Racconto di Anna Rosa Confalonieri
Lettura di Gianluca Fiore
IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org
Racconto di Anna Rosa Confalonieri
Lettura di Gianluca Fiore
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Ho visto libri potenzialmente belli cadere in malo modo sui dialoghi, rovinarsi con un niente. Fin tanto che l’autore era sui personaggi e sugli ambienti tutta una meraviglia. Poi i dialoghi, ahimè! La scrittura non è il parlato. Parliamo in un modo e scriviamo in un altro. Questo vale per tutti, anche per quegli autori che nella loro ricerca di stile, nel loro modo di esprimersi, tendono a unificare il parlato e lo scritto.
Figuriamoci per gli altri. Di nuovo vi invito a rileggere i vostri autori preferiti, giusto per fare un confronto.
Troverete chi usa dialoghi forbiti, e chi teatrali. Qualcuno i botta e risposta da bar, sì, ho detto da bar, solo che lo fa con una maestria tale che s’inseriscono nel contesto generale del racconto e soprattutto aderiscono al personaggio, esaltandolo.
Da dove arriva questa maestria? Come in tutte le pagine di questo libro non troverete l’elenco delle soluzioni. Per un semplice motivo: perché non esistono. C’è una sola soluzione, ed è la vostra. La vostra sperimentazione. Resta il consiglio di avere molta cura dei dialoghi.
Chissà perché vengono sottovalutati. Sembra che servano per riempire più facilmente le pagine. Se li usate bene, dopo qualche pagina, il lettore capirà quale personaggio sta parlando perché quelle espressioni sono una sua caratteristica.
Vi dico una cosa. Non è facile scriverli bene, se il nostro scopo è davvero quello di scrivere bene e non solo di riempire le pagine. E poi non sono indispensabili, anzi, tutt’altro. Fior di capolavori non li contemplano, o li usano pochissimo. Altri, a onor del vero, hanno storie che si basano sui dialoghi. Preferisco i primi, le pagine dense di azioni e di descrizioni, con un uso molto moderato dei discorsi diretti, se non completamente assente. Ognuno ha i suoi gusti. Ognuno ha un carattere, una personalità, che si esprimono in modo diverso.
continua il 2 marzo
Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.
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Una Milano col mare: così l’avevo immaginata, ma il mare non l’ho ancora visto. Da giorni, e non so più quanti, il mio mondo è il camerone all’ultimo piano: una fila di lettini lungo la parete, le lenzuola ruvide ben tirate, il comodino con la vaschetta per lavarsi e una finestra nel sottotetto, unica fonte di luce.
Cinquanta ragazzini portati qui dal torpedone in una domenica di inizio estate: la colonia estiva, una vacanza anche per noi, figli di operai della Breda, lontano dalla bruma di Sesto San Giovanni. Mio papà aveva rinunciato al “bianchin sprüzà” del sabato sera per tutto l’inverno, quattro soldi risparmiati per mandarmi in villeggiature. La mamma se ne era andata con lo zio Salvo in un giorno di ottobre, senza una parola. Non era più tornata, ma adesso avrei visto il mare.
Eravamo arrivati a tarda sera, stremati dalle curve sull’Appennino, affamati. La Madre Superiora aspettava davanti al cancello, a braccia conserte, il rumore secco del piede sul marciapiede. Ci aveva spinto senza un sorriso verso il refettorio: una ciotola di riso, un formaggio maleodorante, la cotognata nella stagnola; faceva schifo, ma eravamo abituati a mangiare tutto e l’indomani ci aspettava il mare. Non ero riuscita a dormire; nella camerata singhiozzi trattenuti, qualche colpo di tosse. All’alba erano iniziati i brividi e i conati di vomito, unica compagnia la paura. Poi avevo sporcato il letto e la suora di turno voleva che pulissi da sola. Ho conosciuto così Maria, la sguattera bergamasca, brutta e tozza: si era intrufolata nella camerata, aveva sistemato le lenzuola e riempito la brocca di acqua fresca.
Stamattina i bambini sono usciti presto. Guardo il ritaglio di cielo terso, sarà una bella giornata.
“Abbronzate, tutte chiazze, pelli rosse un po’ paonazze, son le ragazze che prendono il sol…“.
Maria lava i panni in cortile e canta. Suor Angela la lascia fare, lavora da mulo e si accontenta degli avanzi di cucina. La sua voce sale senza fatica fino a me, vorrei chiamarla, ma sono troppo stanca per alzarmi. Mi giro nel letto, il cuscino di crine gratta la pelle: ancora febbre, il mal di pancia mi lascia senza fiato e l’acqua è finita da un pezzo.
Cala la sera e i bambini dormono sfiniti dal sole e dai giochi nell’acqua, un’altra giornata felice. Alla finestra si affaccia un disco luminoso, la luna piena.
“…Sopra al tetto come i gatti e se c’é la luna piena…”.
La voce di Maria si confonde col miagolio dei gatti, sento la sua mano ruvida che mi accarezza le guance roventi; guardo quel volto sgraziato e la chiamo mamma. Il calore della febbre mi abbandona, e oscillo senza peso nella luce bianca. Corro sulla spiaggia assolata verso il mare: è bello nuotare.
“Tin tin tin, raggi di luna, tin tin tin, baciano te
al mondo nessuna é candida come te”
di Alessandra Stifani
Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)
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Il delitto che raccontiamo deve esser collegato a un enigma, che rappresenta la sfida tra lettore e autore, così come quella tra investigatore e assassino. Il mistero accompagnerà chi legge pagina per pagina, fino alla soluzione, che arriverà di sicuro, ma secondo un meccanismo che prevede ogni passo come un sorpresa. L’abilità dello scrittore sta nel disseminare nella storia una serie di tracce e indizi.
Le tracce sono in genere fisiche: orme lasciate sul terreno o impronte scoperte su un oggetto, magari su una parte impensabile, o qualcosa che l’assassino ha perso nell’azione e viene ritrovato per caso. Gli indizi possono essere intuizioni logiche da parte dell’investigatore (inteso come chiunque compia le indagini), basandosi su notizie, come una parentela non conosciuta o che possono giungere da un lavoro psicologico di immedesimazione con il colpevole.
I famosissimi personaggi-simbolo dei due estremi di approccio all’indagine sono Sherlock Holmes di A.C.Doyle, con l’inseparabile lente di ingrandimento alla ricerca di tracce, sulle quali applica il suo metodo rigorosamente deduttivo e Hercule Poirot, di A.Christie che invece si concentra sugli indizi psicologici, sulle motivazioni dell’assassino. Lo scrittore sceglierà la propria via, magari in equilibrio tra i due tipi di investigazione.
In tutti i casi è importante descrivere la scena del delitto, enfatizzando qualche particolare illuminante per l’indagine. Un utile stratagemma è un dettaglio tecnico di qualche materia (medicina, chimica ecc.) che può smascherare l’assassino e che l’investigatore sa per sua competenza, gli viene riferito o che scopre per caso. Inseriamo dunque il ruolo delle coincidenze e l’argomento, delicato, della loro verosimiglianza. Arricchiscono la storia, possono essere quasi incredibili ma va ricordato quanto già detto sulla credulità del lettore, da stimolare al massimo ma non da oltrepassare. Sull’argomento cito Mark Twain: “La letteratura è costretta a rispettare la verosimiglianza. La vita no”.
Non si può terminare un discorso sul mistero e l’enigma senza ricordare un filone di gialli in cui questo è assolutamente in secondo piano, nel realismo di storie come quelle di Raymond Chandler, di Dashiell Hammet e di James Ellroy, ma anche di quelle di Jules Simenon con il Commissario Maigret, che è più interessato al dramma umano che sta dietro a ogni delitto.
* George Harmon Coxe 1964
Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.
continua il 14 marzo 2024
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Un podcast a cura di Jacopo Bravo
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E il personaggio folla? Volete perdere tempo sull’assalto al forno dei Promessi sposi o sulla folla descritta in Furia di Fritz Lang con la sceneggiatura di Norman Krasna?
E quando il personaggio è il paesaggio? Tutti gli altri si muovono dentro di lui, vivono e muoiono, il filo conduttore del nostro racconto, o almeno uno dei pilasti portanti, è proprio il rapporto fra uomo e natura. Quel deserto di sete che prima di uccidere il corpo strazia l’anima, genera flash back, ricordi, miraggi, oppure quegli alberi secolari che ondeggiano nella foresta, o quell’alberello che è in giardino e che il protagonista vede spoglio in inverno e poi rifiorente in primavera, o il cielo, le nuvole, le stelle, la luna, non è al fine il paesaggio un personaggio lui stesso, a volte il vero protagonista, sottile o manifesto che sia?
E l’alter ego, eh, che dire del personaggio che è il nostro alter ego?
Mi è capitato recentemente, nel gruppo di lettura, di trattare Viaggio al termine della notte di Celine. Qualcuno ha riportato l’idea di alcuni critici sul personaggio di Robinson, alter ego del nostro Ferdinando. È vero, condivido. Però vorrei citare un aspetto più sottile, nel rapporto autore-personaggio, che ho già detto prima, e che ripeto volentieri.
In qualsiasi personaggio c’è l’autore. Vi faccio un esempio, che mi sembra semplice e chiaro. Nel mio racconto serve un personaggio che sia negativo. Chi meglio se non il mio vicino di casa? Lo conosco bene e mi basta descriverlo. È così facile. Come si veste, le parole che dice, i modi di fare. La sua visione del mondo, la mente bacata, l’animo viscido, la viltà più volte mostrata, la pochezza delle idee. Sarà un gioco da ragazzi descriverlo freddamente. Eppure. Il personaggio che ne uscirà inevitabilmente passerà dal mio filtro, e lì dentro ci sono anch’io, io che per fortuna non ho niente in comune con il mio vicino. Forse qualche cosina sì, nessuno è perfetto.
Della vita, e quindi dei personaggi che contribuiranno a sostenerne la mia visione, ho questa idea, che non esiste dualismo. Non sono manicheo, come già ho confessato, ma se voi lo siete non ci sono problemi e sosterrete la vostra idea. Buoni da una parte e cattivi dall’altra. E così se a me serve un personaggio del genere, lo creo in tale modo. Lo zio Stefano: poche idee ma precise, non ci sono margini o dubbi in lui. A me interessa il personaggio e la storia. Attraverso di lui e la sua vicenda cresco nel mio percorso di scrittore, e di uomo che vuole capire come stanno le cose.
In conclusione vi dico: lo sapete tutti che cosa sono i personaggi. L’avaro, la puttana, il brigadiere, lo scrittore, il marito cornuto, il cane e il gatto. Scriviamo, e sui personaggi che facciamo? Ci lavoriamo come Michelangelo con suo David e nel marmo scolpiamo l’opera.
continua il 24 febbraio
Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.
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Dopo la scuola, girovagava per le strade della città fino al calar della notte, quando il buio la costringeva a tornare a casa: due locali in periferia, una mamma rimasta vedova presto e troppo stanca per combattere, tre fratelli capaci solo di picchiarsi e poi lui, l’orco, il crudele padrone delle loro vite.
Era una bella bambina: bionda, capelli lisci, un incarnato rosato inconsueto in una famiglia in cui tutti erano scuri e ricciuti; no, il nonno no, lui era rosso di pelo come una volpe, affamata. La chiamavano Melina e tutti pensavano al frutto, ma era solo il diminutivo di Carmela, il nome della nonna morta giovane cadendo dalla finestra della camera da letto. Lei era ancora piccola, l’aveva sentita piangere e urlare, poi un tonfo: un segreto di famiglia.
Col tempo incominciò a capire:
“Vieni, Melina bella, vieni sulle mie ginocchia!”
Sembrava amore, ma giorno dopo giorno gli occhi che dovevano amarla si erano fatti famelici, la bramavano senza tregua: un abisso di dolore, nel silenzio. A scuola nessuno sapeva, pensavano fosse timida, parlava poco, non giocava coi compagni; in compenso era l’unica che leggeva i libri della piccola biblioteca di classe, nascosta in un angolo quasi fosse una vergogna.
Lì c’era il suo preferito, quello del bambino che vola, che prende per mano Wendy, John e Michele e porta tutti i Bimbi Sperduti nel cielo… SECONDA STELLA A DESTRA,
FINO ALL’ISOLA CHE NON C’È …
Stamattina è uscita presto e ancora vaga in questo strano inverno senza gelo. Il corpo e l’anima pieni di lividi, stanca di piangere sotto le coperte e di avere paura.
Guarda il cielo e nel crepuscolo brilla Sirio la prima stella, lì vicino la seconda, la piccola Nana Bianca; sulla destra, una strada dritta e l’insegna luminosa del posto di Polizia.
SECONDA STELLA A DESTRA,
POI SEMPRE DRITTO
E LA STRADA LA TROVI DA TE
FINO ALL’ISOLA CHE … C’È
di Alessandra Stifani, illustrazione di Alessandro Boscarini
Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)
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Il mio ragazzo non è un bianco, e nemmeno un nero o un giallo, lui non è nato in Europa, in Africa o in Giappone, e veramente non so neppure dove è nato e di che paese è, ma lui è verde, e non è, lo dico subito, un marziano o un extraterrestre, almeno non sembra, ha i sentimenti, le paure, le emozioni di tutti noi, e se mi sentisse dire queste cose si arrabbierebbe molto perché lui è convinto di essere diverso da tutti gli altri, e in un certo senso lo è, altrimenti non sarebbe il mio ragazzo… ha i capelli verdi ed è sempre alterato, ha gli occhi verdi e vede tutto verde, e ha anche la pelle verde perché è ancora acerbo, non è maturo, e se mi sentisse dire queste cose si arrabbierebbe molto perché lui è convinto di sapere tutto della vita, e vive fuori del mondo, rintanato nella sua cameretta e studia, si alza un’ora prima e va a dormire un’ora dopo, salvo appisolarsi sui libri, è un appassionato di astrologia, o per lo meno adesso è questo il suo interesse, è in continua evoluzione, e anche la sua stanza è verde e riflette il carattere, quel carattere che forse io sola al mondo sopporto, e c’è qualcuno che mi dice come fai a tollerarlo, e l’amore è sempre una cosa difficile da capire e da comunicare, e io rispondo che lo amo per quello che è, e non vorrei che cambiasse per fare piacere agli altri, però una cosa ve la voglio dire, e non per giustificare me stessa e farvi cambiare opinione nei miei confronti ma per confidare che cos’è, secondo me, l’amore…il mio ragazzo non ha i capelli verdi, né la pelle, e nemmeno gli occhi, e la sua stanza in realtà è bianca, ma quello che vede la gente è solo il riflesso della sua immagine, lui è così, mostra un colore, e io lo amo, amo lui e il suo colore, e so che un giorno verranno fuori tutti gli altri, una miriade di colori, i colori che non vi potete immaginare, sarà un’esplosione, e non un miracolo. Sono i colori che io già vedo, e questo per me è l’amore.
di Anna Bentivoglio, illustrazione di Renato Pegoraro
Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)
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Allora, vediamo se tutto è pronto. Pasta con le sarde scappate, fatta. L’acqua già bolle. La spigola al sale la metto in forno quando servo l’aperitivo, così la mangiamo calda. Le zucchine alla scapece sono perfette tiepide, nessun problema. In frigo ci sono le cassatine alla siciliana (ricetta segreta di Nonna Rosalia, non hanno mai fallito un colpo). IL Donnafugata è in freezer, già aperto. Continuo a tormentarmi così da piu’ un’ora, facendo la spola tra cucina e finestra della sala da pranzo. È tutto pronto. Bicchieri di cristallo, posate d’argento prese in prestito dai miei, portatovaglioli e sottopiatti di legno. Perché sono così agitato, allora? Perché non arriva, sono due settimane – da quando cioè l’ho convinta a venire a cena da me – che non solo non dormo, ma avrò cambiato il menu una trentina di volte. Poi dicono che la strada del cuore passa per lo stomaco. Quale stomaco? Non penso che a lei. Non ho più fame. Non ho più concentrazione. E la sogno, irrimediabilmente, a occhi aperti. Sogno quello che le potrei dire, di rivederla non appena ci siamo salutati, di come la potrei far ridere ancora, per sentire quella sua risata a testa indietro che squarcia qualsiasi discorso, per vedere quei denti bianchi e quegli occhi che si inumidiscono. Cazzo, comincia pure a nevicare. Cos’è, il citofono? Mi precipito, sì, è al terzo piano!
Il suo odore la precede. Un misto di timo e mughetto, sfacciato, quasi arrogante. Entra, ed è un pugno allo stomaco. Provo a darmi un contegno, ma sono già fuori uso. Mi guarda ed è come se dicesse “Mio”. Beviamo, e non capisco cosa sto dicendo. Provo una sorta di dicotomia. Lei parla, ride, scherza, mi guarda con il suo solito sguardo che mette in disordine mente e stomaco e poi c’è un altro io che parla e la fa ridere. Ma in realtà io, il mio vero io, non ha altra occupazione che guardarla, goderla, immergersi nei suoi occhi. I piatti mi danno una mano, Nonna Rosalia è una garanzia. Mi fai vedere la tua casetta? Certo, vieni, non è un gran che. E in un attimo (ma non stavamo in soggiorno?) ci troviamo sul letto. E lì continuiamo a mangiare, a nutrirci l’uno dell’altra. Io perdo la conoscenza di spazio e tempo. È tutta una nebbia indistinta che ruota attorno a questi due occhi magici, che mi parlano di calore, di tramonti, di vino, di corse sulla spiaggia. Le nostre pelli restano attaccate, a lungo, come se l’unica possibilità per sopravvivere fosse quella di unirci il più possibile. Odori, sapori, sguardi, parole, si uniscono. I nostri piedi, freddi, parlano un linguaggio che non conoscevano prima. Si accarezzano, si intrecciano, si conoscono, si capiscono.
È questo l’amore?
Non lo so, l’unica cosa che capisco è che i nostri corpi, le nostre anime si stanno appartenendo. Restiamo incollati così, nel buio, con i battiti dei cuori che rallentano, solo ora. Ed è qui che ho cominciato ad avere paura. Di quello che succederà tra qualche minuto, o di quello che succederà domani. È questo l’amore?
di Gianluca Fiore
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Com’è possibile scrivere un racconto senza personaggi, anche se, come spesso capita nel nostro caso, si tratta di racconti di sole duemila battute? I personaggi nella narrativa sono come l’acqua nel mare. Se ne vogliamo parlare, la cosa si fa lunga, perché il mare è vasto.
Riprendiamo la differenza fra la prima o la terza persona e facciamo un sacco di letture, di confronti, ma quello che dico sempre è che siamo qui per scrivere, e quindi scriviamo. Do per scontato l’importanza dei personaggi, e quando li descriviamo, nel loro aspetto fisico, di come sono vestiti, o nudi, nel loro carattere e modi di essere… a chi ci siamo ispirati, magari mettendo insieme le caratteristiche di due o più persone che conosciamo… non è forse un divertimento tutto questo? È il bello della nostra arte, la capacità che abbiamo acquisito, come uno scultore aggiungiamo e togliamo creta da quella figura che non è ancora diventata ciò che abbiamo in mente.
Per chi ama raccontare in prima persona, l’io narrante è davvero uno spettacolo sul quale e con il quale giocare. E la terza persona, il protagonista della storia? Il lettore ci chiede sempre ma sei tu quel personaggio, la storia è autobiografica? Quando descrivo quel personaggio generoso e spendaccione, mentre sanno tutti che io sono un tirchio della miseria, non sono sempre io? Dobbiamo scomodare per forza il buon Flaubert per sapere che Madame Bovary c’est moi? Qualcuno vuole rimarcare che la nostra scrittura è creativa? Senza la creazione di personaggi non c’è narrazione. Quando ci servono li inventiamo. Abbiamo già un’idea ben definita della nostra opera, c’è il personaggio principale, e poi gli altri, più o meno importanti, e quelli detti minori. Ci capita però di trovarci in una situazione di stallo, l’azione non va avanti, s’è bloccata. È in realtà la nostra fantasia che ha perso vitalità, e con essa la storia. Andava tutto così bene, e adesso? Inventiamo uno o più personaggi, ci salveranno da quella pagina arida che non ci aspettavamo di incontrare. E chissà che quel personaggio soccorrevole non acquisterà una sua autonomia e comparirà in altre pagine.
E possiamo anche averne uno solo, di personaggio, come quello che si è trovato solo al mondo e gira disperato dalla prima all’ultima pagina.
Continua il 17 febbraio
Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.
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