E I “DIRITTI SENZA PACE”

di Davide Maria De Filippi

Per andare alla radice dell’attuale situazione di urgenza e di fatica nella realizzazione della pace in Ucraina dovremmo partire dall’analizzare il complesso rapporto tra guerra e pacifismo.

Pacifismo e pacificazione sono le due facce di un’unica medaglia il cui fulcro centrale è, da sempre, la storia dell’idea che la “guerra giusta” non esista.

Oggi la “pace spezzata” non è il vero problema dell’Unione Europea perché il suo vero problema è la “pace impossibile”.

Per poter ambire ad una “pace per tutti” urgerebbe l’instaurazione di un “nuovo umanesimo” basato proprio sui concetti di pace e di giustizia.

La vera “patologia” della contemporaneità, oggi, infatti, è l’evoluzione etica delle istituzioni politiche e del loro patrimonio valoriale, come la vera “sfida politica” è tradurre l’assioma che segue la linea che parte dal Kant, del “Progetto per una pace perpetua”, e passa per il Kelsen, de “Il problema della sovranità”.

Il processo di democratizzazione del sistema internazionale, tappa fondamentale per il raggiungimento della “pace perpetua”, non può discostarsi dalla “cura” di questa “patologia” in una dimensione sovranazionale.

La guerra in Ucraina ha bisogno “dell’astratto” perché essa stessa, almeno nella modernità, scaturisce “dall’astratto” poiché altro non è che una “rivolta” compiuta contro “l’immanente”, contro uno “stato di cose” ed un “determinato” stato dei fatti.

Le organizzazioni delle Nazioni Unite si sono poste, a salvaguardia dello “jus gentium” proprio per evitare che la guerra diventasse una aggressione immotivata che calpestasse il diritto internazionale che, nella contemporaneità, ha sostituito il cosiddetto “vincolo religioso”.

Effettuare una riflessione sul senso della pace necessita inevitabilmente farne anche una sul concetto di “spiritualità di guerra” interrogandosi sul senso ultimo di cosa, realmente, rappresentino la spiritualità e la pace.

La pace, quindi, come “il risultato” della priorità delle esigenze spirituali su quelle materiali e sulle disuguaglianze sociali, vere “radici” dei conflitti moderni.

Effettuare una riflessione sul “senso” della pace e della spiritualità non può, pertanto, che partire proprio dal concetto di “vivere in uno spirito di cooperazione e di servizio”, condotta che, da sola, potrà cambiare le coscienze e riuscire a trasformare il mondo intorno a noi.

Compiere un atto gentile e disinteressato ha sempre un impatto enorme, anche se semplice, perché il potere accumulato da questi “gesti invisibili di servizio” potrebbe definire l’intera vita di una persona, lasciando “le cose” in una condizione migliore di quella di partenza.

I due polmoni d’Europa, Mosca e Roma, hanno avuto, negli anni scorsi, davanti a loro l’occasione di ricomporre la secolare frattura fra occidente ed oriente cristiano, nonostante i peculiari caratteri dell’identità e della geopolitica ortodossa.

L’ennesima occasione, ad oggi, purtroppo, mancata con una faglia che si allarga sempre di più giorno dopo giorno, esplosione dopo esplosione, vittima dopo vittima. La realtà, purtroppo, è sempre quella e continuerà ad esserla anche dopo che il “teatrino del bene” avrà chiuso il sipario. Perché la società alla fine è solo un gioco le cui regole sono scritte nel codice morale anche se nella vita forse ci dovrebbero essere delle cose più importanti degli “sfregi”. Ci dovrebbe essere, per esempio, il pensiero con la p maiuscola, quello “della teoria e della giustizia”. Quello di una Ucraina pacificata, ricostruita e “migliore” di quella di prima.

Davide Maria De Filippi è nato a Marsala l’8 settembre 1983. Nel 2006 consegue il titolo di dottore in Relazioni e politiche internazionali alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Palermo. Appassionato d’inchieste giornalistiche, ha vinto premi in vari concorsi.

Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)


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di Alda M.C. Torri

Boschina di Crenna, autunno 1996 Mi trovo in tinello nella casa dei nonni di Sabrina. Ho un piano decorato di foto, tre cassetti e due sportelli. Tazze da tè, pacchetti di biscotti, bicchieri di ogni tipo e una grappa al miele all’interno delle ante. In un cassetto ci sono i centrini lavorati a uncinetto dalla nonna, bottoni e delle lettere. Nell’ altro si mescolano i coltellini da intaglio, le sigarette e altre cianfrusaglie del nonno.

Nel cassetto centrale c’è il mio segreto.

I nonni non riescono ad aprirlo. Non possono. Hanno smesso di provarci e ritengono che sia bello così. Nonna Vittoria ha avvitato un pomello in rame con al centro un cuoricino azzurro smaltato. Ora è perfetto.

Il mio destino va oltre all’immaginazione, perché io, in realtà, non sono ciò che si vede in questa casa.

Primavera 1973

Sabrina è una bimba di otto anni e vive dai nonni in campagna. Gioca in solitudine, disegna o lavora a maglia con la nonna sempre all’ombra di un maestoso albero di noce, vicino alla casa di Vittoria e Dino.

Si accuccia tra le radici del fusto e racconta all’albero tutto quello che le passa per il cuore. Il noce l’ascolta e lei percepisce le sue risposte. Gli anni passano, Sabrina cresce, il mondo intorno è cambiato e un po’ lo teme. Una delle certezze, che vibra nella sua anima, è la pace che avverte tra le fronde, i malli e l’ombra del suo albero di noce.

Quella pianta sono io.

Estate 1994 In un afoso lunedì Sabrina cammina in città e una macchina non la vede. Ci vorrà più di un anno per recuperare i danni subiti. Durante la convalescenza torna sempre nel mio abbraccio e le sue lacrime si confondono tra questi forti rami. Una notte, però, la mia sorte arriva violenta. Il temporale si abbatte per la campagna e un fulmine mi squarcia il tronco. Il fuoco è stato un’implosione dolorosa. Nonno Dino mette insieme quello che rimane di me e costruisce ciò che sono ora. Non è possibile, tuttavia, aprire il cassetto centrale. È lo spazio sacro del segreto che devo custodire.

Inverno 1997

Una sera Sabrina coglie il mio richiamo.

Si avvicina e con delicatezza disegna i contorni del cuore inciso sul pomello. Guidata dalla nostra magia, prova a tirare il cassetto che si apre. Trova un pacchetto di carta velina nel quale è avvolto il maglioncino fatto da lei tre anni prima e che, da allora, è sparito. Lo stringe stretto al cuore.

Capisce che dal giorno dell’incidente lo spirito del suo bambino ha dimorato nell’albero tanto adorato, il Signore delle Drupe.

Sente l’amore pervadere ovunque in un intenso profumo di mallo e ritrova la pace.

Alda M.C.Torri, 56 anni, vive in provincia di Varese. Ama disegnare e scrivere. Nel 1990 vince un concorso con la raccolta di poesie “L’epopea dell’illimite ” edito da Lalli Editore. Scrive di sogni, stranezze e ironiche avventure per chi ha voglia di stupirsi e di essere imprevedibile.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Di Anna Di Narda

La maniglia girò lentamente senza fare rumore, la porta d’ingresso si schiuse lasciando fuori la notte giovane e argentata. Mi infilai nell’ ingresso odoroso di fumo come un fantasma, una creatura angosciata che voleva nascondersi. Puzzavo di vomito e vergogna. Non so se quest’ultima abbia veramente un odore, non lo saprò mai, ma io me la sentivo addosso: qualcosa di dolciastro e acre al tempo stesso! Ti vidi riflessa nello specchio vicino alla porta del bagno. Non mi colpì solo l’innaturalezza della tua posizione, qualcosa brillava alla luce gialla dell’abat-jour. Una lacrima si faceva strada, piccola e luminosa, là dove le ciglia si diradano e lo smeraldo dei tuoi occhi si accende. L’immagine mi si stampò in fondo alla cornea, attraversò il nervo ottico e si riprodusse nel mio cervello: fu come ricevere un pugno diritto nello stomaco, un colpo basso inatteso, una realtà che volevo dimenticare, stordendomi di fumo e alcool. Da maledetto giocatore d’azzardo incallito, per quattro assi avevo venduto tutto: la mia casa, il mio matrimonio, la mia vita. Mi ero umiliato elemosinando soldi, costringendoti a fare più lavori per pagare l’affitto. Tu, che non meritavi uno come me, incapace di vincere la sua ingorda speranza!  Perché in fondo noi non facciamo altro che credere che la prossima volta andrà bene, che non è possibile che vada ancora male. L’attesa, è il tormento più grande. Non t’importa neppure che carte usciranno nella prossima mano, se tu chiuderai una volta per tutte i sospesi. No! Nella tua mente sei impegnato a pensare dove trovare altri soldi, dove giocarli e con chi!”. “Vale ancora la pena di vivere? Che domande ti fai Gino, certo che vale – mi risposi senza pensarci su. “Ma c’è qualcosa di strano! Giada è troppo tranquilla, non ha alzato lo sguardo pur avendoti sentito – continuai a dirmi. Ero sicuro di questo ci avrei scommesso una mano a poker persino!  Ma non avevo più nulla da dare in pegno, nulla! Mi ero giocato la nostra utilitaria il giorno prima e quella sera chiesto un prestito al “Nero” un personaggio che speculava sulle dipendenze altrui. “Cinquecento euro e a fine serata te ne do mille”! – lo avevo supplicato a lungo. E lui a non crederci e io a promettere, a dare il mio indirizzo di casa, a giurare che mia moglie aveva i soldi nel cassetto, lo stipendio appena riscosso! Neppure i vermi strisciano così in basso. L’ho fatto e all’una di notte ero fuori dal “Chris” disperato che piangevo come da bambino quando vedevo mio padre lanciare piatti e stoviglie, assestare due sberle a mamma e a me e poi sbattere la porta di casa diretto al pub. “Non diventerò mai come lui” – avevo giurato a me stesso! Sulla soglia della camera, i capelli appiccicati al viso, ti guardai. Fu allora che mi accorsi di cosa nascondevi nell’incavo fiorato del copriletto, tra le ginocchia: la mia berretta di guardia giurata, per anni custodita in cassaforte era tra le tue mani, puntata verso me. Sorrisi, alzai le braccia quasi a schernirti, ma tu non dicesti nulla. Silenzio… e solo quel clic, un piccolo rumore a finire la mia vita all’improvviso, come quando nei film appare la scritta “End” mentre ci aspettiamo una spiegazione, un chiarimento, vogliamo ancora capire. “Non che non me lo fossi meritato!” – pensai e negli occhi mi rimase quell’ultima immagine: un grande squarcio attraversava il cassetto bianco accanto al letto, come se qualcuno con forza lo avesse sfondato!

Anna Di Narda, impegnata nel sociale e innamorata del suo Friuli e dell’Italia, scrive in italiano e in friulano. Ha pubblicato poesie e racconti, e il suo primo romanzo “Storie ordinarie di donne straordinarie” nelle Edizioni La Gru. Ultimamente “I colori del tuo amore”.

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SI VIVE E SI MUORE, tutto il resto è letteratura

La penso proprio così. Quel tale che nacque in un quartiere malfamato della periferia romana, e che poi studiò in seminario, e infine fu uno dei primi produttori di film porno è un romanzo che ho in mente di scrivere. È una storia che già esiste, come quella citata sopra della ragazza dai capelli verdi, con un piercing al naso, bellissima, e con le ferite sul corpo di una guerra vicina… e non basta? E allora dirò di quei due ragazzi di Lecco che volevano sposarsi ma un ricco signore, invaghito della fanciulla, ne ostacolò le nozze, e poi successe l’epidemia causata dal coronavirus 19, e i cattivi morirono compreso il riccastro e i due giovani si sposarono, benedetti da padre Cristoforo… e via via tutti gli altri, i fratelli Karamazov, il Processo, la Commedia Umana e quella Divina, non sono forse storie di tutti i giorni? La letteratura è fuori dei libri, la vita di ognuno è un romanzo.

Raccontatela, e liberatevene. L’Infinito vi aspetta.

Continua il 29 giugno

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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di Laura Fornaroli

Con la Pandemia, le mascherine chirurgiche sono diventate obbligatorie. Con il volto parzialmente nascosto, la cinetica facciale non ha avuto modo di manifestarsi appieno. La socialità è divenuta problematica e la perdita di una parte dell’informazione ha avuto pesanti ricadute sull’interazione umana. Le barriere comunicative imposte dalle mascherine hanno portato il mondo a riflettere su metodi alternativi di espressione, come la valorizzazione di forme di comunicazione non verbale, e per ciascuno di noi è stato inevitabile diventare attore e guidare le conversazioni anche attraverso lo sguardo. Con questo mezzo, muovendo le sopracciglia e facendo vibrare le palpebre, ognuno ha affinato una certa sensibilità nel percepire l’altro, presagendo il consenso oppure la disapprovazione. Abbiamo testato a caro prezzo quanto sia complesso di punto in bianco spogliarsi di abitudini consolidate e ricodificare la vita in modo non convenzionale. Questa comunicazione filtrata ha messo in dubbio le nostre competenze, ma in particolare il grado di flessibilità e predisposizione al cambiamento di ciascuno. Nessuno è uscito indenne dalla Pandemia, eppure è bene ricordare che il termine “crisi” trova la sua etimologia nel verbo greco krìno, che significa distinguere con giudizio e che rimanda all’idea di scelta ponderata. Esso viene utilizzato da Erodoto, padre della storiografia, per indicare dapprima la mondatura del grano, in seguito la ciclica variabilità di un assetto politico. Di rado capita che parole così potenti si ritrovino ad essere tanto ben allocate nella nostra lingua: dal canto nostro, ciò che abbiamo potuto fare di fronte ad un evento tanto sconvolgente ed inatteso è stato ripulire il termine dal connotato pessimista che si concentra sulla paura. In tempi di Coronavirus, la crisi ci ha portati ad accettare la sfida di una più concreta capacità previsionale nel tentativo di cogliere la direzione del mutamento. Se tuttavia, guardare con benevolenza il prossimo orientando le informazioni veicolate è parte di una felice relazione umana ed un’ esperienza comunicativa che sospende il giudizio imparando a sostare in brevi silenzi, vero è che improvvisamente ci siamo trovati nella condizione di imparare come guardare il prossimo: qui lo sguardo si è rivelato lo strumento cardine per creare empatia, laddove chi fornisce informazioni si pone nell’atteggiamento di coinvolgere l’altro attraverso un messaggio in cui egli stesso è portato a immedesimarsi. Non è un caso che l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia deciso di consacrare l’empatia a porta di accesso al conseguimento del benessere collettivo. Essa influenza i comportamenti e gli stili di vita, condiziona numerose abilità sociali, ad esempio l’inclinazione a risolvere controversie all’interno di un gruppo. E se è provato che, attraverso il sistema dei neuroni a specchio, noi sappiamo ciò che gli altri fanno, c’è motivo di credere che il nostro agire sia in grado di attivare negli altri un meccanismo simile e reciproco. L’empatia diventa dunque il primo passo nella scelta della via dialogica, nel senso che mettersi nei panni di qualcuno e assumerne la prospettiva significa di fatto posizionarsi sullo stesso asse emotivo. Lo sguardo consapevole verso il prossimo è una lente da pulire ogni giorno e va rieducato a cogliere l’oltre che si cela dietro ogni dinamica. Se non ti liberi da immagini preconfezionate e non ti interroghi se il tuo modo di osservare le dinamiche dell’altro sia uno tra i possibili, dimostri di essere più centrato sull’essere visto che sul voler vedere.

Laura Fornaroli. Pubblica Funzionaria e docente free lance di italiano per stranieri, scrive per passione per una rivista che si occupa di diritto amministrativo e per un trimestrale di educazione e cultura.  Nel tempo libero viaggia e compone poesie.

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Era l’anno della maturità classica, e anche quello dei mondiali di calcio, e fu pure l’anno in cui nella nostra palazzina era venuta ad abitare, al quarto piano, una coppia di sposini, lui era un tipo burbero, non parlava mai e si interessava solo di calcio, lei… lei non posso descriverla, aveva una trentina d’anni ed era speciale, non era come le mie compagne di classe o come la mia ragazza che mi dava i bacini della buona notte sotto il portone, lei era una donna, e quando a me toccava il turno delle pulizie e lavavo le scale al piano terreno, e stavo chino con gli stracci in mano, lei scendeva e mi scavalcava senza chiedere permesso e con la gamba si strofinava sulla mia schiena, e i miei amici dicevano che era una troia, a me però faceva certi sorrisi che toglievano la parola, e infatti restavo muto, ero un ebete, e un giorno che il pianerottolo era ingombro dei miei secchi di acqua, lei per passare mi afferrò in mezzo ai pantaloni e mi spostò da una parte, e io da quel momento non pensai che a una cosa sola… E quella sera che c’era la partita ITALIA-GERMANIA tutta la palazzina venne a casa mia per fare il tifo insieme, e c’era anche quel citrullo del marito, e dopo il primo tempo io andai in cucina a bere un’aranciata e dal balcone guardai in su e la vidi affacciata alla finestra che ammirava il cielo, e così ebbi in quell’istante la più grande intuizione che finora avevo avuto, e quando salii le scale le gambe mi tremavano… E come poi è finita quella partita lo sappiamo tutti, e ci riversammo nelle vie e nelle piazze della nostra cittadina, e se qualcuno ricorda bene c’era uno che era più matto di tutti e stava in piedi sul tetto delle auto con il rischio di rompersi il collo, e poi, lo stesso, fu il primo a tuffarsi nella vasca della fontana in piazza, seguito da tutti gli altri, e sempre lui intonava I-TA-LIA I-TA-LIA, e quando seppe il nome del giocatore che aveva segnato il gol del 4 a 3 nessuno poté trattenere la sua gioia, e a squarciagola propose il nuovo coro… RI-VE-RA RI-VE-RA.

di Yuri Sansilvestro, illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Di Ilaria Mainardi

La porta del vecchio bistrot era quasi del tutto scolorita. Resisteva un pizzico di rosso sulla cornice superiore. Era stata risparmiata dalle intemperie grazie alla preminenza di una tettoia, fissata appena sopra, sul resto della soglia. E poi si notava qualche screziatura bluastra, virata ormai al grigio antracite, intorno al pomello d’apertura. La conformazione casuale delle scrostature di vernice imprimeva sull’impiallacciato il senso di macchie di Rorschach: pianeti ignoti all’astrofisica, continenti sommersi, l’Isola del Diavolo, che assomiglia a un cucchiaino da tè. La donna entrò, lasciandosi dietro una brutta giornata. Si sedette nel posto di sempre e ordinò un caffè lungo. Non aveva mai notato che sul ripiano alto dei liquori stava incastrato un piccolo mappamondo le cui condizioni non erano troppo migliori di quelle degli infissi.

«Quello? Eh, quello me lo ha regalato un viaggiatore. Saranno… quarant’anni, almeno. Se esci di qua e vai verso la fontana, ecco, lì c’era una specie di ritrovo di camminatori, gente che abbandonava le strade come le speranze, ma non si perdeva d’animo. C’erano parecchi rifugi come quelli lungo il fiume.» Il proprietario agguantò uno sgabello e solo una volta sopra si rese conto che una delle gambe era più corta delle altre di almeno un paio di centimetri. Imprecò, ma riuscì ad agguantare il suo reperto.

L’ellissoide di legno, imbrunito dal tempo, emanava un intenso odore di alcol, che copriva a stento quello di muffa. La donna fece un respiro profondo. L’asse doveva essersi cementato per le incrostazioni. Forse invece era colpa di alcune schegge rialzate che ne inibivano il movimento: per risolvere l’empasse galileiano si correva il rischio di ferirsi. Tanto valeva accettare il fatto che la terra non girasse più intorno al sole, almeno non in quel bistrot di provincia. Il viaggiatore aveva segnato delle croci rosse in corrispondenza di ogni luogo che aveva visitato (o che avrebbe voluto visitare, chi lo sa).

«Sembra una costellazione di viaggi. Non ti sembra la forma di Orione, questa?»

«No, no, stai a sentire, la particolarità è dentro. Non mi dire che non si riesce ad aprirlo da sotto… dai qua, fai vedere.» All’interno del mappamondo era conservato un foglietto ripiegato in due parti. Giallo, rigido: dalla cellulosa era nata una pietra graffiata dall’inchiostro, rosso, come le croci. Le parole non si leggevano più, scolorite, ammucchiate, quasi un cimelio svanito fra i recessi della memoria.

La donna si terse gli occhi umidi e provò da sola a decifrare l’enigma: “amore mio, ci rivediamo su Rigel”.

Ilaria Mainardi è nata e vive a Pisa, ma grazie a viaggi mentali si sente cosmopolita. Passioni: calcio e cinema. Ha pubblicato libri di narrativa, anche per ragazzi e bambini, e saggistica. Pep Guardiola e Quentin Tarantino l’aspettano da tempo.

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PENSIERO UNICO, non ci appartiene

Oggi lo chiamano mainstream. In questi ultimi tempi ha avuto grande successo.

Pandemia e guerra in Ucraina hanno contribuito a un suo quasi incontrastato dominio.

Non entro in merito agli argomenti. Non voglio discutere sui lockdown e sugli effetti dei vaccini, né sulla guerra e l’invio di armi. Quello che difendo è che ogni medico, addetto ai lavori, scienziato che sia possa esprimersi in libertà su fatti di medicina, così come ogni storico e giornalista possa dare la propria versione su avvenimenti di attualità.

Su come scrivere un romanzo ognuno dice la sua. Nelle pagine scritte abbiamo cercato noi stessi, ci siamo formati grazie a quei fogli bianchi. L’entusiasmo di vivere li ha riempiti di parole che sono nostre. Tanti uomini hanno combattuto per la libertà, tanti sono morti. La libertà non è un regalo. Se rinunciamo al pensiero non condizionato, mettiamo a rischio la nostra vita.

Qualcuno si prenderà il diritto di dettare le leggi della scrittura, di dire questo è bene e questo è male, ma noi abbiamo il dovere di dire la nostra, di difendere la libertà. Di combattere.

continua il 22 giugno

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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Di Davide Di Lorenzo

La domenica sera muoio sempre.

Risorgo il lunedì mattina. Preparo il caffè anche se la caffettiera è guasta. Forse sono guasta io. Ho dei crampi strani al mignolo del piede. Fumo imbronciata sul balconcino la prima sigaretta. Valuto lo stato dei lavori del cantiere che mi sta di fronte. Vorrei scriverti a che punto sono, è da tempo che non dormi da me.

Ho pochi giorni di vita. Questa settimana mi pare interminabile. Domani sarà martedì e mi farà male la stanza. Mi farà male guardare dalla finestra. Mi farà male vedere i bambini andare a scuola, gli universitari all’università, la gente fare la spesa. Avranno tutti un posto e soltanto io non saprò dove andare. Sono disabituata a un’esistenza taciturna. Sono disincantata senza i tuoi lamenti. Era ciò che mi dava motivo di arrabbiarmi, di distinguermi a prescindere, di piangere senza lacrimare.

Mercoledì lavorerò ma non lavorerò, penserò alle tue smagliature. Ricorderò i suoni di cui hai cosparso il mio cuscino negli ultimi mesi, gli odori che hai impresso sugli asciugamani. Camminerò per quattro ore al giorno. Quando mi farà male camminare mi fermerò e prenderò l’autobus, se passerà. Pulirò il bagno in maniera maniacale. Non riconoscerò i miei capelli. Lavorerò ma non lavorerò. Presentarmi sarà doloroso e faranno tutti finta di niente. Sorriderò, poi spegnerò le luci e smetterò di colpo. Le proiezioni dei miei desideri saranno talmente deboli che mi coprirà il buio. Mi addormenterò. Anche questa notte sarà solo mia.

Giovedì le strade diventeranno immense. Eviterò i marciapiedi per dare senso alla mia passeggiata. Alle otto di sera sentirò il primo freddo e indosserò il primo cappotto. Sarò felice. Imparerò ad amare i miei capelli e berrò quel vino rosso che piace soltanto a me.

Mi sveglieranno i muratori venerdì mattina. Non avrò dormito neanche un secondo. Ti scriverò, ti aggiornerò sullo stato dei lavori del cantiere.

Sabato andrò al mare da sola. I passi affonderanno sulla sabbia tiepida. Piangerò senza lacrimare. Cercherò di non far uscire nemmeno mezza lacrima. I miei pensieri cesseranno. Mi dirò che la mia rabbia non mi appartiene, che odio te in quanto me e me in quanto te, che voglio stare da sola anche se non so più se so farlo, ma soprattutto che tutto ciò non è un problema. Io non sono un problema.

Domenica ci vedremo per cinque, sei ore, troppo poco per parlare, abbastanza per tacere, tenerci per mano, guardarci negli occhi. Nel pomeriggio ti lascerò di nuovo. Mi convincerò di aver fatto la scelta giusta. Avrò dei crampi strani al mignolo. La sera morirò.

La domenica sera muoio sempre.

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