di Gaetano Lo Castro

Nella misura in cui vi aprite, coglierete i frutti.

(Da un messaggio di Medjugorje)

Una volta c’era un fico d’India.

Era una giovane cactacea spontanea nata da un semino. Si trovava nel giardino d’una casa di provincia con prospettiva sul mare e sul vulcano.

Nell’abitazione ci viveva uno scrittore. Scrittore almeno nella sua intenzione. Perché scriveva un po’ di tutto, ma non riusciva a pubblicare un bel niente. Il suo scrivere non produceva frutti utili.

Come diversivo gli piaceva accudire al suo giardino. Prediligeva le piante grasse, in particolare il piccolo fico d’India. Col tempo esso crebbe e divenne una pianta alta dalle pale piene di spine. Ma di fichidindia non si scorgeva manco l’ombra. “Non devi abbatterti se sei infruttuoso. Non è da tutti dare buoni frutti.”

Lo scrittore decise di rinunciare alla scrittura. Avrebbe cercato altrove la realizzazione della propria natura. Il suo sguardo andò verso la vetta innevata innalzata nel cielo blu. Sentì nascere un desiderio d’ascesi.

Dispose con precisione l’ultima pietra lavica e quindi osservò con soddisfazione la propria opera appena terminata. Di fianco al fico d’India, nella nicchia di nera sciara, troneggiava la statuetta bianca e azzurra della Madonna coronata di stelle. Colse alcune rose, le mise in un vasetto pieno d’acqua e gliele depose dinanzi.

“Ora il nostro giardino ha la sua Regina! È una sovrana che bisogna amare!”

Il fico d’India ammirò la figura minuta e regale, riposta dentro la piccola grotta sotto le sue ispide pale. Gli ispirava tanta tenerezza.

“E che occorre omaggiare, non solo coi fiori, ma ancor più con la preghiera.”

Si sedette sopra la panchina, si tolse dal collo la corona e cominciò a recitare il rosario. Contemplava Maria, il mare, il vulcano. Meditava i fondamentali interrogativi esistenziali. Sentiva emanare energia tutt’attorno dalla statuetta di Maria. Era come un fluire di linfa nutriente. Era come uno scorrere d’ispirazione trascendente. Ebbe l’impulso di trascrivere tutto. Concluso il rosario corse in casa, prese il PC, lo pose sul tavolino vicino alla Madonnina, l’accese e con lena iniziò a scrivere.

“Complimenti, hai fatto tanti bei frutti!”

La pianta n’era fiera. Le sue pale erano piene di grossi frutti rossi. Usando un guanto l’uomo ne spiccò un poco e li sbucciò. “Sono molto dolci.” disse assaggiandone uno.

Si sedette sulla panchina e aprì il suo libro appena pubblicato. “Ti faccio gustare la mia prima opera. Spero davvero che ti piaccia.”

Lo scrittore prese a leggere al vegetale il suo romanzo, mangiando fichidindia e occhieggiando Maria.

Lei gli sorrideva.

Gaetano Lo Castro. Autore siciliano, scrive romanzi, racconti, pièce, poesie. Molte sue opere sono state premiate e pubblicate in antologie. Un suo romanzo si è classificato 1° in un premio per inediti, è stato pubblicato, ed è giunto finalista in un altro concorso.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Alessandro Giulianelli

“È permesso?” Arturo spinse la vecchia porta cigolante. La casa era ridotta male, nessuno ci entrava più da anni. L’uomo guardava in giro rammaricato mentre aiutava la signora dell’agenzia immobiliare a superare la soglia.

“Non ci torno da quando ho preso il mare come soldato semplice”.

“È arrivato molto lontano” constatò lei mentre lui scansava le seggiole.

“Forse anche troppo”.

La donna lo vedeva giù di morale: “Ha belle memorie di questa casa?”.

“Bellissime: ci ho vissuto coi nonni. Lui era sempre alle prese con i rottami, mi portava in giro per l’isolato a vedere se qualcuno stava facendo qualche mestiere per dargli una mano e dirgli come si faceva”.

“E sua nonna?”.

“Lei passava le giornate in giardino. Venga”.

Arturo aprì la porta che dalla cucina dava all’esterno. “La nonna trascorreva la vita a combattere un albero con i fiori rosa”.

“Combattere?” curiosò lei mentre Arturo la portava dall’altra parte del cortile.

“Sì” esclamava “Perché l’albero d’estate metteva un tripudio di fiori rosa e il vento li spargeva per il giardino e in casa. Lei impazziva, lo rimproverava come un figlio” ma l’allegria di Arturo si spense tutta insieme: dove si ricordava, ora spuntava solo un tronco mozzato.

L’uomo si ficcò le mani in tasca: “Già: non è rimasto proprio nulla di questa casa che voglio tenere”.

Arturo continuò il giro mentre l’agente faceva domande:

“Quand’è che i suoi nonni se ne sono andati?”

“Bah” rispondeva aprendo la porta del bagno, “L’ultima lettera è di cinque anni fa”.

“Avevano altri parenti?”.

“Un paio” ribatté Arturo mogio e passò all’ultimo corridoio. Questo dava alla camera dei nonni dove Arturo una volta si ficcava sotto le coperte con loro.

Si fermò, la voce gli tremava: “Senta, non dovrei dirlo a lei ma avrei voluto davvero mollare tutto e tornare quando ancora potevo. Una vita è volata e non me ne sono accorto. Ho pensato che a fargli compagnia ci sarebbe sempre stato quell’albero che impegnasse la nonna, ma immagino che alla fine fosse diventato insostenibile. Doveva vedere come sorrideva quando riusciva a tirar via tutti i fiori”.

Arturo strinse la maniglia, “Ma indietro non si può certo tornare” la abbassò.

Allora spalancò la porta e una fittissima tempesta di fiori rosa lo travolse come un’onda.

“Guardi! La finestra che dava sull’albero era stata lasciata aperta! I fiori si sono accumulati qui!”.

Arturo era pietrificato.

La camera dei nonni era completamente sommersa.

“E come hanno fatto a restare così, senza appassire?”.

“Non lo so” rispose la donna, “Forse la stavano aspettando”.

Alessandro Giulianelli, nato a Roma nel 2003, ha vissuto infanzia e adolescenza tra Bergamo e San Felice Circeo. Attualmente studia e vive a Milano e frequenta la facoltà di Giurisprudenza presso l’università Statale.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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LEZIONE DALLA PANDEMIA COVID-19

Di Giuseppe Geneletti

Cosa avremmo fatto o sarebbe accaduto nelle nostre vite senza la pandemia? Non è certo presto per una riflessione personale in merito.

Forse non avremmo cambiato casa, conosciuto persone ora importanti, iniziato una nuova sfida professionale, chiuso l’attività di famiglia, smesso di fare i pendolari o di fumare. Io non avrei cambiato città, non lavorerei da remoto, non starei così tanto in famiglia, avrei viaggiato di più, ma incontrato meno persone online.

A livello globale, l’isolamento fisico di Vladimir Putin, ossessionato dal rischio di contagio, e l’aridità delle comunicazioni diplomatiche esclusivamente a distanza, forse hanno contribuito all’invasione russa in Ucraina. I colli di bottiglia delle catene di approvvigionamento globali non si sarebbero manifestati con l’intensità e longevità che ancora oggi condizionano gli scambi internazionali. Non lo sapremo mai con certezza, perché non c’è la prova del contrario. 

Abbiamo forse riscoperto l’importanza della salute, dei legami familiari, delle relazioni con le persone che contano, a volte troppo tardi. Abbiamo imparato che non si può dare per scontata la libertà di movimento e di lavoro, il diritto alla privacy e alle cure. Credevamo che non fosse possibile fare scostamenti di bilancio oltre il 3% in Europa. Invece sono arrivate risorse con così tanti zeri che quasi ogni mese ci sono decreti che valgono come una finanziaria dei tempi pre-Covid. Abbiamo riconfermato le nostre profonde differenze e divisioni sociali. Qualcuno, che era già forte prima, ha trovato il modo di avvantaggiarsi, qualcuno, che era già sull’orlo del precipizio, è andato a picco. In generale si è acuita la polarizzazione, le differenze tra chi ha e chi non ha più, e non ne può più. Possiamo iniziare a metabolizzare se la pandemia ha modificato il nostro pensiero. Cosa crediamo sia essenziale nella vita. Se ci fidiamo degli altri, delle istituzioni, della scienza. Possiamo riflettere su come abbiamo cambiato idea nel tempo. Quali dubbi abbiamo sciolto e quali rimangono dilemmi. Abbiamo imparato che le vaccinazioni funzionano, ma non durano per sempre; che il tasso di mortalità dipende dalla capacità delle terapie intensive, che alcuni ospedali non avevano nemmeno; abbiamo imparato che la pandemia non uccide solo gli anziani e i malati. È stato un tempo straniante e inatteso, con alcuni più scettici e cinici, altri spaventati e arroccati, altri ancora impermeabili e intoccabili.

Sarebbe stato meglio che non ci fosse, ma dato che c’è stata, meglio cercare di trasformarla in un’opportunità. Come canta Bruce Springsteen: “Se la vita non ti dà altro che limoni, fai della limonata”. Spesso ci attardiamo in un tempo che non esiste più o ancora. Il tempo della vita è il presente: l’attimo in cui decidiamo chi siamo, cosa vogliamo e lo mettiamo in pratica, liberandoci dai fantasmi del passato e dribblando le nuvole che oscurano il futuro. Se c’è una lezione che il Covid-19 ha offerto a tutti è che l’ora d’oro è ora. Quell’idea nel cassetto per una vita più felice, tiriamola fuori; quel gesto di unione con il prossimo, che abbiamo ignorato sul lavoro, nel vicinato, nella famiglia, intraprendiamolo con fiducia; quel ringraziamento interiore per tutto quello che la vita ci offre, esprimiamolo con gioia. Il passato ci fagocita col rammarico. Il futuro ci spaventa con l’indeterminatezza. In un mondo in cui sembra che la velocità sia tutto, il tempismo vale molto di più. Cogliere l’attimo è il nostro potere magico.

Il tempo è tutto attaccato

Natale Geneletti (mio papà)

Giuseppe Geneletti è un giornalista pubblicista, associato alla redazione di VareseNews.it. Esperto di cambiamento organizzativo e innovazione, pubblica settimanalmente su temi di attualità economica, sociale e di interesse locale.

Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)


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di Daniele Crotti

Nell’ospedale da campo appena fuori Mariupol, a ogni colpo di tosse del dottor Vladimir Ivanov, Anton Kovalchuk si passava sul viso la mano destra graffiata. Disteso su una branda, lo fissava per qualche istante, in uno stato d’assenza che solo i soldati sfiniti lasciano intendere. Aveva pena nel vedere il suo vecchio compagno di stanza all’università curare soldati feriti da tre giorni, senza pause e con una tosse insistente. Otto anni prima avevano vissuto nello stesso appartamento a Mosca, per qualche mese. Vladimir Ivanov veniva da Samara, nella Russia centro-orientale. Anton da Odessa, nell’Ucraina del sud. Uno studiava medicina, con una passione per le malattie dello stomaco. L’altro faceva ingegneria, ma con più interesse nel farsi distrarre dalla gentaglia nelle vicinanze dell’università. Pochi giorni prima che Vladimir andasse a vivere con lui, Anton era nervoso. Non ne poteva più di stare da solo. Voleva un compagno di stanza, soprattutto per giocare a scacchi. E lui e Vladimir cominciarono a farlo spesso. Quando vinceva una partita, Vladimir gli diceva sempre: – E Karpov batte ancora Kasparov! – Anton era ucraino, non era nato in Azerbaigian come Kasparov. Ma a Vladimir bastava per poterlo prendere in giro. Questo era il gioco. Per lui, solo i russi erano bravi con gli scacchi. E quando perdeva, dava la colpa alla stanchezza. Lui studiava medicina. Nessuno doveva dimenticarselo. Poi però, passato l’inverno, Anton aveva cominciato ad uscire da solo la sera. Girava con persone che gli avevano promesso molti soldi e che non avrebbe dovuto ascoltare. Ad un certo punto, lasciò l’università e Vladimir non lo vide più. Fino a quando, durante le visite del pomeriggio, se lo era ritrovato nell’ospedale da campo, con una ferita profonda al fianco. Nonostante la barba lunga, Vladimir aveva riconosciuto Anton al primo sguardo. La ferita non era mortale ma servivano antibiotici e un po’ di sangue. Vladimir lo disse all’infermiere. Antibiotici e sangue, così disse. Poi se ne era andato dagli altri soldati feriti, senza dire nulla ad Anton, che ora stava aspettando da tre giorni la visita di controllo. Gli antibiotici cominciavano a fare effetto. Il sangue era arrivato il giorno prima. Giunto il turno di Anton, Vladimir si avvicinò, reprimendo un colpo di tosse. Controllò la ferita, fece un cenno all’infermiere e proseguì. Anton avrebbe voluto che Vladimir gli ripetesse ancora per una volta la storia di Karpov. Che lui era russo e lo aveva curato perché era il più bravo di tutti. Dopo pochi passi, Anton lo sentì tossire e piano piano si addormentò.

Daniele Crotti è un ricercatore universitario in Economia, con la passione per le arti espressive. Quelle che liberano l’energia e la poesia dentro noi stessi. Musica jazz e racconti fulminanti sono le cose di cui si nutre con maggior curiosità.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)


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di Ingrid Confalonieri

Scosto la tenda della cucina, è mattina. Molti di noi sono già usciti di casa, chi al lavoro, chi a scuola, accecati da lampade a led. I miei cani raggomitolati come gatti sulla brandina del balcone. Il freddo umido della città li unisce, la coperta in pile arruffata, stanno al caldo. Sollevo gli occhi, cielo grigio oggi, unico spicchio tra i palazzi, grigi pure loro. Le previsioni meteo ci illudono sempre, l’aspettiamo da un po’. Da anni. La neve dell’infanzia, la ricordo e sorrido. Guardo l’orologio. Abitudine. Gli alberi spogli, il vento ha spazzato via le ultime foglie, paiono scheletri. Le siepi sono ancora verdi, lo sono sempre. I pini in giardino soffrono, troppo caldo quest’estate, la poca acqua li ha provati, dovrebbero stare lassù sul Monte Rosa, nel gelido bianco. Mi volto, il calendario è appeso sul fianco del frigorifero, non ho pareti degne di accoglierlo, di carta, nasce da un albero, amico-nemico dello scorrere del tempo, parente lontano del mio orologio elettronico, smart. Uno sguardo fugace alla ricetta del mese riletta mille volte nei trenta giorni passati. Devo voltare pagina, nuovo mese, nuova ricetta, ultima del 2023. Una torta. Tanti giorni rossi! Le feste di Natale si avvicinano. I parenti, gli amici, i regali. Cosa manca, a chi. Cosa serve. Dove. Le clementine nel cartone del supermercato, le ho lasciate al freddo della notte, frutti di piante del caldo sud, a Gianluca piacciono così, ai miei denti no. Faccio entrare i cani. Il maltese, nel cappottino imbottito rosso, ringrazia. Un campanello, il microonde suona, il mio latte è caldo, poco caffè, zucchero di canna, giusto una punta di cucchiaio senza esagerare. Caffè, canna da zucchero, ma come ci sono finiti nel mio latte? Piante nel latte, che bontà. E le clementine dalla Calabria, viaggiano in camion, raccolte immature. Dovremmo tutti avere una pianta del cuore. Che ci faccia stare bene, in sintonia col tempo, il clima e gli umori. Tante nuove piante che ci riportino le stagioni di quando ero bambina. Oggi ci sono bambini che non hanno mai visto la neve, non tanta quanta ne ho vista io, nel 1986! Clic, si accende una luce, un’idea in testa. Il motivo di una canzone che cantavo da piccola, con mia sorella e la mamma. Quest’anno regalerò alberi, ad ognuno il suo. Mi divertirò a sceglierli. Li pianteranno per noi, piccoli semi, e li lasceremo crescere là dove devono stare, dove è giusto che stiano, nella loro terra, bagnati dalle loro acque e riscaldati dal loro sole. Che respirino con noi, per noi. Per il futuro della Terra.

Ingrid Confalonieri. Nata a Milano, classe 1970, vive a Varese, studia e lavora come ragioniera, ma da sempre coltiva una passione per l’arte, la poesia e la letteratura gialla. Amante degli animali e del giardinaggio oggi si diletta a scrivere poesie e racconti brevi.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)


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di Silvia Faini

C’erano giorni, lassù in collina, in cui le raffiche di libeccio erano così forti da far gemere di dolore le canne. La salvia e la lavanda, invece, assaporavano il profumo salmastro del vento che solleticava loro le foglie.

Io – radici salde come funi – me ne stavo piantato in mezzo al giardino, incurante delle folate che mi scompigliavano la chioma e strappavano piccole olive verdi dai rami più esili. Guardavo zia Santa, che usciva in fretta da casa, sprangava le ante e sfiorava con dita premurose i gerani. Aspettavo una sua carezza, che non mancava mai, poi la osservavo rientrare, sedersi accanto alla finestra, inforcare gli occhiali e leggere, lasciandosi andare al sonno, nei pomeriggi afosi, quando attorno al rosmarino in fiore ronzavano ansiose le api.

Dal poggio il mio sguardo si spingeva, oltre il borgo di case in pietra, fino al lecceto, all’uliveto grande e infine al mare, lucente e liscio come seta nei giorni di bonaccia, infuriato e livido nei giorni di maltempo.

Il fuoco, però, non lo vidi arrivare. Lo sentii nell’aria, me lo sussurrarono ginestre e lentischi terrorizzati che avvistarono le lingue rossastre lambire i primi cespugli. Tremavo.

Folle di paura, inerme e impotente, lo guardavo salire, mangiarsi sorbi e allori, carpini e sambuchi. Avrei voluto sradicarmi da lì, fuggire, salvarmi.

Zia Santa, trafelata, i corti capelli bianchi ritti sul capo, pompava l’acqua dalla cisterna e ci bagnava, ci bagnava in continuazione, mormorando fra sé: “Fatevi coraggio, fatevi coraggio”. “Vattene almeno tu!” le gridai, ma lei mi passò accanto, mi accarezzò il tronco nodoso, poi, quasi avesse capito, scosse la testa e mi restò accanto, guardando insieme a me il fuoco che lambiva il borgo, respirando con me l’odore acre del fumo, piangendo.

Inatteso, un frastuono esplose sopra la collina e un enorme elicottero, gravido d’acqua, si precipitò verso le lingue roventi e le annegò in una cascata di pioggia. Zia Santa, stordita e felice, cominciò a ridere asciugandosi le lacrime, poi, con dolcezza, batté la mano sul mio tronco. “Siamo salvi – mi disse infine sospirando – siamo salvi!”.

Silvia Faini ha lavorato come insegnante, traduttrice, redattrice; ha scritto fiabe, racconti, romanzi brevi. Ha partecipato a numerosi concorsi letterari classificandosi al primo posto e ha pubblicato con Mondadori e con editori meno noti.

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Il presente microracconto è un tributo a una delle coppie più controverse e mai ufficializzate dall’autrice all’interno del Fandom potteriano: lasciando correre la fantasia a briglia sciolta, Draco Malfoy suona in memoria del suo amore, Hermione Granger, perduta a causa dell’inesorabile. A causa dell’Oscuro Signore.

Di Jessica Tommasi

Sollevò il mento, la cinerea luce ne investì il viso quando dense ombre marcarono i lineamenti del giovane, consunto dal dispiacere.

La tramontana ne sferzò gli zigomi affilati come pugnali, ululò tra i merli del mastio, scompigliò le vesti del pianista. Questi sfiorava con trasporto lo strumento d’ebano: ogni gesto, ogni postura eseguita con plateale austerità.

Per un istante pensò di essere perduto e vacillò, poi però gli sembrò di percepire quell’odore, quell’effluvio di pino. Il ricordo era nitido, un indelebile affresco nel flusso della memoria.

Lame di luce gli offuscavano lo sguardo, colori caleidoscopici giocavano creando riflessi sui propri capelli biondissimi. Ciononostante…

Lei era lì, e ciò era sufficiente.

Lei era lì, avvinghiata a lui sopra una trapunta di aghi secchi. Per Merlino se pungevano la schiena, ma lei era di nuovo lì, con lui, e ciò rappresentava più di quanto avrebbe mai potuto desiderare. Sussurrò qualcosa all’orecchio, quindi baciò le labbra di lei.

Teneri petali vermigli, vellutata materia dei sogni.

«E se dovessi spiccare il volo? Se dovessi raggiungere le stelle, lassù, e unirmi a esse per vegliare su di te?»

La voce riecheggiò carica di turbamento, le braccia risvegliate da un tremito, i riccioli bruni scossi da un Oscuro Presagio. Eppure ebbe la determinazione di stringerlo a sé, annegando nel pregnante profumo di colonia e di verdi mele appena colte.

In quell’algida atmosfera ove tutto è destinato a concludersi o forse a rinascere, v’erano i loro cuori a sancire un ritmo differente: vivace, andante, poi largo e presto.

Battiti che si incespicavano in sinusoidi (im)perfette. «Ti accompagnerei senz’altro. Continuerei a comporre sinfonie che portino il tuo nome. Nel perpetuo perpetrarsi.» Un gufo bubolò in lontananza.

Dischiuse gli occhi, rivelando due abbacinanti acquitrini azzurri, ed ebbe la fugace visuale delle dita in movimento, degli arti in preda alla trascinante passione che nutriva per il pianoforte.

Era come estraniato dal mondo, distaccato dalla mesta, caduca dimensione terrena.

Scrutò gli astri rifulgere nell’incommensurabile volta celeste, al cui confronto ognuno non è che un chicco di miglio, rivolgendo loro una preghiera muta.

Ardono ora le lacrime, tizzoni ardenti, con l’ennesimo cingere d’arti che doni all’atmosfera, l’ennesimo sospiro che vira nel tacito nulla di parole trattenute a stento.

(Soprav)vivi nell’infimo spazio a cui altri ti hanno designato.

La solitudine sarà l’unica ad attenderti, senza sconti di sorta. E in ogni momento una stilla di cadmio liquido lorderà il tuo cuore, reso di fuliggine, goccia dopo goccia.


Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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LETTURE E ALTRE ARTI, con una finalità

Il consiglio dato tante volte, e che chiunque vi potrebbe fornire, è di leggere. In particolare ho specificato di rileggere più volte l’autore e le pagine preferite. Vorrei andare a fondo, nel consiglio.

A noi interessano solo le letture che ci danno uno stimolo. Non siamo semplici lettori che leggono per piacere. Vogliamo diventare scrittori, e quindi tutto sarà in funzione di questo, a partire proprio dalle letture, che sono certo alla base dei nostri desideri e che ci hanno incoraggiato.  Selezioniamole e, come abbiamo imparato a fare con le parole superflue, interrompiamole se non rispondono alla nostra esigenza. Un invito alla fantasia.

Finalizziamo la lettura a uno studio di stile e struttura. Cerchiamo di capire come sono formate le frasi, i periodi, i singoli capitoli e come tutto il romanzo e la storia stanno in piedi. Non per imitare, ma per trovare incitamenti.

Ugualmente le altre arti. Un quadro ci ispirerà idee narrative, così come l’ascolto della musica o l’andare a teatro. Di un film non ci interessa più di tanto il giudizio della critica o del pubblico, ma quali ispirazioni promuove in noi. E anche in questo caso rivediamolo senza contare le volte.

Cinema, arte, musica, teatro accompagnano la vita di tutti. La nostra in modo singolare.

continua il 6 luglio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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di Mita Bolzoni

Morivano tutte all’ombra delle nostre foglie.

Si accovacciavano senza un lamento e lasciavano che la vita le abbandonasse.

Nessuno riusciva a capire perché.

Noi potevamo solo custodire tra i rami il silenzio che le avvolgeva e le conduceva lontano, nel posto da cui nessuno torna. Vennero uomini vestiti di bianco, parlavano sottovoce, compievano i pazienti gesti necessari per scoprire le cause, per rimuovere i corpi che di giorno in giorno aumentavano. Anch’essi godevano della nostra ombra, nel duro lavoro senza risposte.

La recinzione che proteggeva la riserva, di cui gli uomini vestiti di bianco andavano fieri, in quei giorni finì per delimitare un misterioso inferno.

Sono state avvelenate, dicevano, qualcuno vuole distruggere il nostro paradiso.

Le nostre foglie oscillavano giocose nel breve vento del mattino, cullando i loro dubbi rabbiosi.

Intanto i corpi si ammucchiavano con solenne dolcezza ogni notte, sotto una stupefatta luna, poggiando le lucide schiene ai nostri tronchi nodosi, tentennando le grandi corna ritorte, guardando un punto distante.

Indagarono, capirono, non era come sospettavano.

Nessun bracconiere le aveva avvelenate, i loro stomaci erano risultati vuoti.

Le antilopi si erano lasciate morire di fame.

Fu così che la recinzione del paradiso cominciò ad essere guardata con occhi nuovi, perché avrebbe dovuto preservarle da ogni pericolo ma si era rivelata la loro tomba.

Erano morte le antilopi, sempre di più, erano morte ai nostri piedi e nessuno aveva potuto fare nulla.

Tra i nostri rami restava impigliato soltanto il loro ultimo desiderio: fuggire.

Ma anche noi non possiamo fuggire, siamo alberi di acacia, e le antilopi prigioniere in quel paradiso non facevano che nutrirsi di noi, continuamente.

Non avevamo scelta, dovevamo difenderci.

Le nostre foglie predate oltremisura reagirono producendo tannino, che le rese impossibili da digerire, mentre dai nostri pori si sprigionava rapido il gas etilene, che raggiunse le nostre sorelle e le avvertì del pericolo, cosicché anch’esse potessero difendersi nello stesso modo.

La tossina aumentava nelle foglie, ogni giorno di più. Nessuno poteva fermarci, eccetto le antilopi, che avrebbero potuto bloccare la produzione di tannino semplicemente spostandosi a cercare altre piante.

Ma non potevano.

Prigioniere della riserva, si nutrirono di noi finché capirono che eravamo cambiate.

Allora pur di sfuggire al veleno si lasciarono morire di fame. Cadevano all’ombra delle nostre foglie, cercando con gli occhi umidi alberi irraggiungibili, che crescono solo dove la terra è libera.

Mita Bolzoni è nata a Como il 24 giugno 1970. Si occupa di teatro, scrittura e pittura. Il lavoro sul corpo in scena guida e ispira anche i suoi racconti e i suoi quadri. Vive sulle montagne del Lario e la natura è la sua fonte di ispirazione quotidiana.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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