Bau-bau, faceva sempre Storm, e Storm non era un bambino che imitava il verso del cane, Storm era un cane che voleva essere bambino e, come cane, non era poi tanto giovane, anzi ormai era più vecchio che giovane, però giocava ancora come un cucciolotto, e del bambino gli era rimasto l’animo buono, e così papà Egisto tolse dal cancello quell’avviso che diceva attenti al cane, non corrispondeva al vero, e infatti Storm non avrebbe fatto del male a nessuno, e se fossero arrivati i ladri avrebbe giocato con loro, era un tipo così, voleva solo giocare, era generoso e simpatico con tutti ma con papà Egisto aveva un rapporto speciale, e si è scoperto che papà Egisto leggeva i suoi pensieri, e questo non lo aveva rivelato a nessuno, lo ha detto solo ora, e papà Egisto non è una donnetta che vive sola e parla con il cane, lui è un professionista serio e se ha detto una cosa del genere vuol dire che davvero Storm aveva dei pensieri e lui li leggeva, e in fondo non è una cosa poi tanto assurda, è certo infatti che gli scienziati di energia vitale e di amore non hanno mai capito tanto, e anche se non vogliono ammetterlo, semplicemente non è la loro materia… e a Storm, come a ogni cane lupo, piaceva correre nel vento, ma del vento aveva anche paura, e questo era molto strano per un cane, e non però per un bambino, e quando c’era vento scappava via, e un giorno che papà Egisto andava con la famiglia in città vide un’automobile con il portellone aperto e un cane lupo che ci stava salendo, e disse… guardate, quello sembra Storm… è vero, dissero tutti, ma si corressero subito… ma quello non sembra, quello… è Storm! E lo riportarono a casa, e scene di questo tipo accaddero in continuazione, una volta lo ritrovarono che correva sull’autostrada, un’altra volta era scappato nel bosco, fino all’ultima, quando se ne è andato col vento, come aveva sempre detto di fare. Ciao, Storm, ciao eterno bambino.

di FMK, foto di Leonardo Pigoli

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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C’ERA UNA VOLTA*

Al momento della nascita della nostra storia criminale, ci si presentano le possibili ambientazioni. L’universo narrabile è veramente infinito: dalle forme tradizionali come il delitto in una camera chiusa oppure durante una festa alle varie opportunità di spazio e di tempo, il passato e il futuro, e storie che si dipanano tra i ghiacci dell’Artico o nelle vie di una metropoli. Le scenografie insolite sono allettanti ma va ricordato che è molto difficile essere originali in un mondo narrativo già tutto esplorato. Meglio allora muoversi in un paesaggio ben conosciuto, di cui si è respirata l’atmosfera che vogliamo ricreare. Per vivacizzare, un utile espediente può essere quello di introdurre un personaggio inaspettato in un certo ambiente.

L’inizio è un momento delicato perché è quello che spinge a infilarsi nella storia o abbandonarla. Le regole per un incipit efficace sono suggerite più che altro dall’esperienza di lettore. Un primo paragrafo breve e semplice può essere vincente: chi legge non vuole essere scaraventato in un mare di fatti complessi, soprattutto se collegati a personaggi che ancora non conosce. Più che informare è meglio alludere, accennare, sedurre.

Se vogliamo dare notizie funzionali alla storia c’è una deliziosa tecnica detta “della prolessi” o della “pistola di Cechov”: se nel primo capitolo dici che c’è un fucile appeso al muro, nel secondo o terzo capitolo deve assolutamente sparare. A dire che l’informazione deve essere un indizio di ciò che accadrà.

L’incipit descrittivo invece va trattato con cautela, come sempre le descrizioni e le digressioni nel racconto di suspance. Vanno bene per presentare il mondo in cui ci muoviamo e, durante la narrazione, per rallentare il ritmo e far prendere fiato al lettore, ma non per addormentarlo.

Un bell’inizio può essere un ribaltamento cronologico degli eventi: si narra una scena avvenuta nel passato o, meglio ancora, nel futuro rispetto al tempo della storia, ad esempio il finale. Una frase iniziale molto consigliata non è statica ma contiene già una certa azione, o comunque una promessa di movimento. E, a proposito di importanti promesse, ecco l’incipit di La donna della domenica di Fruttero e Lucentini: “Il martedì di giugno in cui fu assassinato, l’architetto Garrone guardò l’ora molte volte”.

* Agatha Christie 1949

Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.


continua il 7 dicembre 2023


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Sono giornalista, e vivo di parole. Scritte, ma non solo, dato che sempre più spesso mi chiedono di fare l’opinionista nei talk show serali. E la cosa che non sono mai riuscito a sopportare (un vero paradosso per uno come me) è quando non mi vengono.
Uno potrebbe pensare che è una cosa che succede, che non ne devo fare una tragedia, ma essere privato del mio strumento è come levare la bicicletta ad un campione del Giro d’Italia. Una menomazione. Ogni tanto, nei momenti meno indicati, non riesco a trovare la parola giusta. Mia moglie cerca di aiutarmi, e spesso la cosa si trasforma in scenette piuttosto ridicole, con me che cerco di spiegare cosa vorrei dire e lei che cerca di indovinare. E quasi mai ci riesce.
Mi capitava spesso anche quando ero piccolo. Allora c’era mio nonno che arrivava in soccorso e a volte riusciva a capire quale era la parola che non trovavo. Un giorno eravamo nel suo studio, e mi dice sai Francesco, in realtà non è colpa tua se ogni tanto le parole non ti vengono, perché questo succede quando vicino a te passa il ladro di parole. E chi è, nonno? E’ un bambino curioso, invisibile, che se sente qualcosa di interessante…oop! ti ruba la parola e tu rimani come un fessacchiotto. Ma il suo lavoro non finisce qui. Una volta a casa, in una delle nuvole più alte del cielo, il ladro di parole completa il suo esercizio, ed elimina quelle brutte, e quelle che lui non vorrebbe mai sentire. E allora comincia a fare la cernita. Guerra, la butto. Fame, non la voglio vedere. Violenza, via nel cesso. Sfruttamento dei bambini, la distruggo. Alla fine tiene da parte solo quelle che assieme possono costruire un racconto bello, e pieno di promesse.
Questa del ladro di parole divenne una favola familiare, anche quando mio nonno, ormai passati i novant’anni, cominciò a sragionare. E quando la domenica a tavola circondato da figli, nipoti e pronipoti non riusciva più a parlare bene tutti, anche i più piccoli, gli dicevano nonno, nonno, non ti preoccupare, sta passando il ladro di parole…
Un giorno di Dicembre – mancava poco a Natale – mi chiamarono al giornale. Nonno era vicino alla fine, anche il medico non sapeva più cosa fare. Passai la notte accanto a lui, e mi raccontava cose senza un filo logico, ormai perso nella sua dimensione. Verso mezzanotte, mentre gli stavo rimboccando le coperte, si sollevò e gli si illuminò il viso. Guardò verso l’alto e mi disse France’, France’, è arrivato il ladro di parole, mi deve fare il suo discorso…poi rimase così per qualche istante, come se ascoltasse qualcuno. Si adagiò sul guanciale, e lasciò questo mondo con uno dei suoi sorrisi migliori.
Il ladro di parole esisteva davvero.

di Gianluca Fiore

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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Ed erano passati davvero tanti anni, e non sembrava, ma erano trenta, e come capita in queste circostanze c’era stato uno che si era preso la briga e aveva fatto le convocazioni, e così quella sera ci trovammo come i reduci di un’impresa, e l’impresa non era quella di avere tanti anni prima superato un esame di maturità, ma l’impresa era proprio quella dei trent’anni che erano seguiti, e questo lo capimmo appena ci vedemmo, e io, tranne Sorbaro che lo vedevo quasi tutti i giorni, il Fassi e la Binda che pure qualche volta li incontravo, per gli altri erano trent’anni che non vedevo quelle facce e quei corpi, e riconoscerli non era poi tanto facile, c’erano dentro l’essere e il divenire, e a parte gli inevitabili ricordi, quello a cui pensavo quella sera erano quelle mie compagne di scuola che avevano partorito nuove vite, e mi sembrava la cosa più incredibile, e guardandole le vedevo in quel momento, e certo non come era veramente stato, ma come io mi immaginavo, e non erano i figli in sé o la retorica della famiglia a interessarmi, e i figli poi li ho sempre ritenuti un’illusione, no quello che mi impressionava era proprio l’atto di quelle ragazze che erano diventate donne… e poi la sera era passata come una delle tante, e il più simpatico fu Muser quando tirò fuori da tasca il foglietto con il compito di matematica che la Marika gli aveva passato trent’anni prima, e lo teneva con due dita come una reliquia, e diceva… questo è il tassello senza il quale io avvocato non lo diventavo, e aggiungeva che tutte le volte che trovava un insegnante gli diceva mi raccomando, li lasci copiare quei ragazzi, non faccia loro mancare nessun tassello che li può condurre oltre, e altre sorprese mi attendevano, inaspettate, quella sera, e molte rimasero inespresse, e me ne tornai a casa felice ma sgomento, consapevole della mia pochezza, perché mi apparvero i limiti dello scrivere, e tutte quelle pagine, tutti quei romanzi che avrei voluto e potuto scrivere, in realtà erano già stati scritti.

di Fiorenzo Croci

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Di Francesco Cappellani

Nella tarda estate del 1943, a causa dei bombardamenti degli americani sempre più insistenti sulla ferrovia del Brennero, dove transitavano gran parte dei convogli militari tedeschi, ed anche su Verona, la città dove abitavamo, mio padre riuscì a trovare a Sommacampagna, un paesino a circa tredici chilometri dalla città, alcune stanze a pianterreno ed al primo piano di una grande villa, attualmente patrimonio del FAI, dove sfollare per vivere in condizioni di maggiore sicurezza. La villa era situata in un parco vastissimo dove noi ragazzi potevamo correre a perdifiato senza pericoli e controlli. Il complesso apparteneva ad una coppia di industriali milanesi senza figli che abitavano nell’ala centrale dell’edificio. In un’ala laterale erano alloggiati alcuni alti ufficiali tedeschi, mentre un solitario colonnello della Wehrmacht abitava in una camera vicina alla cameretta dove dormivo io. Questo ufficiale parlava ottimamente l’italiano in quanto credo fosse originario dell’alto Adige; d’altra parte, dopo il 1943, molti militari italiani del sud Tirolo che parlavano correntemente la lingua tedesca, erano confluiti sia nella Wehrmacht che nelle SS. Ad esempio altoatesini erano i ragazzi del battaglione SS Polizei “Bozen”, morti nell’attentato di via Rasella a Roma nel marzo del 1944. Il colonnello, un omone corpulento e pacioso, scambiava ogni tanto qualche rara parola con me (io nel 1943 avevo otto anni) e ricordo che una volta mi fece entrare nella sua camera per mostrarmi e descrivere le armi che possedeva. Troneggiava una baionetta da parata col pomolo a becco d’aquila ed il manico istoriato con un’aquila che sormontava la croce uncinata circondata da una corona d’alloro, e una pistola Luger, un oggetto stupendo per meccanica ed estetica che aveva eccitato in me, dotato di una pistola ammaccata di latta, un desiderio irrefrenabile di possesso. Non capivamo bene quali compiti avesse questo ufficiale e francamente cosa facesse tutto il giorno in quanto stava spesso chiuso per ore in camera.

Intanto la guerra proseguiva implacabilmente, a sera ascoltavamo a bassissimo volume Radio Londra e quasi ogni giorno stormi compatti delle gigantesche “fortezze volanti” (i B24 Liberator) americane oscuravano il cielo bombardando in particolare l’aeroporto militare di Villafranca distante pochi chilometri da noi. Dopo l’8 settembre 1943, a seguito dell’invasione tedesca, l’aeroporto era stato notevolmente potenziato con una pista in cemento di quasi tre chilometri con hangar e depositi di materiale militare che arrivavano vicino all’abitato di Sommacampagna.

Ci fu un intenso bombardamento alleato il 12 ottobre 1943 ed un altro, che colpì parzialmente anche Sommacampagna, il 26 agosto 1944 con la distruzione di alcuni obiettivi militari. La Luftwaffe aveva schierato nell’aeroporto sia caccia tipo Stukas che grossi bombardieri Junker; l’aeroporto venne in seguito completamente distrutto dai bombardamenti degli alleati e dai soldati tedeschi prima di fuggire verso il nord. Per me, come per gli altri ragazzini del paese, il momento magico era la fine delle incursioni annunciata dal suono cupo delle sirene; allora ci scatenavamo nei prati alla ricerca di oggetti bellici soprattutto schegge di bombe e bossoli di ogni dimensione. Ne trovavamo in grande quantità e li mercanteggiavamo con i figli di altre famiglie sfollate.

Con l’incoscienza tipica dell’infanzia, la guerra, soprattutto durante i bombardamenti notturni quando i colpi delle batterie antiaeree, i fasci di luce dei fari, i luminosissimi bengala, i lampi accecanti delle bombe e degli spezzoni incendiari, riempivano l’immenso schermo del cielo, era vissuta da noi come uno spettacolo terribile ma affascinante. Vivendo in campagna non si avvertiva una reale penuria di cibo, c’era latte in abbondanza, mancavano completamente i salumi e ogni tipo di dolciume per la carenza di zucchero e particolarmente l’adorato cioccolato. Ma nel giugno del 1944 avvenne un fatto per me memorabile per la gioia che provo ancora oggi a ricordarlo. Studiavo in casa con un mite e bravissimo professore che mi preparava per l’esame di ammissione alla quinta elementare da dare da esterno nella scuola di Verona che non avevo potuto frequentare. A metà giugno del 1944, dovendo recarmi a Verona a sostenere l’esame, mi ero alzato di buon’ora in quanto il mezzo per andare in città era costituito dalla canna della bicicletta dello stradino di Sommacampagna, un buon uomo di mezza età, che si prestava, sbuffando come una locomotiva appena la strada pianeggiante presentava anche una minima salita, ad accompagnarmi pedalando fino alla scuola e poi, ad esame concluso, a riportarmi in paese.

Il colonnello altoatesino mi vide mentre mi appollaiavo, con tanto di cartella, sulla bici dello stradino e mi chiese dove fossi diretto. A sostenere l’esame, gli risposi, e speriamo che vada tutto bene. L’omone mi fece un sorriso e mi promise, se fossi stato promosso, una scatoletta di cioccolato che loro, come ufficiali della Wehrmacht, avevano modo di reperire. Mantenne la promessa, mi regalò una scatoletta circolare di latta, che conservo ancora gelosamente, con scritto sul bordo del coperchio “Scho-ka-kola – die Stärkende Schokolade” (- il cioccolato rinforzante) e sul retro “Wehrmacht-Packung. Hildebrand – Berlin” e la composizione dettagliata dei cento grammi di prodotto che includeva caffeina e cola. Sicuramente era un cioccolato energetico ed eccitante, da… “combattimento”. Per me fu il cioccolato più buono che avessi mai mangiato in quegli ultimi due anni di guerra, solo poi con l’arrivo degli americani nella primavera del 1945, ritornò sulle nostre tavole questo “cibo degli dei”. Avvicinandosi gli alleati, nei primi mesi del 1945, improvvisamente il colonnello scomparve lasciando armi e divise nella sua cameretta. Sembra che si fosse travestito da prete, aveva un po’ il fisico e l’aria bonaria da pretone di campagna, ed avesse intrapreso una fuga verso l’Austria. Non sapemmo più nulla di lui.

Recentemente, mostrando alle mie nipotine quella scatoletta di latta ho fatto molta fatica a spiegare cosa avesse rappresentato per me in quegli anni quel po’ di cioccolato; mentre raccontavo mi accorgevo sempre più che parlavo di cose troppo diverse dal loro mondo e dalla vita di oggi, per loro era una storia lontana, remota, che non riuscivano ad immaginare vissuta da una persona ancora lì presente con loro!

Di Francesco Cappellani, che gentilmente ha chiesto di essere pubblicato sul sito dell’Associazione IL CAVEDIO


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GLI STILI, ne basterebbe uno

Ogni stile è personale e ognuno lo ricerca e lo costruisce a modo suo, su sé stesso, così come si confeziona un abito su misura.

Noi siamo lo stile. È il nostro carattere, e l’anima.

Non vi è niente di stabilito, nemmeno la grammatica. La conosciamo, ma il nostro stile potrebbe essere anche sgrammaticato, purché comunichi in modo efficace, si faccia intendere, e nel racconto susciti emozioni e interessi.

Grandi autori si sono espressi con linguaggi e stili poco ortodossi, vedi Celine. Forse per niente ortodossi. Leggendoli a nessuno verrebbe in mente di correggerli, anzi ci vien voglia di scrivere come loro.

Cancelliamo ogni classificazione e scriviamo. Scriviamo e basta. Come ci va. La cosa peggiore è essere condizionati e, nel caso di un insegnamento, condizionare. Il peggior insegnante è quello che impone come esempio il proprio modo di scrivere. Ognuno ha strutture mentali proprie. Partiamo da qui. Poi si vedrà.

A volte mi capita di trovare qualche giovane che afferma di aver usato un determinato stile per scrivere un racconto, di aver poi cambiato per un altro racconto. Caspita, che bravo! Direi che sarebbe meglio lavorare con umiltà fin dall’inizio. Solo quando avremo acquisito sicurezza attraverso un lavoro d’impegno costante, solo quando avremo capito chi siamo, capiremo come sono fatti gli altri. E, per quel che qui ci riguarda, la costruzione e l’uso di stili diversi.

 A questo punto metteremo l’abito che vogliamo, senza dare spiegazioni a nessuno. Nel pomeriggio i jeans, e alla sera lo smoking.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


Continua il 18 novembre


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Silvano fece il discorso più lungo della sua vita un martedì d’inverno, dopo il tramonto, mentre la luce viola trasformava il cielo. Aveva iniziato a parlare alla ragazza d’impulso, senza potersi trattenere. I suoi capelli erano così lucidi. Dovevano essere morbidissimi ma non aveva ancora osato toccarli. Era un discorso d’amore, senza pudore né esitazioni, aldilà della timidezza che l’aveva sempre attanagliato davanti alle donne incontrate. Molte lo avevano colpito al cuore. Qualcuna gli era piaciuta alla prima parola pronunciata dalle labbra rosse sfrontate o perché gli occhi sfuggivano all’incontro con i suoi, di una aveva amato il vederle compiere gesti banali, come salutare con la mano, per altre era stato un movimento con la testa, una risata squillante a conquistarlo. Ma non lo aveva mai detto, a loro. Poche volte aveva pensato con speranza a un contatto, alla nascita di un amore. Era sempre scappato impaurito, talvolta senza neppure dire il suo nome. Era giovane e non era brutto, ma per la gente era come se fosse senza età e peso, senza colori e presenza. Tutti lo sfioravano ma non si accorgevano di lui. E lui si teneva lontano dagli altri, preferiva il silenzio, la solitudine e il lavoro, il suo rifugio. In quel luogo prendeva vita e acquistava sicurezza, si muoveva disinvolto tra gli strumenti del mestiere, annusava con un brivido il profumo dei fiori e del legno. Compiva i gesti che servivano con competenza e precisione. Quel martedì, finalmente, lì, aveva incontrato l’amore. Una specie di euforia l’aveva colto appena aveva visto la ragazza e dopo qualche prima parola impacciata non si era più fermato. Le aveva raccontato mille cose, parlato dei suoi gusti, narrato le sue storie, i sogni, l’intera vita. Senza che si accorgessero era sceso il crepuscolo ma erano rimasti uno di fronte all’altra. Lui non aveva neppure acceso la luce nella stanza. Lei aveva gli occhi come le acque di un lago, tranquilli e profondi, i lineamenti dolci, la pelle bianca e liscia. Le mani eleganti. Era vestita di seta. Sembrava venuta da un altro mondo, con il suo silenzio. Era morta. Quando finì la dichiarazione d’amore Silvano iniziò con dolcezza a massaggiarla con la cera modellante, poi passò un velo di crema per reidratarla, le pennellò il viso con il fondo tinta, le chiuse gli occhi e le diede un lieve bacio sulle labbra fredde.

di Angela Borghi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Se metto a fuoco il bosco di aceri più a sud, il ferro sbiadisce, indistinto, poi scompare.
Mi chiamo Jack London. Già, come lo scrittore. Vivevo a Maville in Ohio, ho trascorso lì gran parte della mia esistenza. Possedevo una casa, un cane, a cui ho avuto il buon senso di affibbiargli il nome di Prince, e una moglie, Vera. Abbiamo condiviso quasi trent’anni insieme, c’erano giorni buoni e, come è giusto che sia, giorni meno buoni. Questi ultimi li ricordo poco.
Mia moglie diceva che al mondo ci sono solo due modi per fare una torta ai mirtilli come si deve, il suo e quello degli altri. Non ho mai avuto cuore di dirglielo, ma la sua era immangiabile. Aggiungeva zenzero e peperoncino, in pratica il sapore di mirtillo spariva sepolto dai forti aromi delle due spezie.
Quella volta che sua cugina Cea di Fresno venne a trovarci, Vera si cimentò nella sua originale preparazione. Le gironzolavo intorno, consigliandole di andarci piano con gli ingredienti, che forse i suoi parenti avrebbero preferito qualcosa di più tradizionale, magari una cheesecake. Mi fulminò con lo sguardo. «Jack London!» Mi apostrofò. «Vai a farti un giro da Mobs, e non tornare prima delle cinque». E così feci, indossai il mio giaccone, il cappello e misi il guinzaglio al vecchio Prince.
Quando rincasai, Cea era già arrivata con suo marito. Cenammo, e fu una serata piacevole. Poi Vera si alzò, e con un’enfasi che non le riconoscevo, disse: «E ora la torta!»
Tornò con un vassoio, lo posò al centro del tavolo, e, con precisione chirurgica, tagliò sei fette. Le mise nei piattini da dolce e le servì. Io mangiai la mia porzione al solito modo: pezzi piuttosto grandi, masticazione quasi assente e ad ogni boccone un sorso cospicuo di birra. Potrei mangiare bocconcini di carne per il cane con quel sistema. Gli ospiti invece apprezzarono. Ne fui sollevato e felice.
Quando si ammalò, non me ne accorsi. Per me era sempre la solita Vera. Sì, ogni tanto si dimenticava dove metteva le cose, ma a quanti succede? Poi peggiorò. Come una giornata di luglio, soleggiata, qualche nuvola, un po’ di pioggia, prima lieve poi sempre più forte, gli scrosci e infine la grandine.
Trovai la lettera nell’armadietto del bagno, dietro la schiuma da barba. La data indicava due settimane prima. Iniziava con “Se mi ami”.
La notte del 2 marzo 2004 uccisi mia moglie con cento gocce di Gradol.
Il bosco di aceri è ancora lì. Ora di definito c’è il ferro rugginoso delle sbarre. Mi volto verso la porta di metallo. La foto di Vera mi osserva. Ancora le sue parole, “Non voltare le spalle alla vita”. Ci sto provando, ma è così difficile, amore mio.

di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Mauro Speri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Robert D si voltò. Nessuno lo osservava. La stanza del museo era vuota e nell’incavo del muro una scalinata portava al piano inferiore. Ritornò a fissare quella fotografia appesa al muro: un uomo di spalle percorreva un viale in un parco.
Cosa lo attraeva di quello scatto? Quali particolari lo rendevano così famigliare? La camminata nella solitudine? La bellezza del parco? E se al posto degli alberi slanciati ci fossero state delle case colorate?
La testa china verso il basso era indizio, ricerca di qualche pensiero, impronta lasciata sulle foglie. E allontanava sempre più l’eventualità di uno slancio, una furbizia improvvisa, un movimento tale da smascherare chi lo osservava.
Sapeva il fotografo di chi era quel corpo celato da vestiti da viandante?
E sequestrato quel momento, cos’era successo in seguito?
Dite che ci sia un ritrovo verso cui siano dirette tutte le persone ritratte solitarie in cammino?
Oltrepassato il muro, dov’è appesa l’opera, c’è forse ad attenderli una partita a carte in compagnia?
Robert D uscì dalla mostra e si incamminò tenendo d’occhio le domande.
Giunse in un viale in terra battuta, immerso nel verso, con grandi alberi e fitti cespugli. Lo percorse con attenzione, tendendo le orecchie a ogni rumore e voltandosi in prossimità di una curva.
Ritenne il luogo perfetto. Sedette su una panchina e aspettò un individuo camminante.
Nessuno passò, tranne gli istanti che senza mai fermarsi continuavano a fare il giro del parco.
Gli attimi non lo potevano osservare, ma solo attraversare.
Allora estrasse la macchina fotografica, la poggiò su una balaustra e mise un autoscatto tanto lungo da poter percorrere con tutta calma il viale. (È una splendida illusione quella di raggiungere il tempo).
Vedendosi di spalle nel piccolo schermo della sua reflex, pensò che era esaminato da se medesimo dunque osservatore e osservato. Eppure c’era qualcosa di se stesso che gli era sfuggito via.
Robert D concluse: “Se catturo un soggetto solo, faccio in modo che non lo sia più? La compagnia che gli dono non è forse un’effimera preghiera da voyeur? Lui cammina e sparisce. Io stampo un suo doppio che passerà di sguardo in sguardo su una strada di pellicola. Se si fosse girato, nell’attimo dello scatto, tutto sarebbe cambiato. Ci saremmo incontrati. Quanto mi piacerebbe fotografare un viandante che, voltandosi, mostrasse il mio volto, il mio io.”

di Paolo Negri

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