…luci, un filo di led appuntati su un telo nero. Se le guardi accese dall’altro lato del telo, vedi un cielo illuminato di stelle… il consiglio del nostro regista per la scenografia. La riunione della mia compagnia teatrale era convocata per il venerdì sera che precedeva la prova generale dello spettacolo. Mancavano gli ultimi dettagli: gli accessori, i giochi di luci.
Speravamo in un incontro breve per poi andare a ballare. La scena madre dell’opera era ambientata nel bosco. Sotto le stelle, tra gli alberi.
Arrivai a teatro, era tutto spento tranne l’occhio di bue, il faro segui-persona, che illuminava il centro del palco. Due attori accasciati uno accanto all’altro, pensai che stessero provando. Non feci rumore, non li salutai nemmeno. Mi sedetti in prima fila e aspettai.
Sul palco: il cielo illuminato, gli alberi distanziati per lasciare la possibilità ai ballerini di muoversi. I due erano immobili. Mi alzai in piedi. Occhi spalancati verso quel cielo scenografico. Si tenevano per mano. Dustin, il protagonista della storia, con una mano stringeva quella di Carol, con l’altra una stella filante turchese, così sembrava. Entrò Jacob, il regista: “Ciao a tutti. Forza decidiamo in fretta, e andiamo a ballare.” Poi, osservando il palcoscenico, si bloccò estasiato: “Che meraviglia! Il cielo sembra vero. Un bravo agli scenografi.” E batté le mani.
Intanto io ero salita sul palco. Non so come mi controllai. La scena non era finta. Il cielo che si vedeva non era da palco, il retro del teatro era crollato. Quelle stelle erano vere. Il bosco era vero. Anche Dustin e Carol, nella loro immobilità, erano veri, con un buco in mezzo alla fronte e il sangue che era colato di fianco. Da sotto non si capiva. La striscia di carta in mano a Dustin era un pezzo di stoffa turchese.
Jacob chiamò la polizia e dopo pochi minuti arrivarono quattro agenti in divisa con un uomo in manette. Era Michael, il nostro costumista, attore mancato, la sua giacca turchese era strappata. Capii tutto. Mi avventai contro di lui, fui bloccata da un agente. Perché? Perché? Michael si tirò dritto con il busto, alzò il mento con sfrontatezza: “Io sono la stella di questo spettacolo, non loro.” Sogghignò, guardò i due corpi con disprezzo, e a voce alta declamò: “Ora si accontenteranno di guardarle le stelle. L’unica che brilla qui dentro sono IO!”.
La polizia lo aveva fermato per un controllo ordinario, aveva notato la giacca strappata e lo sguardo allucinato. Gli avevano chiesto spiegazioni e lui si era messo a recitare.

di Laura De Filippo, illustrazione di Letizia Ghirotto

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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MORTO CHE PARLA *

Ora costruiamo una trama. Diamo forma e corpo all’idea che abbiamo. La trama classica è un processo di trasformazione di un protagonista che agisce in una continuità temporale. Nel caso del giallo il percorso è: delitto/indagine/soluzione del caso. Ma è solo una delle tante possibilità: a volte il colpevole è già noto al lettore e nella storia si ricostruiscono le prove, oppure il senso drammatico si sposta sul perché del crimine. O ancora in alcune “minitrame” c’è un unico personaggio che racconta la propria vita interiore.

L’importante è che l’intreccio stia in piedi, un meccanismo che deve essere perfetto e funzionare sempre senza incepparsi fino alla fine. Però in modo semplice: no a soluzioni troppo complesse. E seguiamo il principio dell’iceberg, suggerito da Hemingway, secondo il quale la scrittura è come un iceberg: solo un ottavo visibile al di sopra dell’acqua. Non esageriamo con i chiarimenti e lasciamo qualcosa di inespresso che il lettore può percepire (anche nel giallo!). Baudelaire diceva che le parti migliori di un libro sono le spiegazioni omesse. Anche questo serve a mantenere viva la tensione e a non annoiare. Il compito di raccontare è affidato a una voce narrante.

Chi parla in prima persona è dentro la storia, come Watson, amico di Sherlock Holmes in Arthur Conan Doyle, chi lo fa in terza persona può assumere gli occhi di un personaggio e attraverso questi filtrare la realtà oppure essere esterno. E onnisciente, che dà il vantaggio di passare da un personaggio all’altro rendendo più vivace la scrittura. Scegliere il punto di vista è uno dei momenti più delicati, determina non solo il meccanismo di conoscenza degli avvenimenti ma anche il colore della storia. Il narratore esterno nascosto descrive la vicenda in modo oggettivo ed è più distaccato, quello interno conosce i fatti a poco a poco come il protagonista ed è più coinvolto.

Non necessariamente il punto di vista è quello di chi indaga, può essere del colpevole o si può far parlare persino la vittima: pensiamo ad Amabili resti di Alice Sebold. Variare alternando le voci può essere interessante, soprattutto se i personaggi sono molto diversi tra loro.

Come scelta particolare citiamo La scomparsa di Patò di Andrea Camilleri: il romanzo è composto solo da documenti: articoli di giornale, lettere, esposti, verbali di polizia ecc. dai quali si evince l’intreccio.

* Rex Stout 1950

Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.


continua il 28 dicembre


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La rivista di giardinaggio a cui è abbonata mia moglie arriva ogni primo mercoledì del mese, puntuale come l’orticaria quando mangi fragole selvatiche prima di lavarle a dovere. Un bollettino postale da 40 euro per 12 numeri, tutti verdi. Sulla terza di copertina pubblica una poesia scritta dagli stessi lettori.
Di solito non la guardo neanche, ma ieri era sul tavolino in soggiorno, accanto alla poltrona dove mi ero seduto in attesa che la mia dolce consorte terminasse i preparativi per uscire a cena. L’ho sfogliata veloce e poi mi sono soffermato sul componimento, finiva così:
“I piedi si avvicinano alla schiuma rabbiosa
Sono quelli di chi non ha più niente da offrire
E tra le nubi la Luna curiosa
Lascia lo sguardo vagare nel chiaro
Così da notare soltanto un bicchiere
Dove prima stava l’amico mio caro.”

Mi ha ricordato una sera di inizio estate del ’77, e Clara.
Vivevo a Padova in quel periodo. Ero un quindicenne irrequieto. Il pomeriggio rubai dal portafoglio di mia madre ventimila lire. Cercai Gerry sulla Saturnia e comprai con quel denaro un po’ di erba. Andai al ponte dell’Osservatorio sul Bacchiglione, una zona poco frequentata. Il cielo ingrigiva e la lunga giornata di giugno volgeva al termine. Mi appoggiai al parapetto sotto l’unico lampione che era rotto da settimane. La notai che risaliva via Arpi, io avevo in mano una confezione di cartine.
Clara, tre anni più grande di me, la più bella della scuola, però faticai a riconoscerla. Cappello di paglia a coprire i capelli d’oro e il corpo da Pinocchio. Io all’inizio la ignorai, ero troppo concentrato nel mio lavoro. Le prime gocce di pioggia caddero bagnando il buro*. Lei con il cappello lo riparò. Le sorrisi. Restammo a fumare seduti a cavalcioni con il fiume che scorreva rapido a pochi metri dalle nostre scarpe. Lei era silenziosa, aspirava come se l’avesse fatto decine di volte, e probabilmente era così. Persi la cognizione del tempo. I suoi occhi, su quel volto pieno di spigoli, erano magnetici. Le diedi un bacio, di quelli veri, e lei non si ritrasse, fu meglio del fumo.
Era l’una passata e, mascalzone o no, a casa le avrei buscate. Le dissi che sarei stato felice di rivederla. Fece un mezzo sorriso, di quelli che hanno sapore di tutto, gioia esclusa.
Avrei potuto cambiare il corso degli eventi? Non lo so. La Luna quella notte non cedette alla curiosità, rimase indifferente al di là delle nuvole. E io, ormai davanti al portone dell’Osservatorio, cercai Clara con lo sguardo, trovai solo buio nel buio.
Il giorno dopo a Chioggia, dove il Bacchiglione si versa nel Brenta, due bambini in bicicletta avvistarono, tra le berule e le fienarole, un burattino dai capelli d’oro.

*canna in veneto

di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Mauro Speri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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L’atmosfera del locale è carica di musica e fumo; un’impalpabile nebbiolina aleggia nell’aria in barba ai divieti appesi alle pareti.
Pochi clienti questa sera, d’altra parte è mercoledì: giusto un paio di tavoli in disparte e qualche habitué a darsi il cambio al bar.
Benvenuti al Sassofono Blu, da oltre quarant’anni approdo sicuro per nottambuli convinti e occasionali frequentatori delle ore piccole.
Da sempre uguale a sé stesso, sopravvissuto al passare del tempo.
Dal palco le struggenti note di Woman di Neneh Cherry graffiano l’anima prima che l’aria: “You gotta be fortunate / You gotta be luckynow” (1) …
Un bicchiere di whiskey sul bancone è rimasto a fare da segnaposto di fronte a uno sgabello vuoto.
La Rossa seduta fino a un attimo prima si è alzata dopo averne bevuto un sorso.
Di che colore erano i capelli di Venere? Giurerei come i suoi, del colore della passione.
Avvolta in un tubino nero che pareva una seconda pelle, le sue gambe gridavano “Vieni a prendermi!”
Sventole del genere si vedono di rado in posti come il Sassofono Blu: sono tipe da privé di qualche discoteca di corso Como, accompagnate a un viveur ben in grano.
Al ritorno dalla toilette, però, nessun uomo ad attenderla.
“There ain’t a woman in this world / Not a woman or a little girl / That can’t deliver love / In a man’s world” (2) intonano dal palco di donne coraggiose che soffrono e che amano.
Una lacrima improvvisa svela la sua tristezza; riga il viso e le cade sulle gambe.
Il tubino attillato ora è un travestimento che la tiene prigioniera.
Che emozioni provava Venere? Il mito non lo dice.
La descrivono di immensa bellezza, capricciosa e volitiva.
Mai una parola, invece, sui suoi sentimenti.
Ha mai amato la Rossa prima di stasera? Ne sarà capace in futuro?
Conoscerà la risposta solo chi saprà frugarle l’anima anziché le mutandine.
“I’ve died so many times / I’m only just coming to life” (3) continua la musica.
Mi alzo e vado da lei.

Note
1 Devi essere fortunata / devi essere fortunata ora
2 Non c’è una donna a questo mondo / non una donna o una piccola ragazza / che non possa donare amore / in un mondo
di uomini
3 Sono morta così tante volte / che sono appena rinata

di Daniele Bin

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Sua mamma amava il blu. Erano blu i cappottini e gli abitini di velluto con colletti di pizzo bianchi che indossava le domeniche d’inverno per andare a Messa, la cartella di scuola e gli occhi della bambola regalata ad ogni compleanno: tutto era blu. Loretta era stata una bambina abituata alle buone maniere, ubbidiente e cortese, di indole docile, mai con le mani sporche o le ginocchia sbucciate; come conveniva alla figlia maggiore del maestro del paese. Aveva anche una grande responsabilità: due sorelle a cui dare il buon esempio. Dietro questo formalismo, nascondeva la sua timidezza, ma l’abitudine a tenere a bada le emozioni la rese severa e distante agli occhi degli altri.
Era bella, i capelli rossi e le lentiggini la facevano sembrare più giovane della sua età, però i ragazzi preferivano corteggiare le altre, meno complicate, più alla mano. Così, negli anni, le sue amiche e le sue sorelle si erano sposate e lei era diventata la figlia zitella del vecchio maestro del paese.
A trentanove anni, indossava ancora cappotti blu, qualche filo bianco si intrecciava alle ciocche rosse e provava il desiderio nascosto di andare via, no, di essere portata via.
Pensava a questo mentre usciva dalla biblioteca dove trascorreva il sabato pomeriggio. Preferiva la sezione dei libri dedicati ai bambini e sceglieva, per le sue nipoti, libri con grandi immagini che riempivano le pagine; quei libri in cui le parole si confondono tra colori sfumati e figure leggere.
Quel giorno fu attratta da un titolo, Manuale d’arte per piccoli. Lo avrebbe dato alla maggiore delle sue nipoti, Arianna, una bambina che amava disegnare e le riempiva la casa di fogli colorati.
Si coricò, accese la radio sul comodino e cominciò a sfogliare distrattamente le pagine. Lo sguardo si fermò sulla stampa di un quadro di Chagall, La passeggiata, in cui il pittore trattiene per una mano la moglie che levita nell’aria trasportata dal vento. Lui stesso è come sospeso sul paesaggio. Un amore che fa volare al di sopra di ogni cosa, trascendente, un sogno. Il suo sogno. Ingoiò una lacrima. Alla radio annunciarono il vincitore di Sanremo 1958. Loretta chiuse gli occhi e si lasciò andare… per volare nel cielo infinito.

di Annarosa Confalonieri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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LA TECNICA, meglio pensare al metodo

Gli iscritti al corso di scrittura chiedono sempre la tecnica. È lo scopo per il quale si sono iscritti. Con la tecnica si pensa di risolvere tutto. Se uno vuole fare il venditore gli insegnano le tecniche della vendita, ma poi sono pochi quelli che riescono, perché il lavoro è difficile e occorrono qualità particolari. E così se uno vuole scrivere un romanzo si iscrive a un corso per imparare la tecnica. Quando una persona ha scritto un racconto si sente già scrittore. Mi è capitato anche di trovare chi non aveva ancora scritto, ma ne aveva l’intenzione, ed era uguale, parlava da scrittore. L’unica cosa di cui si sente la mancanza è la tecnica. Sinceramente, non ho mai capito che cosa intendano per tecnica. Probabilmente una bacchetta magica. Se è così, adesso l’hanno trovata, e si chiama intelligenza artificiale, ma ne parliamo più avanti. La scrittura, dall’idea alla realizzazione, è fare. Il giusto livello del fare non è sempre lo stesso. L’azione, gli stati d’animo, sono diversi, e questo mostra il limite delle tecniche, uniformi nell’esecuzione. Per questo le tecniche di scrittura sono limitate e addirittura non funzionano, non sono il riferimento. Lo è la ricerca. Piuttosto delle tecniche cerchiamo un metodo di lavoro. La tecnica è impersonale, il metodo è personale, come lo è la scrittura. Il metodo è in sintonia con lo scrivere, le tecniche no. Le tecniche ci lasciano in superficie, il metodo ci serve per andare a scoprire. Le tecniche riempiono di illusione, il metodo ce ne libera. Quello che ci serve sono la psicologia, l’introspezione, l’arte di osservare, e la capacità di saper riscrivere. In un corso di scrittura cercate le giuste indicazioni, e fatele vostre.


Continua il 9 dicembre

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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Vi confesso subito una cosa. Dell’Uomo Qualunque inventato da Guglielmo Giannini, mi sembra nel primo dopoguerra, non sono mai andato al di là dello slogan. UOMO QUALUNQUE, quale io sono sempre stato. Non dico altro, ma siccome so che avete il vizio di inquadrare le persone, vi dico anche che dalla terza media sono stato buttato fuori a calci nel sedere, e sono ancora riconoscente a quel professore d’italiano che diede la spinta maggiore, lui che sosteneva che a scuola si impara poco o niente, tranne lo stare insieme.
Col mio amico Marco un tempo, bei tempi davvero, ci trovavamo alla partita di calcetto, e poi a bere una birra come fanno quelli del rugby. Da lunedì invece, per via del coprifuoco, ci incontriamo direttamente da Silvano. Ore 21, come al solito.
Silvano ha un bar in centro, la saracinesca è chiusa, e ci fa entrare da dietro. Niente di speciale, nel senso che non ci sono donnine o cose del genere. Ci beviamo le nostre tre o quattro birrette, e in questo periodo teniamo le distanze di legge, un metro, anzi noi ne teniamo due. Non come i professionisti del calcio che a ogni gol si danno i baci in bocca, o come quelli in metrò che praticano ancora la mano morta. A volte Silvano ci porta lo stinco cucinato dalla moglie e tiriamo le due o le tre di notte. Tanto abitiamo tutti lì attorno. Il Beppe Colombo però sta a 20 km. Lui rischia, ma dice che ne vale la pena perché la libertà ha sempre avuto un costo. Al massimo pago la multa, afferma tranquillo, o se proprio va male mi mettono in galera.
Suo cognato, che da dieci anni occupa lo stesso sgabello, l’altra sera, con il computer appoggiato al bancone, si è messo a leggere a voce alta un articolo su LegnanoNews del virologo Paolo Viganò. In sala s’è fatto silenzio, e anche a lettura terminata il silenzio si tagliava a fette. Uomini qualunque che la pensano come un emerito professore della medicina.
Silvano, fin dall’inizio sull’attenti, irrigidito come un soldato davanti al Milite ignoto, a un certo punto si è sciolto. “Questo giro lo offre la casa”, ha gridato alzando al cielo il suo bicchiere. E il cognato del Beppe Colombo gli ha risposto: “Quello dopo lo offro io, alla salute di Paolo Viganò”.

di Abramo Vane, illustrazione di Renato Pegoraro

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Il giorno in cui scattò la fotografia Tamara indossava un elegante cappotto con inserti di volpe argentata sul collo e sui polsini.
Era una grigia giornata invernale; l’umidità copriva il giardino e rendeva pesante l’aria. Aveva esitato prima di varcare l’alta cancellata di ferro brunito dalle punte lanceolate.
Non sorrideva: l’espressione tirata e sul viso un velo di malinconia. Alle spalle una villa liberty e un viale costeggiato da cespugli spogli.
La villa dei nonni, il luogo dei suoi giochi estivi di bimba, dei pomeriggi domenicali trascorsi nell’orto e dei Natali caldi che sapevano d’arrosto con le patate e di torta di mele. Amava quella casa e aveva sempre pensato che un giorno , proprio lì, lei avrebbe accolto i nipoti.
Erano passati tanti anni da quando aveva fermato quel luogo con uno scatto, come se temesse di perderlo o dimenticarlo.
Ricordava le ultime foglie gialle a terra che non si notavano nella fotografia in bianco e nero e, se chiudeva gli occhi, sentiva ancora il profumo di terra bagnata e di muschio. Poche settimane prima il crollo della borsa di Wall Street: il 24 ottobre 1929, passato alla storia come il “giovedì nero”.
Tamara ripensò ai nonni, contadini italiani emigrati alla fine del 1800 per cercare fortuna negli Stati Uniti, la Terra Promessa. Le sembrava di sentire ancora i racconti dei loro sacrifici per raggiungere un po’ di benessere da lasciare in eredità a figli e nipoti. E all’improvviso la crisi, il fallimento di banche, industrie e piccole imprese agricole che avevano investito tutto il loro denaro in macchinari moderni.
Le testate giornalistiche riportavano numeri spaventosi in caratteri cubitali neri: tredici milioni di disoccupati.
La voce di suo padre tremava: per fronteggiare i debiti non restava che ipotecare la “ casa di famiglia”, come ormai la chiamavano, simbolo concreto e visibile che ce l’avevano fatta. Sconforto e paura presero il posto di ottimismo e fiducia.
I ricordi di quegli anni scorrevano vivi mentre se ne stava seduta davanti al camino acceso con una scatola di vecchie fotografie sulle gambe. Le avrebbe mostrate l’indomani alla nipote, sempre pronta ad ascoltare le sue storie. Un brivido la scosse. Si alzò, ravvivò la fiamma e si affacciò alla finestra. Sorrise. Fuori era buio, ma la luce dei lampioni illuminava l’alto cancello di ferro brunito dalle punte lanceolate da cui partiva il viale che portava alla villa.

di Annarosa Confalonieri

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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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Caro papà, voglio vivere, o morire, combattendo… come tuo nonno in Africa a El Alamein al grido di Folgore, come i partigiani fucilati dai nazisti, come i rivoluzionari di Zapata per un tozzo di giustizia, come i contadini russi lanciati senza fucile contro il nemico a Stalingrado, come gli spartani alle Termopili, come Giulio Cesare tradito, come tutti gli uomini che avevano casacche diverse, ideali diversi, patrie diverse, come tutti gli uomini che mi hanno preceduto nella storia dell’umanità, voglio vivere e morire da uomo libero.
Sono passato per regioni gialle, arancioni e rosse. Ho attraversato confini, e ti assicuro che non tutte le terre sono omologate, come dicono i mass media. Dove mi trovo adesso la mascherina non la mette nessuno, e se qualcuno mi ordinerà di metterla ho un coltello nello zainetto. Giorgio, il mio grande amico, è con me. Abbiamo deciso insieme, dopo un anno di video chiamate. C’è anche Anna, la sua ragazza. Invece Laura, la Lauretta che ti era tanto simpatica, così rispettosa dei genitori del suo ragazzo, lei non ce l’ha fatta, aveva le lezioni da seguire per l’esame di maturità. Non so come andrà a finire, una cosa è certa: l’aria è fresca, e questo mi basta. Il destino è già scritto, e l’aria è fresca.
Caro papà, ti lascio ai tuoi telegiornali, alle attenzioni per la famiglia, allo smart working, ai decreti ministeriali, ai virologi saputelli, ai giornalisti leccapiedi, ai politici in cerca di voti. Sappi che ti voglio bene, la tua voce mi accompagna sempre, e le tue parole (ce la faremo, speriamo speriamo, il vaccino ci salverà…) mi spronano e danno coraggio. Le ho qui nelle orecchie. Non tornerò indietro a risentirle dal vero. Ti chiedo solo un favore. Non parlare più di guerra, non dire che stiamo vivendo una guerra. A Dresda in soli tre giorni sono morti innocenti tre volte tanto quelli di un anno intero in Italia per presunto covid19. E poi tutti gli altri sessanta milioni, fra dolori e atrocità.
Ti ho apprezzato l’ultima sera quando ti sei commosso ricordando il tuo collega morto d’infarto perché all’ospedale non c’era posto, e il figlioletto della vicina che non vuole più vedere gli amichetti e vive con lo smartphone in mano, e tutta quella gente depressa, quei suicidi che nessuno racconta, quelle storie di miseria e disperazione, di violenza famigliare. Quando hai espresso il dubbio che il nostro amministratore di condominio s’è preso la leucemia a causa dello stato di debolezza che il terrore del virus gli ha procurato, io avevo già un piede sulla porta per uscire, e mi sono fermato. Tu però hai acceso la tele saltando da un talk show all’altro. In quel momento ho risentito la voce virile del padre di quando da bambino mi dovevano operare alle tonsille, Coraggio figliolo, non temere… e così la tua mano mi ha sospinto fuori dall’uscio, verso la vita. Ho raggiunto gli amici.
Vogliamo vivere!

di Abramo Vane

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