Ma chi l’ha detto che l’amore è rosso?
Isotta pensava a questo mentre cercava di buttar giù le prime righe del suo “corto”. Non aveva mai amato i luoghi comuni e ora, proprio su uno dei più comuni, quasi un assioma, doveva scrivere qualcosa. Avrebbe potuto raccontare della sua gatta rossa: l’affetto per i propri animali non è una forma d’amore?
Non era nemmeno il suo colore preferito e d’istinto avrebbe scritto la confutazione del tema. Se le avessero chiesto di associare l’amore a un colore avrebbe scelto l’azzurro o il verde, tinte che da sempre le trasmettevano serenità, appagamento. Il rosso era vitalità, energia, le faceva venire in mente sua madre che amava le scarpe rosse. E le ricordava che si era vicini a Natale.
Si guardava intorno alla ricerca di una minima ispirazione e i pensieri si mescolavano a una sensazione di umido: l’inverno non era più freddo come quando era una bambina, ma umido. La sala d’attesa della stazione era vuota.
Aveva perso il treno, per l’ennesima volta. Luca era di sicuro già arrivato e la stava aspettando in auto.
Luca, il suo colore azzurro.
Lui sempre in anticipo, lei sempre in ritardo.
“Quando ti deciderai a imparare a guidare?”. Le ripeteva Luca. E faceva dell’ironia sul suo nome: Isotta, come la famosa automobile e lei non aveva nemmeno la patente!
Cominciava, però, a sentire un pò di tensione quando si toccava l’argomento puntualità e si aspettava che, prima o poi, lui le dicesse che era stanco di aspettarla alla stazione, stanco che finisse di studiare, stanco di non essere presentato a suoi.
Tirò fuori il cellulare dalla borsa: scrivergli che era in ritardo? Non erano soliti mandarsi sms. Lei arrivava. Sempre. Lui aspettava. Sempre.
La prese una sensazione di malessere. Avrebbe voluto non aver perso quel treno. Lo avrebbe voluto per lui. Lo avrebbe voluto per loro due.
Capì che il treno era lei, sempre in corsa e Luca la sua fermata. Ma non lo trovò ad aspettarla quel giorno.
Luca, il suo colore azzurro.
Tornò a casa.
E fu colore nero.
Giunse Natale. Le luci sul balcone, l’albero addobbato a festa, la tovaglia rossa. Luca era lì. Un pensiero veloce la attraversò. Sorrise. Luca era proprio azzurro!
Tra i regali Isotta trovò una piccola scatola. Dentro un orologio con un cinturino di pelle rossa e un biglietto: “Rosso come l’amore. Per non perdere (più) gli appuntamenti con la felicità. Papà.”

di Anna Rosa Confalonieri, disegno di Anna Lucrezia Rossi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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A chi lo elogiava pubblicamente nel grande salone col lampadario dai mille tentacoli, il capitano Gregori rispondeva con un lieve sorriso. In quelle maree di complimenti da anni si orientava con l’unica bussola che gli consentiva di non andare alla deriva: il silenzio.
Il solo movimento verso l’altro (l’issare un calice) lo dedicò a quei due sposini, di classe sociale così lontana e voglia di vivere così vicina, che sul pontile, abbracciati, guardavano la terra promessa. Insomma, la luce della celebrità e l’illuminazione degli applausi lo accecavano. Così cercò ombra nel ventre di un bar, dove sapeva e salpava la ciurma, compagna di quel viaggio che in altro mondo non poteva certo finire.
Ma ognuno ha le sue stanze, e vedere un capitano tra i beoni e i bestemmiatori è cosa ben rara. Eppure nessuno fece caso al suo ingresso perché tutti quanti erano raccolti attorno al mozzo. Seduto su una sedia sgangherata, il mozzo, sudato, raccontava: “In mezzo al mare una donna bianca, così enorme, alla luce delle stelle, che di guardarla uno non si stanca”.
E quando un impertinente “eri ubriaco marcio” chiese: “Hai almeno un testimone senza bottiglia che era con te sul cassero quella notte?”, gli occhi del mozzo, alzandosi, incontrarono quelli del capitano. Il silenzio, così fuori rotta in quel sotterraneo, spostò il faro dell’attenzione su quel lustre ospite che laggiù non aveva autorità.
Il capitano girò le spalle, andò al bancone, e sentì il dito indice del mozzo all’altezza dei reni. Ordinò da bere. Il barista versò un’insinuazione nelle sue orecchie: “Io non ho mai messo piede sull’infinito vivente ma ti assicuro che di tutti gli sguardi che ho visto da dietro questo sbarra, tu sei proprio uno di quelli che la Venere bianca l’ha vista per davvero!”. Il capitano non lo guardò nemmeno, trangugiò, lasciò una banconota tanto grande da far riempire i boccoli agli astanti e se ne andò mentre il brusio per quel racconto inverosimile cresceva d’intensità.
In camera aprì la finestra, si accese la pipa “in questa alba fresca e scura che rassomiglia un po’ alla vita. C’è solo un po’ di nebbia che annuncia il sole. Andiamo avanti tranquillamente”. Fu l’ultimo suo canto.
Lo trovarono la mattina seguente. Era diventato una statua ornata da candide conchiglie. Se lo annusavi riconoscevi il profumo del mare.
Lo deposero al Museo della Marina cittadino.
Leggenda vuole che se si sta innanzi a lui in perfetto silenzio si ode la risacca. Leggenda vuole che l’apparizione della Venere bianca, per alcuni sia una maledizione e per altri una benedizione; per taluni sia voglia di vivere, per altri voglia di morire.

di Paolo Negri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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I PERSONAGGI, crearli è un divertimento

Per quanto incredibile sia, c’è gente che scrive un racconto senza metterci un personaggio, o quasi, a stento lo accenna, impalpabile figura di contorno. Potrei fare tanti esempi, e ne riporto uno che conosco bene: il mio.

Volevo scrivere un racconto per dimostrare che ogni giorno è diverso dall’altro. Dopo una decina di versioni ero a metà e mi contorcevo ancora su me stesso. Correvo dietro al concetto che volevo esprimere, e ci giravo attorno. Non stavo in sostanza scrivendo un racconto.

La pessima pagina che avevo finora partorito forse era un saggio, ma nemmeno, perché io ero partito per scrivere un racconto, e non un saggio. Volevo sostenere la mia idea grazie a una narrazione leggera, ma pungente. Dopo tanto penare, ho capito che dovevo metterci un personaggio, e mi è venuta in mente la ragazza dai capelli verdi (*) che avevo visto il giorno prima alla stazione. In verità non aveva i capelli verdi. Le ho messo un piercing al labbro, i capelli appunto verdi, i jeans stracci, così si contrapponeva all’io narrante che passava le sue giornate monotone in ufficio nell’attesa delle ferie, o dell’uscita del lavoro alla sera per cercare di vivere una vita ormai compromessa dall’abulia e dal troppo tempo sprecato.

Nella seconda parte ho avuto l’idea di mettere una ferita segreta sull’addome della ragazza, perché lei veniva da una guerra di un paese vicino, e così ho aumentato il divario fra i due, tanto che quel cretino dell’io narrante alla fine capisce che i giorni non sono tutti uguali, ma piuttosto tutti da vivere.

E di casi come il mio ne ho trovati tanti nei piacevoli mercoledì sera prima, divenuti poi sabati pomeriggio, trascorsi a leggere i racconti dei corsisti. Di chi partiva per sostenere un’idea e alla fine non aveva scritto un racconto, ma solo una serie di considerazioni. Insieme ci siamo divertiti a costruire personaggi veri, in carne e ossa, che mostravano con la loro presenza nella storia quell’enunciato che spesso era scritto nelle prime due righe.


Continua il 10 febbraio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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CORPO CONTUNDENTE *

Nello schema del giallo il punto di partenza è il crimine, l’evento misterioso che qualifica la storia. Il nostro racconto deve comprendere almeno una morte violenta o, meglio, una catena di delitti. In alternativa un caso molto drammatico, come un rapimento o una rapina. Le regole classiche suggeriscono che il crimine debba avvenire abbastanza presto, nella narrazione, per lasciare poi spazio al secondo punto della trama, l’indagine.

I dettagli sono essenziali per la credibilità della storia. Per prima cosa il movente, che sarà proporzionato e determinato da una logica, che fa capo all’assassino. E’ importante perché suggerisce il legame del colpevole con la vittima e quindi scoprirlo indirizza le indagini. Le due grandi categorie di moventi sono: la passionale (amore/odio, gelosia, invidia, desiderio di vendetta ecc.) e l’economica, cioè un beneficio in soldi o di altro tipo che riceverà l’omicida dal suo delitto. In questo argomento dobbiamo però almeno accennare ai serial killer, anche se avranno uno spazio più avanti. Il movente non è subito evidente ma c’è una spinta a uccidere per motivi intrinseci all’assassino e la ricerca di una gratificazione psicologica di varia natura.

La scelta accurata dell’arma del delitto è fondamentale per la partenza dell’indagine, e dà una prima indicazione sul colpevole. L’assassino non la sceglie a caso, e quindi nemmeno l’autore deve farlo! Le possibilità sono tantissime: solo Agatha Christie, nei suoi romanzi, ne ha usate almeno sedici diverse: dall’investimento al tradizionale colpo di pistola, fino all’arco e frecce o una scarica elettrica come in Poirot e i quattro.

Vale il consiglio generale di considerare la forza fisica che serve per usarla e di tener presente la differenza tra uomo e donna nella scelta, per propensione psicologica. L’autore deve avere o acquisire nozioni tecniche e anatomiche, ad esempio deve saper descrivere gli effetti di un fungo velenoso oppure la forma di una ferita da pugnale.

In alcuni gialli l’arma è al centro del mistero perché non si trova o perché è strana, diabolica. Qui scatta però il solito avvertimento di evitare soluzioni troppo complicate e inverosimili, per non forzare la credulità del lettore.

Per citare un raffinato strumento di morte in letteratura segnalo il velenoso acido cianidrico versato in un serbatoio per nebulizzare il pesticida di un trattore in La tomba di Helios di Pierre Magnan.

E per quanto riguarda un movente particolare ecco l’incipit di La morte non sa leggere di Ruth Rendell:

Eunice Parchman sterminò la famiglia Coverdale perché non sapeva leggere, perché non sapeva scrivere.

Che è anche un bell’esempio di inizio fulminante.

* Georgette Heyer  1938

Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.


continua il 22 febbraio 2024


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Quel sabato nella via c’era la solita marmaglia di turisti affamata di souvenir. Victor tirò su la saracinesca della bottega di antiquariato in Portobello Road. Da quando la moglie Elisabeth lo aveva lasciato, ogni azione era più pesante: aprire il negozio, portare fuori gli scaffali e riporvi la mercanzia. Aveva sempre dubbi sugli abbinamenti, “Cose da donne “ bofonchiava sotto la barba incolta. Lei non avrebbe sopportato quel look trasandato, ma ormai non c’era più e anche l’uomo ben rasato e curato se n’era andato con lei. Era tornato quello burbero e selvatico, quello che si metteva i vestiti del giorno prima. Aveva anche ripreso a fumare, perfino di notte, ogni volta che il pensiero di lei lo teneva sveglio.
Una parvenza di dignità l’aveva mantenuta, per Bess, sua figlia. Il musetto roseo illuminato dai dentini da latte aguzzi spuntò dall’uscio a cercarlo.
“Ciao papà!” la sua voce cristallina lo fece trasalire, mentre disponeva la targa vintage dei sigari cubani di fianco a quella del rum Havana Club. “Ciao Bessy, cosa ci fai qui? Non dovevi fare i compiti?”, la rimproverò, “sì, ma mi annoiavo, ti aiuto?”, suggerì lei, “non è necessario, vieni giù dopo, chiudo il negozio e ti porto in un posto speciale, ok?” Victor sfoggiò il suo sorriso migliore, e le dette un buffetto sulla testa ricciuta. Bess sparì mogia nel locale, e lui appese un modellino di Fairey Swordfish, vicino al triplano del Barone Rosso.
Arrivavano i primi clienti. Lui si fingeva impegnato, ma appena perdevano interesse, si fiondava da loro per illustrare gli ultimi arrivi e le offerte del giorno. Era tardi, e di Bess nemmeno l’ombra. Girò il cartello sulla la scritta “Closed”. Si diresse verso la porta dietro al bancone, e imboccò le scale che portavano al loro appartamento.
La bambina era ferma alla finestra, gli occhi puntati al cielo che imbruniva. Aspettava la prima stella, quella della mamma, come lui le aveva raccontato tante volte. “Eccola è lei, papà, ci sta guardando!” Victor la strinse dolcemente tra le braccia e le sussurrò: “Stasera andiamo sul London Eye (1) , così quando saremo in cima ci sembrerà di essere lì con lei e potremo quasi toccarla con un dito”.

(1) ruota panoramica di Londra situata sulla riva sud del Tamigi

di Olga Riva Rovaglio, illustrazione di Silvia Gabardi

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Si alzò con calma, non aveva fretta né voleva svegliare anzitempo i bambini.
Spinse la coperta che chiudeva l’ingresso della tenda e alzò gli occhi al cielo: un’altra giornata di bianco lattiginoso, l’aria ferma, un silenzio opprimente.
Quattordici anni appena compiuti e un unico scopo: sopravvivere.
Guardò i fagotti stesi sul pavimento: quattro bambini sconosciuti che aveva trovato per strada; l’avevano implorato di portarli via dalla città abbandonata e adesso erano la sua famiglia.
Venus e Alba, quasi ragazzine, che portavano in spalla i piccoli quando erano troppo sfiniti per camminare: Jem, gli occhi scavati il corpo scosso da tremori, si spegneva giorno dopo giorno e il piccolo Adam, che ancora sapeva sorridere.
Le scorte di acqua erano quasi finite, oggi avrebbero raggiunto il crinale delle colline, scavato nel fondo delle crepe e, forse, sarebbero sopravvissuti, almeno un po’.
«Max, dove sei?»
«Adam, cerca di dormire! È presto per mettersi in cammino!»
«Ho paura, vieni da me, raccontami ancora la storia del nonno»
Già, la “storia del Nonno”: era passata di bocca in bocca da generazioni e nessuno sapeva più chi fosse il Nonno. Max l’aveva sentita da suo padre, che a sua volta l’aveva sentita da uno zio, e lui chissà da chi…
Si accoccolò vicino al bambino e sussurrò:
«C’era una volta una grande casa piena di bambini e animali in libertà. La chiamavano fattoria, era circondata da campi e alberi carichi di frutti. In lontananza si sentiva il rumore del fiume carico d’acqua che correva verso valle …»
Il respiro di Adam si fece regolare, bastava poco per sognare.
«Max ti prego continua!» Anche Venus e Alba si erano svegliate.
«… Si susseguivano le stagioni, il sole, poi la pioggia e la neve: faceva un gran freddo, la terra restava sotto una coltre bianca a riposare, pronta a rinascere a primavera…»
Jem emise un lamento, bruciava di febbre e non trovava riposo.
«… e quando il cielo si faceva scuro e tuoni e lampi di luce spaventavano il cuore dei bambini, dal cielo cadevano secchiate di pioggia, lo chiamavano temporale…»
«Max, hai mai visto un…?»
La parola rimase sospesa, in lontananza un brontolio sconosciuto, un vento forte.
Si alzò di corsa e uscì dalla tenda: il cielo era scuro, pareva correre verso le colline: dovevano essere così le nuvole cariche di pioggia!
Max non aveva mai visto un temporale, né la pioggia, né prati né alberi, ma seppe che erano salvi.

di Alessandra Stifani, foto di Alessandro Boscarini

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L’INCIPIT, chi bene inizia

Nella vetrina della prima sede del Cavedio invia Cavallotti, nel centro storico di Varese, dal 2000 e per diversi anni, esponemmo racconti brevi, anzi brevissimi. Massimo 2600 battute spazi compresi. L’ipotetico lettore al quale ci rivolgevamo era un passante al quale potevamo chiedere solo pochi minuti di attenzione. Fondamentale l’incipit. Se le prime due righe non erano più che accattivanti perdevamo un cliente, che per sua natura non ha tempo da perdere.

Una situazione stimolante. Da noi pretendeva il meglio.

Mi ricordo un amico giornalista che aveva la fissa dell’attacco, e ricordo il suo cestino pieno di fogli accartocciati (a quei tempi si scriveva con la macchina per scrivere), ma ricordo anche i suoi articoli, che iniziavano sempre in modo originale.

Se questo è l’impegno di ogni bravo giornalista, per uno scrittore un buon inizio è ancora più importante. Per un racconto, dove l’attacco è risolto in poco spazio, ma anche per un romanzo. Il fatto che poi ci saranno centinaia di pagine da leggere non giustifica uno scarso impegno nella prima.

Quando sento qualche lettore che parla di libri che incominciano a essere interessanti dopo venti pagine sto male, e mi chiedo come abbia l’autore potuto pubblicare, se non come raccomandato. Non capisco neppure il lettore che si sente in obbligo di continuare a leggere. Forse lo fa per giustificare il costo del libro.

Penso che il tempo in questa vita a mia disposizione non sia tanto, di sicuro non mi va di sprecarlo, e così cambio lettura. L’incipit, di racconto o di romanzo che sia, è il suo biglietto da visita. Suggerimenti? Vi direi di riprendere in mano i libri che avete letto e di rileggere la prima pagina.

Ci sono autori che da subito ammaliano e fanno intendere che cosa ci attende. Un canto di sirena che ci chiama, per vivere un’avventura.

Personalmente non amo gli incipit con il discorso diretto, anche se vi sarebbero ottimi esempi pure in questo senso. In genere li trovo deboli, mi sembra che l’autore abbia fretta di far parlare i suoi personaggi. Mi è capitato a volte, in questi casi, di dare il suggerimento di attaccare con una breve descrizione sul personaggio o sull’ambiente, e poi, subito dopo, introdurre il discorso diretto. Quasi sempre il risultato è stato buono. Mettiamo a confronto il primo incipit con la seconda versione, nella quale abbiamo fatto precedere le parole di un personaggio da una breve descrizione, e poi decidiamo quale sia più efficace.


Continua il 3 febbraio

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Chi si ferma è perduto! gridano i tenenti. Chi si ferma è perduto! ripetono i sergenti.
Cammino un giorno intero. Sono stanco, ho fame, ho sonno. Fiume ghiacciato. Terreno ghiacciato. Nevica, e la neve si accumula. Un passo dopo l’altro, e con la neve fresca il passo è più pesante. Ho fame. Ho sonno. Voglia di buttarmi in questa morbidezza, e dormire. Per sempre. Addio, mondo fasullo. Mi hai ingannato, e io c’ho creduto. Ho creduto all’amore. È finita, prima di cominciare. Papà, mamma, fratelli, sorelle. Amici. Mi ricorderete. Quella volta in cui. Olga, in un solo giorno ti ho dimenticata. Non sono più un uomo. Cammino e cammino. Ti prometto, però. L’ultima immagine sarai tu. L’amore. Cammino e cammino, cammino. Laggiù una luce, un’isba. Devo arrivarci. Devo. Salvo la vita. Non è la mia terra. Ho lasciato a casa l’amore perché avevo un dovere da compiere. Adesso l’ho compiuto, ci sono passato dentro, al dovere. Ne sono uscito. Sono un uomo libero. Libero. Voglio solo amare.
Cammino cammino cammino. Chi si ferma è perduto. I russi attaccano, sparano. Oggi c’è il sole. Pallido, ha una faccia da funerale. Il nostro. È lì per vedere, per farci le condoglianze. E le pernacchie. Ride di noi, stupidi animali. Incontro alpini che hanno camminato avanti e adesso si sono afflosciati. Feriti, induriti dal freddo.
Uno è steso, rannicchiato. Un modo originale per trapassare. Un feto nella placenta. È già morto, e prega ancora. La morte ama tutti.
Un altro è in croce. Gli è venuto spontaneo stendersi come un Gesù Cristo. Non c’è Maddalena, non ci sono le pie donne, e chi passa capisce. La morte ama tutti.
Un alpino si è inginocchiato, e così è rimasto. Figurante di un presepe. Ma qui è il calvario. Dentro tutta la vita, da Betlemme alle Tre croci. La morte ama tutti.
Vedo il poeta Bernasconi Alvaro seduto nella neve. Alvaro, Alvaro. Non ce l’ha fatta. Gli è bastata una notte di gelo. C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico. La morte ama tutti.
Io no, resisto, e cammino. Vivo il doppio, come quel giorno che mi alzai con Olga nella mente. Io sono quello che morirà, e guardo i morti che camminano con me. Sono cosciente. Il soldato che racconta è un altro. Lui scrive nel vento, e consegna parole all’Infinito. Io ho lo zaino in spalla, il fucile a tracolla.

di Abramo Vane Pagina tratta da “Il soldato inutile” di Abramo Vane Edizioni Il cavedio 

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La tavola è ricoperta di piatti: carni e verdure spiccano colorati sulla tovaglia bianca, i bicchieri tintinnano allegri e tutti si servono dalle zuppiere stracolme. Rido e mangio senza pensieri quando una voce improvvisa, dura, spegne il mio sogno e i colori. Sono sveglio, devo lasciare andare le ultime immagini. Rifaccio la cuccetta in fretta. Esco dalla baracca in un mondo in bianco, nero e grigio. Fa freddo. Non è ancora l’alba e il cielo è senza stelle. Mi metto in coda insieme agli altri per il pezzo di pane, la razione di un giorno, che mangeremo a piccoli morsi per farlo durare di più e ne raccoglieremo le briciole.
Anche il pane è grigio, senza colore e senza profumo. Ci sembra buonissimo.
Davanti a me il mio vicino di cuccetta, 174517, un ragazzo di meno di vent’anni, barcolla. Cerco di sostenerlo perché non cada, senza farmi vedere da nessuno, con un gesto che si perda nel buio. Lui si volta e mi guarda in silenzio. La faccia è un teschio, le braccia e le gambe sono quelle di uno scheletro. Gli occhi hanno dentro lo scuro del cielo. Non ce la farà.
In lontananza strie grigie di nuvole si confondono con la neve sporca che ricopre il terreno. Dietro i reticolati file di alberi dai rami nudi coprono i campi alla vista.
Prendo il mio pezzo di pane e resto vicino a lui mentre ci allontaniamo dalla zona della distribuzione. Aspetto che l’Unterscharfűhrerse ne vada e che i soldati guardino da un’altra parte. Molte cose sono proibite, qui.
Camminiamo insieme, il suo passo è più incerto e più lento.
Mi decido, stacco un pezzo del mio pane. Grosso. Lo tendo al ragazzo senza parlare. Forse non ce la farà. E nemmeno io.
Ma quando tiene tra le mani il pezzo di pane, per la prima volta lo vedo sorridere anche con gli occhi. Non sono più del colore del fango, ora sono blu.

(Giornata della Memoria, 27 gennaio)

di Angela Borghi

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