La salita alla baita non finiva mai. Le ruote della Panda 4×4, un modello di dieci anni fa noleggiata in aeroporto, tradivano una scarsa aderenza al terreno coperto da un sottile strato di ghiaccio. Lisa guardò il cellulare: poco campo. Anche il navigatore le era di scarso aiuto: non riconosceva il percorso, ma la voce, che la invitava a svoltare indietro appena possibile, le teneva compagnia. ”Speriamo di non rimanere a piedi in questo deserto bianco”. Pulì con la mano la condensa che si formava sul parabrezza e si piegò leggermente in avanti per vedere meglio la strada. Il paesaggio era magnifico e un po’ inquietante. La neve, scesa copiosa nei giorni precedenti, aveva coperto i rami dei pini che affollavano la vallata. Tutto era candido e fermo. Su una curva la macchina fece un rumore da ferrovecchio stanco di essere al mondo. “Non mi abbandonare proprio ora”. Ma la Panda non l’ascoltò. Lisa batté un pugno sul volante e girò con forza la chiave nel cruscotto. L’auto sussultò e poi si spense. Guardò di nuovo il cellulare: morto. Non poteva nemmeno avvisare Luca. Aspettò qualche minuto, immobile, le mani strette sul volante. Tirò un sospiro, aprì la portiera e scese dall’auto. Allacciò il piumino, infossò la testa nel cappuccio di pelo, mise la torcia in tasca e si avviò a piedi. Camminava a passo svelto per combattere il gelo che veniva dal terreno, le irrigidiva la punta dei piedi e saliva lungo la schiena. Un brivido la scosse, sfregò le mani per scaldarle e accese la pila. Il fascio di luce le diede sollievo. “Perché ho ceduto! Io odio la montagna!” Cosa avrebbe dato ora per essere su una spiaggia tropicale ad aspettare l’anno nuovo con le sue amiche! Sentì un rumore. Si voltò di scatto a scrutare il paesaggio intorno a lei. Trattenne il respiro. “Non è nulla, è la mia immaginazione, magari ci fosse qualcuno”. Riprese a camminare, l’orecchio teso, le gambe pesanti, aveva freddo. Dal cielo gonfio, scendevano leggeri fiocchi di neve, che sul terreno asciutto attaccavano e facevano scricchiolare gli scarponi. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé. I fiocchi, infittiti, creavano un muro attraversato dalla luce della torcia e si posavano sulle ciglia. Gli occhi di Lisa si velarono. Il sapore salato delle lacrime sulle labbra di nuovo le portavano la nostalgia delle spiagge e del mare. Era sola in tutto quel silenzio e non vedeva bene. Scivolò. Un colpo secco alla testa. Qualcosa di caldo le toccò le tempie. Forse una carezza di Luca. Doveva essere arrivata alla baita. Le sembrò di sentire la musica e il tepore del camino. Era contenta di essere lì. Il freddo era sparito. Sarebbe stato un romantico Capodanno. Chiuse gli occhi, mentre la neve si tingeva di rosso.

di Anna Rosa Confalonieri, fotografia di Leonardo Pigoli

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Qualcuno ha fatto la spia, come ai tempi del Kgb in Russia. Il Beppe Colombo l’altra sera tornando a casa è stato bloccato dai carabinieri, e gli è andata bene perché ha pagato la multa di 400 euro. Se gli avessero fatto l’alcol test era peggio. Suo cognato che abita di fronte al bar di Silvano, che quello spiritoso dell’RPK ha ribattezzato Il Bar dei Birla, è stato fermato alle tre di notte e portato in questura come un partigiano della brigata Garibaldi. Non gli hanno dato l’olio di ricino, ma due ceffoni sì. Lui non ha parlato.
– Sono andato da mia mamma che ha ottant’anni e ha preso il coronavirus – ma l’alibi ha funzionato solo quando ha tirato fuori un certificato medico compilato dal dottor Fuscari.
Silvano si è messo al riparo. Ha murato la porta di dietro, che adesso solo lui può aprire dal di dentro e chi non lo sa dall’esterno non la vede nemmeno. La saracinesca davanti in strada è abbassata, e lui il bar a mezzogiorno non lo apre. La vita inizia con l’aperitivo serale, quando gli altri chiudono e i cagasotto vanno a dormire, col coprifuoco, come se fossimo in guerra e arrivassero gli aerei a bombardare gli innocenti. E chi glielo dice a questi che la guerra era un’altra cosa?
Il clima si è fatto più teso ultimamente, e il dottor Fuscari si è messo a scrivere certificati a tutto spiano. Il televisore è spento e nessuno vuol vedere le partite di calcio perché il calcio senza pubblico è un topo morto che puzza.
Fabio Fabian, in questa ultima serata dell’anno, per sciogliere le tensioni, è salito sulla sedia e ha declamato una sua poesia in dialetto veneto.
A conclusione un coro di bravo bravo, al nostro poeta! accompagnato da un’alzata di boccali.
Giò Bassi ha preso la chitarra e Mimì ha cantato canzoni del vecchio west, così la serata ha preso quota. Un brindisi a Fabian, uno a Giò, un altro a Mimì, e il prossimo vedremo.
A mezzanotte la moglie di Silvano è entrata in sala con il cotechino e le lenticchie.
Il Beppe Colombo, che era arrivato in bici passando nei boschi, ha alzato il boccale per il brindisi di fine anno.
– Brindiamo al 21, che sarà senz’altro peggio del 20.
L’Anselmo ha scosso la testa.
– Ma cosa dici? Con il vaccino il terrorismo sulla gente non avrà più senso e le persone torneranno libere.
– Scemo, non hai capito che il Beppe scherza? – l’ha rimproverato l’Ettore Bignante, che poi ha alzato le braccia chiedendo il silenzio.
– Un attimo d’attenzione, prego, un attimo d’attenzione. Adesso consegnatemi tutti i vostri telefonini, smartphone e qualsiasi strumento che possa essere intercettato.
Li ha messi in una borsa dell’Esselunga ed è sparito su di sopra, poi è tornato distribuendo un foglio a tutti con su una lista di nomi.
– Ragazzi, ragazzi – di nuovo l’Ettore ha chiesto il silenzio.
– Al primo della lista ci penso io! L’operazione è questa: ognuno di noi ne fa fuori uno. Qualunque cosa accada noi non ci conosciamo.
– Che bello scherzo – ha detto l’Anselmo, ubriaco sul suo bicchiere di birra.
Nessuno gli ha risposto.
– Questo non è uno scherzo, scemo!

di Abramo Vane

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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LA POTATURA, un simpatico esempio

Dopo aver scritto un libretto e aver ricordato l’elemento principale della buona scrittura, mi permettete di insistere? Senza la comprensione della riscrittura non arriveremo a uno stile soddisfacente.

Nell’incontro in aula di ieri pomeriggio è germogliato un paragone che è piaciuto a tutti, quello della potatura degli alberi da frutto. Il classico taglio di ritorno, che consiste nel tornare su una gemma a metà ramo e lì intervenire con le cesoie. Facile a dirsi, ma il rametto da eliminare è portatore di gemme che diventeranno frutti, e così ci tratteniamo, abbiamo paura di tagliare troppo, ci dispiace rinunciare a quei frutti. Un po’ alla volta, vedendo a primavera i risultati, acquisiamo sicurezza. Nel punto che abbiamo potato, da un ramo ne sono usciti due, con nuove gemme che porteranno nuovi frutti. 


Continua il 13 gennaio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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Mi capitò tempo fa di andare al Pronto Soccorso, mia moglie era caduta da una scala e si era rotta in vari punti. Era imbottita di antidolorifici e dormiva il sonno dei sofferenti e a me, seduto di fianco al suo letto, non restava che osservare la varia umanità che si alternava nello stanzone d’ospedale. Un movimento di lenzuola nel letto accanto attirò la mia attenzione: come una tartaruga dal suo carapace spuntò la testa di un ragazzino. Gli sorrisi con un ciao al quale rispose con un salve che esprimeva tutto il gap di età che ci divideva.
Andai fuori a fumare una sigaretta. Era mattino presto e nel cielo scorsi Venere, luminosissima. La mia buona stella, pensai, giornata fortunata! Al ritorno il letto del ragazzo-tartaruga era vuoto. Un’infermiera azzurra si avvicinò e mi chiese: “Dov’è andato il ragazzo? Lo aspettiamo per la TAC, glielo dica lei, è suo padre?” “No”, e un brivido mi corse lungo la schiena, io non avevo figli, purtroppo. Lui tornò trascinandosi appresso una piantana con la flebo. Visto in piedi notai che era molto magro, poveretto, chissà come mai era lì dentro.“Ti hanno cercato”, gli dissi “devi fare la TAC”. Non sembrò interessato alla cosa e con movenze lente, degne del suo status, si sdraiò, spossato. Prese il cellulare e fece vorticare il pollice sullo schermo come solo i ragazzi sanno fare. Poi con l’unico braccio libero tentò di sistemarsi i cuscini dietro la schiena. “Vuoi una mano?” “Sì, grazie”. “Ci mancherebbe”, sono tuo padre, pensai. Riprese il cellulare: “Ma chi è questo?”. Lo disse per farsi sentire da me? Forse. “Mi scrivono, ma io non li conosco”. Il mio sguardo doveva avere i punti interrogativi al posto delle pupille perché subito dopo aggiunse: “Ho perso la memoria. Ho battuto la testa e non mi ricordo più niente. Mi arrivano dei messaggi, e non so chi sono”. Rimasi instupidito, senza sapere cosa dire, ma l’infermiera azzurra che era tornata mi tolse dall’imbarazzo. Prima di andarsene, il ragazzo-tartaruga mi disse: “A dopo”. Quindi ci sarebbe stato un dopo, avevo il tempo di riordinare le idee e recuperare l’impasse. Ha perso la memoria? Non sa chi è? Mi balenò allora nella mente un pensiero spudorato. E se gli dicessi che sono suo padre? Che anche la mamma è caduta con lui e presto ce ne torneremo tutti e tre a casa? Ci occuperemmo di lui, lo accudiremmo e alla nostra morte erediterà la casa… e immerso nella mia allucinazione vidi con occhi nuovi rientrare il tartarughino: “Mio padre è venuto a prendermi, i medici dicono che sarà questione di qualche giorno, poi mi ricorderò”.
Assaporavo la sigaretta, e nel cielo terso dell’imbrunire brillava la stella della sera, ancora lei, Venere. Che illusione, pensai, Venere non è una stella!

di Ester Tognola

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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APPUNTAMENTO CON LA PAURA *

Suspense deriva dal latino suspensum, “in sospeso”. E’ un ingrediente essenziale, nel giallo. Va tenuta viva durante lo svolgimento della trama. Bisogna agire sul ritmo, ma senza rinunciare alle parole per l’ambientazione, alla complessità psicologica, persino alla divagazione, con equilibrio.

Per mantenere lo stato di tensione emotiva, di inquietudine, possiamo ricorrere a espedienti. La minaccia di un’azione violenta o pericolosa. Descrivere avvenimenti che suscitano emozioni o esperienze emotive. Creare ostacoli al protagonista come scadenze di tempo o danni fisici che ne limitino l’azione e lo rendano vulnerabile (come il personaggio di Amnesia di J.C. Grangè). Saper dosare anticipazioni, digressioni, flash-back, dettagli all’apparenza insignificanti, situazioni insensate o casuali.

La suspense è potenziata dall’atmosfera che costruiamo intorno alla storia. Per questo ci serviamo di tutti i sensi a nostra disposizione, gli odori, i colori, i suoni e anche il cosiddetto sesto senso: ad esempio la sensazione di tragedia che avverte un personaggio, senza ragione. Descriviamo le percezioni sensoriali. L’ambientazione diventa fondamentale, pensiamo a luoghi indimenticabili come il treno bloccato dalla neve in Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie o l’Istituto psichiatrico su un’isola disabitata in L’Isola della paura di Dennis Lehane.

Qualche appunto sullo stile, fermo restando il concetto che ognuno ne troverà uno personale, che riflette il proprio modo di essere, anche sperimentando nuove strade. Lo stile è il modo in cui scegliamo di raccontare la storia ed è fatto di varie componenti: la lunghezza delle frasi, che può essere diversa in base alle azioni da descrivere, il lavoro sulle immagini piuttosto che sulle astrazioni, il linguaggio. Qui il discorso si allarga molto: due consigli generali. Per essere efficace il linguaggio deve essere coerente con l’ambientazione e con i personaggi, è intuitivo che non faremo parlare o pensare uno scaricatore di porto come un baronetto inglese (a meno di personaggi sotto mentite spoglie…) oppure che non useremo neologismi in un giallo storico. Forse è un consiglio banale, rilancio suggerendo, come già fatto per i luoghi della storia, di raccontare di ciò che si conosce e di cui si sanno usare le parole. Inutile ripetere che chi scrive impara a “maneggiare” il linguaggio e arricchisce il vocabolario anche con la lettura.

Consigli di lettura su questi argomenti: Quer pasticciaccio brutto di via merulana di Gadda e Dolores Claiborne di Stephen King entrambi per la scelta di linguaggi estremi ma aderenti ai personaggi.

* Agatha Christie  1961

Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.


continua l’11 gennaio 2024


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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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PAROLE GUIDA, trovate le vostre

Ispirazione, concentrazione, e poi metodo e meccanismi psicologici e di scrittura.  E intuizione, che è alla base forse di qualsiasi forma di vita. L’intuizione artistica è inoltre qualcosa di diverso, si muove nella fantasia, e fantasia, a parer mio, è un’altra parola guida.

E poi armonia e unità sono straordinarie. L’armonia della pagina, dei concetti, delle situazioni, delle descrizioni sorregge l’idea di unità. Ma, attenzione, ho detto a parer mio, perché ognuno troverà e si affezionerà a delle espressioni sue proprie che diventeranno davvero una guida originale. Io ho fatto un esempio personale, e tale resta. Il vero suggerimento è di valutare bene il peso delle parole che maturerete e che sentirete come guida. Ma come?

Pensate alla connessione che esse hanno con la vostra vita. Ciò che guida la scrittura guida anche la vita.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


continua il 30 dicembre

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Il suo nome era Mario, ma lo chiamavano Mariolino perché era gracile, trascorreva sempre le vacanze nella casa dei nonni.
Passava buona parte del tempo nel suo rifugio favorito, la soffitta, dove leggeva, e viveva idealmente nel Medio Evo. Si era dato il nome di Bartolomeo, come Bartolomeo Colleoni, il suo modello di cavaliere. Aveva visto una volta a Bergamo la statua equestre rivestita d’oro del condottiero e da allora si immedesimava in lui, inventava storie in cui combatteva e vinceva. Le scriveva e le leggeva al nonno, lui gli faceva da padre. Insieme passavano molte ore.
Il giardino dove giocava era più un bosco che altro, e lì avvenivano le scorrerie più cruente, lui come unico protagonista, oltre a un cane paziente che era, all’occorrenza, un destriero, il nemico, il resto del battaglione.
Il nonno gli aveva costruito un cavallo di legno, come lo usavano ai suoi i tempi, un bastone lungo da tenere in mezzo alle gambe con incollato la sagoma della faccia di un cavallo.
Quando fu più grandicello, costruì una torre di avvistamento in alto sulle acacie, giorni e giorni di tentativi per tenerle insieme, non erano gli alberi più adatti per sostenerla, cadde più volte ma la sua ostinazione nel ricostruirla era più forte del vento. Consumò mille chiodi, corde, martellò ferocemente le dita, ma la torre rimase lassù, ferma e quasi stabile, fino alla fine dell’estate.
Era il giorno del suo compleanno, nove anni. I nonni organizzarono una festicciola, non ci sarebbero stati ospiti, loro tre, la mamma, il destriero.
Scese dalla torre raggiante, aveva sconfitto la Repubblica di Venezia e tornava al castello felice e affamato.
Si fermò, un’auto era parcheggiata nel cortile, sua madre. Ma come, era già arrivata a prenderlo, e la festa?
Da fuori sentì la voce alta della mamma e quella del nonno che urlava, la nonna cercava di mettere pace.
Il nonno accusava la figlia di ricevere in casa uomini.
Uomini? Sì, si era dimenticato della condizione in cui vivevano.
Sapeva che di notte c’era un andirivieni di gente in casa, li sentiva, ma non poteva uscire dalla sua camera. Era un segreto.
Avrebbe preferito vivere con i nonni, qui era libero, felice, non aveva paura, si sentiva protetto, ma non poteva lasciare la mamma sola, a modo suo aveva bisogno di lui.
Urlavano, oh come urlavano.
Tre mesi di felicità cancellati in un solo momento: la realtà. Era stato felice, tanto felice, troppo felice.
Riprese il cavallo e cominciò a correre, galoppare, si fermò sotto il piedestallo del condottiero e guardò su, non era un vero piedestallo ma lo era per lui. Si arrampicò in fretta, dall’alto scorse il nemico che avanzava nel bosco, urlò: “caricaaaa” e con un balzo gli andò incontro

di Elda Caspani, disegno di George Crowhurst

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Bruno era un bruco. Dopo un’operazione coi bisturi diventò Lucrezia. Uscita dal bozzolo, si vestì da farfalla e andò a posarsi tutte le sere sulla panchina che guardava villa Selznick. Da una finestra del secondo piano della villa uscivano le nuvole.
Ma un giorno il maggiordomo chiuse le imposte, fermò l’orologio disegnato sulla facciata e spense il lucernario dell’ingresso. Il signor Selznick da mesi andava rinsecchendosi e quella sera diventò definitivamente un’edera rampicante posta sulla parete nord.
Che si era ora condannati al cielo terso?
Lucrezia volle domandarlo e suonò coraggiosa il campanello.
Le fu aperta la porta d’ingresso ma nessuno la accolse. Ispezionò la casa e il giardino circostante. Incontrò due anziani signori dalla forma di grossi bignè. Un cordiale dialogo svelò la causa della loro impazienza: l’oro. Lo cercavano così da averne abbastanza per forgiare un bambino da vendere al mondo. Col ricavato si garantivano una tomba, una volta defunti e sepolti, dello stesso luccicante materiale!
“E tu, bambina, cosa vai cercando?”. “Le nuvole miei gentili signori”.
Lucrezia si era giusto imbattuta nei sarti cucitori che le indicarono dove trovare gli scarti: “Da quella parte, vai, là si conservano tutte quelle non spedite in cielo”.
Nel vecchio capannone Lucrezia attraversò parecchie nuvole e all’uscita, oltre al piacere, trovò attaccati alla suola delle scarpe i disegni di quella massa di vapore acqueo condensato.
Al maggiordomo che bagnava l’edera chiese informazioni a riguardo e lui, con garbo, le diede le chiavi di una stanza al pianterreno dove la ragazza scoprì l’esistenza di una stampante a forma cubica da cui, se azionata, uscivano proprio i disegni che i due bignè poi cucivano.
Rimase delusa Lucrezia: si aspettava la fantasia ad animare meraviglie, non la corrente elettrica! Eppure volle conoscere gli interni di quel marchingegno.
Chiese il come a due astronomi studiosi dei raggi della bicicletta. Ma essi si mostrarono interessati solo al disegno che formavano, se uniti, i nei comparsi sul suo braccio destro: Cassiopea!
Tuttavia furono ben disposti nel recapitarle l’indirizzo di un matematico indiano che una volta esaminato il “cubo artista” disse: “Geniale! Costruito in modo tale che se smontato non può essere rimontato. Dunque: vuoi altri disegni di nuvole o scoprire come vengono creati?”.
Lucrezia nervosa iniziò a scarabocchiare su un foglio. Un orango tango, amico del matematico, le sorrise, le prese il foglio, lo appoggiò al vetro della finestra e con una mano mimò la caduta della neve.

di Paolo Negri, fotografia di Tiziana Titì Barbaro (Instagram: titi_fotoamando)

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Anche oggi la Piana di Salinagrande è arroventata. Perfino il cavallo sembra percepire l’aria immobile che ci circonda, dove nessuno osa muoversi e anche gli animali cercano di risparmiare energia. Il sudore cola lungo il suo collo muscoloso. Trovo rifugio sotto un albero di fico, le Egadi mi guardano, circondate da un’atmosfera tremolante.
Comincio il mio giro di perlustrazione della proprietà, un’abitudine che ho ereditato da mio nonno. Il padrone deve sempre farsi vedere. Scendo verso il mare, oggi è giornata di mercato e nonostante il caldo i contadini sono arrivati dalle campagne per vendere il poco raccolto che la stagione arida gli ha concesso. Già percepisco i loro richiami, come se urlare più forte potesse cambiare la loro giornata.
Il mio obiettivo, però, è un altro. È il banco di frutta di Rosaria. Mi avvicino, e la scorgo mentre il profumo dei meloni e delle angurie mi colpisce, violento.
La guardo. Occhi penetranti, capelli corvini abbandonati lungo le spalle. Gocce colano con una lentezza estenuante tra i seni. La voce, roca, mi risveglia.
Comandi, signor Conte, anche oggi a mischiarsi col popolo? Fossi in lei me ne sarei stata sotto gli alberi di Villa delle Palme. Cosa le posso offrire?
La frutta la conosci te, meglio di me. Cosa vuoi suggerirmi?
Dipende quello che cerca, signor Conte. La frutta è come la vita. Il fico d’India è per chi non si ferma alle apparenze, per chi è disposto ad andare a fondo, a oltrepassare la superficie delle cose. Magari pagando qualcosa in più riesce, alla fine, a godere di splendidi sapori. Un po’ d’uva? Se vuole provare il dolce e l’aspro della vita senza chiedersi prima come sarà, senza sapere se sarà quel chicco a tradirti, l’uva è la frutta per lei. O la banana, che copre tutti i sapori, nessuno escluso, con la sua consistenza morbida e rassicurante?
Mi si avvicina. Dall’alto la sua scollatura diventa ipnotica. Mi rendo conto che le pulsazioni prendono un ritmo insolito. E che anche io sudo, e non so se per la temperatura.
Ma oggi fa caldo, Conte. È la giornata dell’anguria. Una giornata da stare sdraiati alla spiaggia giù alle Saline, con l’anguria a mollo nell’acqua. La si prende, si divide a metà, e si immerge la faccia nella polpa. Si beve, e si mangia. E poi, ancora col succo che cola, ci si bacia. Perché tutto, Conte, diventa dolce.
Ma mi scusi, Conte, come al solito divagavo. Che le posso dare?
Rosaria, dammi un pomodoro. Uno solo. Ma che sia grosso, e saporito. E morbido. Che lo possa mangiare anche chi i denti non li ha più.

di Gianluca Fiore

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