Carlo e andare via con lui. Adesso che ti inventi? Sentiamo. –   Lo sai benissimo che con Carlo ci conosciamo da una vita, mi ha solo chiesto di fare due chiacchiere mentre riaccompagnavamo Mauro a casa, che poi lui doveva rientrare.

– Brava, continua a prendermi per il culo.

– E tu invece, non mi avevi detto che restavi a casa? Perché sei venuto a spiarmi? Forse che prima sei passato dalla tua ex che è ancora lì che ti aspetta e guarda caso abita proprio vicino al ristorante?

– Hai un bel coraggio.  Cosa c’entra Maria adesso? Ti ho beccata io in fallo, sono dieci minuti che inventi storie e hai la sfrontatezza di attaccare tu.

– Beh, non sarebbe mica la prima volta, credi non lo sappia? Hanno visto la tua macchina parcheggiata sotto casa sua diverse volte.

– Sì, sono passato da lei qualche volta. Voleva parlarmi, mi ha supplicato e non potevo dirle di no.

– Ma dimenticarti di dirmelo, sì, evidentemente.

– Era inutile farti ingelosire per niente, Bea. E cos’è quella lacrima adesso?

– Nulla, lascia perdere.

– Dimmi cosa è successo prima con Carlo, su.

– Niente di male, Fabio. Come tra te e Maria, del resto. E ora vorrei andare a dormire.

Benedetta Pivetti. Nata e vissuta in Emilia, nel 2023 si trasferisce in Liguria. Dopo gli studi economici, si è sempre occupata di amministrazione in azienda. Appassionata di lettura e parapendio, scrive racconti per diletto prediligendo le relazioni umane e amorose.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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CARTE IN TAVOLA *

Suona strano ma il momento più importante di un mistero è quando si dissolve. Gli eventi che parevano inspiegabili giungono alla necessaria spiegazione. All’oscurità segue la luce e l’intelligenza vince sulla confusione del mondo.  La scoperta del colpevole e la sua cattura sono le classiche conclusioni. Però ci sono altre soluzioni perché a volte, come si è detto a proposito della trama, conosciamo già l’assassino e quello che conta è che si risolva l’enigma, che si comprenda il meccanismo del delitto. Oppure che giunga al successo la caccia intrapresa da chi investiga. In genere al lettore non piace un assassino che se la cava, salvo casi particolari, piuttosto è disposto a vederlo morire alla fine della storia.

Arrivare alla soluzione finale non è semplice: il percorso deve essere accidentato e graduale. Ad esempio una confessione inconsulta per un pentimento del colpevole è da escludere. Si deve mantenere l’effetto sorpresa ma senza esagerare con i colpi di scena fini a se stessi, e con casualità inverosimili.

I modi sono vari. Sempre divertenti e utili all’autore le scene madri in cui l’investigatore raduna tutti i sospetti (ricordate le molte volte di Hercule Poirot?) e racconta, anche al lettore, come è giunto alla scoperta dell’assassino. Sono state molto sfruttate anche da altri nel giallo classico. Un esempio: P.D.James in Copritele il volto: Di comune accordo decisero che la riunione avrebbe avuto luogo nello studio. Qualcuno aveva disposto le sedie a semicerchio intorno alla scrivania e qualcuno aveva anche riempito d’acqua una caraffa e l’aveva posta alla destra di Dalgliesh. Dalgliesh sedeva solo alla scrivania e Martin sedeva alle sue spalle. Man mano che entravano nello studio, scrutò a uno a uno gli indiziati.

In un finale d’azione invece l’autore, per far vivere in diretta la soluzione al lettore, lo porta con sé in un luogo dove si svolgerà l’atto finale, a volte critico e avventuroso o pericoloso, come in La sostanza del male di Luca D’Andrea: Lasciai andare il ramo proprio mentre il fango ci investiva. Il Bletterbach era trasfigurato in un’apocalisse di acqua, melma e detriti.

In qualche storia non proprio tutto viene concluso, qualcosa rimane in sospeso, per suggerire un seguito o rimandare la caccia allo stesso colpevole lungo una serie. Molto difficile da fare con efficacia e quindi sconsigliabile. Dall’esperienza di lettore trovo coinvolgente terminare il romanzo con un ultimo capitolo dopo la spiegazione finale, una specie di piccola epicrisi, a volte in un tempo successivo, in cui si dà un ultimo saluto ai protagonisti e si viene informati su quale sarà il loro futuro o come ritornano alla vita quotidiana dopo la crisi che hanno vissuto.

* Agatha Christie 1936

Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.


continua il 9 maggio 2024


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di Mario Trapletti

Gli era capitata in mano per caso quella fotografia, riaffiorata da uno di quei buchi neri che divorano il passato. Non la vedeva da anni. Anni…? Decenni, quasi cinque: aveva vent’anni, all’epoca. Un po’ sbiadita, magari, ma ancora capace di imporsi all’attenzione.

Un primo piano di… di Laura. Il cognome non lo ricordava. La sua ragazza di allora. L’aveva scattata lui, la foto, quando si erano lasciati. Quando lui l’aveva lasciata.

Sfiorò il dolce, triste viso di lei per togliere un qualcosa che le si era depositato sulla guancia sinistra, poco sotto l’occhio. Non se ne andava. Mosso da un vago presentimento, afferrò la potente lente d’ingrandimento che stazionava sulla scrivania, e mise a fuoco l’imperfezione dell’immagine.

Altro che imperfezione! Guardò e riguardò, e non c’erano dubbi: l’istantanea aveva immortalato una lacrima.

Una lacrima…

La fissò intensamente, non seppe per quanto tempo; d’improvviso, si dilatò fino a raggiungere la consistenza di una sfera di cristallo. Che mostrava non il futuro, ma il passato. Si rivide, e si riascoltò, mentre pronunciava quelle frasi delle quali era convinto di aver perso il ricordo.

… perché io ti voglio bene, un bene da morire, ma non mi sento ancora pronto…

… sono giovane, voglio vivere, esplorare il mondo, ho paura che soffocherei chiuso nel bozzolo della vita di coppia…

… sei d’accordo anche tu, no, che la coppia è un po’ la tomba dell’amore… (aveva letto da qualche parte qualcosa del genere, più o meno. Era un periodo, quello, che se ne dicevan tante di cose così… maledetta ideologia)

… io con te sto bene, davvero, mi piaci, mi piace tutto di te, però… però… guarda che lo faccio anche per te, per non farti sentire troppo legata, per non limitare la tua libertà proprio adesso che ti stai aprendo al mondo…

… credimi, anche questa è una prova d’amore…

Le aveva pronunciate davvero quelle idiozie, e magari ci credeva pure.

La lacrima-sfera di cristallo gliele stava facendo scorrere davanti agli occhi dardeggianti di lampi incandescenti.  Pulsanti e dolorosi come i colpi di laser quando gli avevano saldato la retina.

Solo adesso capiva lo scemo che era stato, il tesoro che aveva gettato alle ortiche senza manco rendersene conto. Lei lo amava, e basta; le sue parole l’avevano ferita nel profondo, come adesso trafiggevano i suoi occhi.

Lo amava: quella lacrima, pur sola, era lì a testimoniarlo. E lui nemmeno l’aveva vista.

Adesso capiva; adesso che Laura era solo un refolo di memoria intriso di pungente, inutile rimorso.

… a vent’anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell’età…

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