C’è, da qualche giorno, un leone in città, ha la criniera del re e il baffo del conquistatore, passeggia nelle vie di questa cittadina e il tempo si è fermato, ha spezzato la frenesia, lui è lento, agile, forte, dentro di sé ha l’Africa, l’istinto della caccia, e non conosce la psicologia contorta, non l’illusione di Maya, non il superfluo… qualcuno teme per sé e per i figli, il commerciante ha chiuso la saracinesca, ma poi si è affacciato dalla finestra… E mi sono sbagliato, questo leone non è solo, ce ne sono altri, oggi ne ho incontrati almeno tre, il primo è lui, quello che dicevo, ha l’occhio di chi vigila dal suo rialzo e controlla la savana, attento, imperscrutabile, regale, è il sovrano più naturale che esiste al mondo, gli altri lo hanno solo imitato… e il secondo è un giovane leone, è ancora un ragazzotto, ha voglia di giocare, mi sembra un adolescente che non vuole crescere, ma è così bello, e nel suo occhio timido vedo le facoltà che lui ancora non ha scoperto… e poi c’è il terzo, il più inquietante forse, vi scorgo dentro l’essere umano, l’uomo che ritrova i suoi istinti, l’animale che vive nella natura, più lo osservo e più vedo ciò che l’uomo ha perso e che in qualche modo deve ricuperare, se anche lui vuole sopravvivere, se anche lui vuole divenire quello che è… E tutti questi felini sono di proprietà di Samuele Arcangioli, pittore, lui stesso ha criniera e baffo, l’occhio calmo e vigile, lui stesso è un giovane animale timido e manifesta l’istinto primordiale, e ora che l’ho conosciuto meglio direi che questi leoni non gli appartengono. È lui che appartiene a loro.

di Fedele Mozzi, dipinto di Samuele Arcangioli

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Visto dal ponte, questo braccio del Mediterraneo ha l’aria di un animale che sornione respira, senza fretta. Sicuro che prima o poi digerirà tutto quello che arriverà a contatto con le sue acque. Il vento di dicembre fa montare le onde, inizia una nuova giornata a bordo della Aquarius. Guardo la superficie del mare, e cerco di immaginare il tappeto di persone che giace sul fondale. Naufraghi. Uno li può chiamare migranti, ma non sono solo questo. Tutti hanno diritto ad essere aiutati, e salvati. Questo dice la legge del mare, che è anche la legge dell’uomo.
Uno dei ragazzi della Aquarius esce di corsa, hanno avvistato un gommone in difficoltà, l’ennesimo di questo mese maledetto. Più le condizioni sono sfavorevoli, e più si mettono in mare per una traversata che è peggio di una roulette russa. Dieci partono, uno arriva.
Il gommone cominciamo a vederlo, o dovrei dire a intuirlo, dopo mezz’ora di navigazione. Una massa di braccia e di gambe si muove in modo disordinato sul pelo dell’acqua. Vestiti variopinti compaiono e scompaiono al ritmo delle onde, una macabra danza di chi vuole scavalcare gli altri nel tentativo di arrivare primo a toccare la Aquarius. Cominciamo il trasbordo, donne in lacrime per i figli, odore di gasolio, merda, uomini che spingono, pianti non so se di gioia o di dolore.
E poi i morti, come sempre. Lo sappiamo bene, dopo anni di questa vita. I bambini. I vecchi. Il mare è una falce, fa fuori chi non ce la fa. Senza chiedere. Senza pensare a quello che potrà fare quel bambino, o cosa potrà insegnare quel vecchio. E poi le donne incinte, la promessa di un futuro infranta in un’acqua gelida. La disillusione di un amore, di una promessa.
Li issiamo a bordo, li curiamo, li nutriamo. Il ventre della Aquarius li scalda, una chioccia in mezzo al mare. Scappano dal loro Paese. Fuggono dalle loro radici. A volte ci dovremmo soffermare sull’enormità di tutto questo.
Cominciamo a intervenire sullo stato di salute. Dobbiamo lavorare rapidamente, siamo un’ambulanza con il primo ospedale utile a giornate di navigazione. Dopo qualche ora di lavoro convulso e senza sosta, la situazione sembra stabilizzarsi. E tiriamo il fiato. Una sigaretta, un bambino che ti si accoccola sulle gambe e dorme, magari sogna il padre. Una donna che ti guarda sussurrandoti cose che non comprendi, ma capisci.
Alcuni si inginocchiano davanti a un vecchio, che parla loro a voce bassa, una breve litania appena sussurrata. Tocca le teste, e da una piccola scatola tira fuori delle ostie. Un prete. Una Messa improvvisata. Poi ricordo, oggi è Natale. Anche qui, lontano dal modo civile. E accarezzo i capelli di questo scricciolo che ho sulle gambe.

di Gianluca Fiore

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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IL CONTROLLO, per dare vita alla fantasia

Scriviamo una paginetta, oppure un romanzo di mille pagine, ma le parole non ci debbono sfuggire, non possiamo buttarle sulla pagina bianca senza criterio. La pagina bianca è sacra. È la partenza, e l’arrivo. Il rispetto, di ciò che è superiore a noi, e la comprensione delle parole, che è la guida e lo scopo dello scrivere, debbono essere un costante riferimento nella nostra mente. Scriviamo quello che vogliamo, ma tutto deve essere sotto controllo. L’amore muove i nostri passi, è l’impulso vitale, è una luce che ci guida, ma se non controlliamo tutto questo rimarremo nella banalità, nelle belle idee inespresse, o espresse fino a un certo punto. È questa la differenza, la sensibilità e la maturazione che ci portano su percorsi inesplorati.

Verso l’Infinito. E ciò che appare contraddizione, vita e morte, limiti e infinito, si manifesta per quello che è: un’unica realtà. Se non c’è controllo, la conoscenza sfuma, perde luce, l’amore non riconosce la propria natura, nega sé stesso. La nostra paginetta, o romanzo di mille pagine che sia, non ha la struttura adatta, né lo stile più propizio. Non incidiamo sull’animo del nostro lettore ideale, siamo acqua su marmo. E il nostro scrivere serve solo a coltivare illusione.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


Continua il 23 dicembre

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Ai funerali della signora Agata c’era una gran folla, era molto amata. La nipote, Rosa, non riusciva a darsi pace, l’aveva trovata lei, era caduta dal balcone. Forse, si era sporta troppo per ammirare la sua adorata luna rosa. Il plenilunio che preannuncia la primavera era la passione della nonna, infatti il suo nome, quello della nipote, derivava proprio da quella luna.
Ogni anno al suo arrivo, la nonna si posizionava sul balcone con la sedia a dondolo per ammirarla e parlarle. Diceva che era il suo spirito guida, le aveva mostrato la strada del ritorno, quando, da giovane, si era persa nel parco di Yellowstone.
La casa della nonna piena di ricordi, Rosa si sedette sulla sedia a dondolo a guardare le foto della giovane Agata. Ricordava i pomeriggi trascorsi insieme, gli aneddoti per ogni singola foto. Non riusciva a trattenere le lacrime, si lasciò andare a un pianto disperato. Aspettava che la nonna andasse a consolarla, ma questo non era più possibile. Neanche suo cugino Mario, spesso erano dalla nonna insieme, si era fatto vedere. Dopo essersi asciugata gli occhi si alzò per ritornare nel suo appartamento, notò che il vaso dei fiori era spostato. Impossibile che l’avesse fatto sua nonna, era troppo pesante e poi ogni oggetto doveva essere in un posto ben preciso. Su questo era categorica, infatti le diceva “ogni cosa al suo posto e ogni posto ha solo una cosa”. Si guardò intorno e vide altri oggetti spostati. Cominciò a sospettare che la caduta fosse stata causata. Ne ebbe la certezza quando trovò i cassetti della scrivania semiaperti.
Corse dai carabinieri e raccontò tutto, anche dell’enorme fortuna che di lì a pochi giorni la famiglia avrebbe ereditato. La nonna aveva accumulato un gran patrimonio.
I carabinieri fecero molte domande ai vicini senza aver risposta. Il signor Franchi, un amico di bridge della nonna, fece vedere un video, anche lui adorava la luna rosa e l’aveva ripresa con il cellulare, le immagini erano sfocate, aveva puntato solo sulla luna luminosa. L’analisi della scientifica invece mostrò una persona sul balcone. Con ulteriori miglioramenti del filmato si vide l’assassino, il cugino di Rosa, Mario.
Aveva problemi con il gioco d’azzardo e continuava a chiedere i soldi alla nonna. Anche quella sera, e per l’ennesima volta ricevette un rifiuto. In un attimo d’ira la spinse giù dal balcone mentre si sporgeva a guardare la luna. Nel filmato si vede lei che cerca di farlo ragionare, lui sembra calmarsi, poi lo accarezza e si appoggia alla ringhiera, gli indica la luna, lui si avvicina e la spinge. Poi corre avanti e indietro, sparisce in casa. Si vede l’ombra muoversi con frenesia. Qualche minuto dopo è fuori in cortile, va dalla nonna, si accorge che è morta e scappa via.
La luna rosa, ancora una volta, ha aiutato nonna Agata.

di Laura De Filippo

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Yorgos aveva un segreto. Un amore, nascosto nella capanna degli attrezzi ai bordi del campo. La sua fanciulla di marmo. Senza braccia e divisa in due, tagliata poco sotto il busto candido. L’aveva riconosciuta appena pulita dalla terra che la ricopriva, la ricordava dai pochi anni di scuola: Afrodite, la dea dell’amore.
In una mattina di aprile piena di sole era salito dal sentiero in mezzo agli ulivi fino al suo piccolo podere sui terrazzamenti. Da lassù si vedeva il mare turchese di Milos entrare nelle insenature tra le rocce bianche e il giallo dei prati fioriti. Quest’anno aveva deciso di lavorare anche una parte di campo che non aveva mai zappato, perché più scoscesa e vicino alla montagna. E lì, dopo qualche ora di fatica, aveva trovato in un anfratto la statua addormentata. Un nodo di emozione gli stringeva la gola mentre la liberava dalla polvere, con gesti lenti e amorevoli, accarezzando i lineamenti dolci, il seno perfetto, i capelli. Il cuore tornava a battere forte ogni volta che andava a trovarla, nell’angolo della capanna dove l’aveva subito nascosta, coperta da una tela di sacco.
Ora Yorgos aveva paura. In paese era corsa la voce del suo ritrovamento. Forse qualcuno l’aveva visto, là sul campo, l’aveva spiato e aveva raccontato. Le navi degli ottomani riempivano il golfo e pattuglie di soldati controllavano quasi tutto sull’isola. Così una mattina presto si trovò due ufficiali alle porte di casa, con i loro cappelli ornati di lunghi fiocchi e i larghi pantaloni.
– Yorgos Kentrotas! Portaci a vedere la statua antica che hai trovato. –
Capì in un momento che l’aveva perduta.
La sera, quando ormai i turchi avevano sequestrato la sua Afrodite, sedeva sulla soglia di casa e si sentiva ancora più solo di quanto era stato negli ultimi anni, dopo la morte della moglie. Aspettò il tramonto e poi i suoi occhi, puntati al cielo viola che si colorava di nero, trovarono la stella che si illuminava per prima.Quella sera la sua luce era solo per lui.

di Angela Borghi, illustrazione Marzia Nigro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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Per Gino Atelli la scuola distava da casa sua novemilacinquecentoquarantadue passi. Io non sono mai riuscito a contarli, so soltanto che impiegavo un’ora abbondante per arrivarci. All’interno della cartella i quaderni, il sussidiario, una mela e nelle fredde giornate mia madre aggiungeva una pagnotta imbevuta con un po’ di olio. Per il ritorno, diceva.
Ricordo la strada fangosa, i salti per evitare i cumuli di escrementi delle vacche dei Gavino, le tracce profonde delle gigantesche ruote dei trattori. E intorno campi in semina, arati, o rigogliosi di pannocchie o farro a seconda delle stagioni. E io per tutto il tragitto sognavo a occhi aperti. Fantasticavo essere un ardito legionario dell’impero romano, le ore di storia con la signorina Stella erano impareggiabili. Oppure ero l’eroico cacciatore di pellicce in territorio indiano, Davy Crockett, come nel film visto al cinema di Borgolò con mio padre. Gino, nel frattempo, contava i passi. Al bivio di Ronco le nostre strade si dividevano, e io potevo impersonare il mio personaggio preferito: il musicista. Camminavo dondolando la testa e, con le mani a mezz’aria, pigiavo i tasti bianchi e neri di un invisibile pianoforte.
Speravo di guadagnare qualche lira durante l’estate offrendo i miei umili servigi al signor Gavino. Pulire le stalle, nutrire i conigli, strigliare il suo possente roano. Intendevo racimolare un gruzzoletto tale da permettermi di pagare qualche lezione di musica in settembre, prima che cominciasse la scuola.
Iniziò prima la guerra. Mio padre partì il 12 giugno e morì il 23 dello stesso mese, da qualche parte in Val d’Isere, fu uno dei 631 morti della battaglia delle Alpi occidentali. Mia madre pianse tutta l’estate, e io venni assunto dai Gavino. Niente lezioni di musica però, quei soldi servivano a mantenere la famiglia. Avevo undici anni.
Percorsi quelle stradine fangose dopo temporali, polverose di ocra quando le nuvole passavano sopra di noi senza salutare. Rimpiangevo le corse con Gino, non c’era bisogno di arrivare per forza da qualche parte, si correva e basta.
Gli anni passavano e le strade erano le stesse, solo le scarpe diventavano più grandi. Conobbi Nora, l’unica ragazza che mi prestasse attenzione. La sposai nel ’51. Eravamo poco più che ragazzi, e l’amore è un’altra cosa.
Conservo tuttora il sogno di imparare a suonare il pianoforte, ma le mani a forza di stringere terra dura e manici di falce si sono fatte enormi e Nora non capisce. Per lei abbiamo tutto, e il suo tutto è un tetto sulla testa e un fuoco per cucinare minestre di ceci e scaldarci in inverno.
La sera, a volte, prendo una seggiola dalla cucina e mi siedo fuori, chiudo gli occhi e, oltre a una sciocca lacrima, mi viene ancora da muovere le dita nell’aria.

Di Gian Paolo Zoni

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Il nostro corridore non dorme, si veste prima dell’alba, e appena suona, va. Non gli importa cosa rimarrà immobile accanto a sé, che siano montagne o grattacieli, lui corre e con lui corre il suo pensiero, per quanto vada forte e per quanto scappi lontano, sa che la sua fuga lo condurrà sempre al suo punto di partenza: sé stesso.
Ieri, a metà della salita, gli è passato accanto il Corridore che arriva, così l’ha battezzato, non sapendo il suo nome. Gli sta simpatico, lo saluta, lo vede guardare di continuo l’orologio, lo vede girare le gambe a mulinello: si starà allenando per qualche striscione da raggiungere il prima possibile? Magari a braccia alzate?
Oggi il nostro corridore vuole incontrare Colui che arriva, scambiarci qualche parola, capire il suo segreto, cosa lo spinge, cosa lo soddisfa. Allora accorcia il percorso, giunge presto all’imbocco dell’ascesa, sale di buon passo e, ad accoglierlo in cima, seduto su una panchina c’è un atleta mai visto prima.
Buongiorno rilassato, “Che incanto la vista da quassù, ci passo tutte le mattine alla stessa ora e sempre mi stupisce!”. Quasi sì, all’incirca d’accordo, ecco fiacca la risposta del nostro sportivo. A lui solo interessa: dove sta quell’Altro? “Non l’ha visto mica passare?”
“Certo! Quello, vestito di nero, tempo per fermarsi non ne ha! S’è infilato il mantello e poi ciao a capofitto! Non gli importa cosa rimarrà immobile accanto a sé, che siano laghi o semafori, lui corre e con lui corre il suo cronometro, per quanto vada forte e per quanto stia nei pressi, sa che la sua corsa lo condurrà sempre al suo punto di partenza: la linea del traguardo!
Se vuoi raggiungerlo, devi allenarti a testa bassa! Ma ricordati che avrai sempre alle calcagna la tua ombra che mai riuscirai a staccare e innanzi l’ombra dell’altro che mai riuscirai a raggiungere!”.
E allora arrivederci e grazie! Tra queste boschive forcelle prealpine con le gambe che son dure come legno e le discese tortuose come lacrime. Con un altro passo e un nuovo incontro, forse tre giovani: uno da mordere il freno, uno da scatto fotografico e uno da regolazione del cambio.
Il nostro protagonista si rasserena poi ricomincia, tra un tratto in pavé che di colpo lo mette in difficoltà (“Com’è possibile sorprendersi dello stesso panorama tutte le mattine?”) e una speranza: raggiungere o essere raggiunto da qualche amico, di quelli un po’ gregari e un po’ tifosi, un po’ allenatori e un po’ meccanici. Sapendo che quei momenti condivisi, siano titaniche imprese o semplici giri del quartiere, entreranno nell’albo d’oro di un Tour speciale, iniziato il giorno della propria nascita e da concludere, come vuole la mitologia a pedali, tra lo sterrato dei Campi in fiore.

Ispirato a “La canzone del ciclista” – Tetes du Bois, 2004

di Paolo Negri, fotografia di Emanuele Abatini (Instagram @Skabart_ig)

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IL METODO, è un suggerimento

Ricerca di stile, struttura e contenuto si intrecciano e procedono insieme.

Non ci sono capitoli a sé stanti. Oggi vediamo lo stile, domani la struttura, e poi la grammatica e così via. Studiamo il tale scrittore, e poi i generi e il trasformarsi della lingua. No. Tutto procede di pari passo. Si parte dalla pagina bianca e si sperimenta. Non ci sono prima la teoria e lo studio e poi la pratica e la scrittura. Cerchiamo il nostro stile, la struttura più idonea, la creazione dei personaggi, la descrizione degli ambienti eccetera, ci informiamo e ci aggiorniamo, studiamo e osserviamo, e allo stesso tempo coltiviamo l’umiltà, e il senso del distacco, e tutte quelle qualità che scopriremo in noi.

Oltre a tutto questo c’è sempre la comprensione e la pratica della riscrittura, senza la quale nessun metodo personale sta in piedi.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


Continua il 16 dicembre

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