di Paolo Crugnola

Anno 24 del nuovo millennio.

L’emergenza guerra ha prontamente sostituito l’emergenza pandemica: i “no-vax” sono diventati “putiniani”, ultimamente persino “antisemiti”, a seconda del pensiero unico dominante a cui di volta in volta si oppongono. Non è più lecito farsi domande in questo presente occidentale, progredito e globalmente libero e democratico. Di fatto le minoranze che osano “pensare altrimenti” sono etichettate, accusate, ridicolizzate, infine addirittura emarginate, mentre paradossalmente ci riempiono la testa della parola “inclusione”.

Siamo ancora liberi di chiederci se per caso non ci mentano dai microfoni televisivi e dalle testate dei giornali più quotati, senza perciò essere chiamati “complottisti”?

Quando l’autoproclamato “nonno” Draghi ha sentenziato “Chi si vaccina vive, chi non si vaccina muore”, ha chiaramente mentito: io per esempio sono ancora vivo. Eppure abbiamo dimenticato tutto, strade deserte, ambulanze, morti, accuse, divieti, coprifuoco, militari, virologi, hub vaccinali, file per i tamponi, la “Dad… fino alla gente lasciata fuori dai bar, dai negozi e infine sospesa dal lavoro…  Siamo tornati a vivere quasi come prima, come se niente ci avesse travolti con quella portata, con quella violenza, creando precedenti pericolosi. Sipario chiuso su tre anni di pandemia per accendere i riflettori sulla guerra in Ucraina, con la stessa architettura: i media sbraitano la loro verità dagli schermi, e chi osa disallinearsi viene prontamente etichettato e “disinnescato”.

Ma non ci staranno mentendo anche questa volta?

Certo, la storia ci riporta di un’umanità eternamente in conflitto. “Polemos” è insito nella Natura stessa. Dunque è bellica la natura umana? “There is no alternative?” Ci dicono che i tentativi diplomatici falliscono, che Putin è improvvisamente diventato un pazzo invasore, e che dinanzi a tale follia l’unica soluzione è mandare armi in Ucraina, difendere gli invasi, i deboli, noi, i democratici, buoni e giusti. A noi popolo sovrano italiano, a noi democrazia, a noi hanno chiesto se siamo d’accordo ad inviare “armi per la pace”? Ci hanno chiesto se crediamo alla favola del pazzo russo, o se sospettiamo che ci siano motivazioni dietro al suo atto, che sia una reazione a qualcosa, pur condannando l’atto bellico in se stesso, di cui pagano sempre loro, i civili, i bambini?

È utopico pensare che mondi e culture differenti possano preservare la loro identità e diversità dialogando tra loro e mantenendo pacifici rapporti di scambio commerciale e culturale? Noi che la guerra non l’abbiamo vissuta, noi che siamo abituati a guardarla dallo schermo, per tornare subito alle nostre faccende… Impotenti assistiamo alle decisioni dei potenti, con i loro interessi ormai plateali. Cerchiamo di non pensarci troppo, perché sotto sotto sappiamo che mai come oggi l’uomo è stato in pericolo di estinzione. Che siamo comodamente seduti su una polveriera scegliendo il colore e la morbidezza del divano. Che noi uomini siamo diventati la minaccia numero uno per la nostra terra.

Chiediamoci se è stato necessario riempire il pianeta di armi atomiche, di rifiuti, di onde di tutti i tipi. Chiediamoci se non possiamo darci dei limiti, se possiamo ancora raccontarci di essere i buoni, i giusti, i civilizzati.

I potenti della terra, i filantropi salvatori dell’umanità – un po’ come Mazinga -, ci usano. Ma noi gli serviamo. Hanno bisogno del nostro consenso. Finché qualcuno ancora dirà NO, ci sarà speranza per l’umanità. Possiamo ancora dire NO?

Paolo Crugnola. Amante e studioso di filosofia, unisce la teoria alla pratica nel lavoro manuale come artista del legno e batterista.

Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)


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Di Gianfranco Casadei.

La sirena sega l’aria. Sorpresi, i pochi passanti si allarmano agli improvvisi colpi dell’artiglieria antiaerea che rivelano l’imminente sopraggiungere dei bombardieri. Neppure l’elemosina dei pochi spiccioli di tempo concessi di solito per cercare riparo.

Maria non è pratica di quella parte di città. Si guarda attorno smarrita. La mano che si era ritrovata aggrappata ai capelli la lascia scivolare sino al collo. Catenina e santa medaglietta sono al loro posto. Trascina il suo bambinetto quasi fosse una sporta al braccio. Gli altri, sino a poco prima sulla sua stessa strada, sono svaniti in tane a loro soli note, senza che lei sia riuscita a seguirli. Ognuno per sé.

Il passo si affretta in corsa verso una chiesa. Ha il portone serrato. Stringe forte la mano del piccolo e con l’altra batte il pugno sul legno fino a farsi male. Nessuno ad aprire, nessuno. Anche così questo portale, con la sua imponente cornice di pietra, promette una qualche protezione. Maria stipa il bambino nell’angolo tra il portone e la pietra. Gli dà le spalle, si accuccia e gli fa scudo col corpo premendo più che può contro quello del figlio, offrendo il petto allo spazio aperto della via. Se ci sarà da correre potrà capire al volo in quale direzione.

Lo sconquasso delle bombe sembra svolgersi non troppo vicino. Solo qualche esplosione le fa tremare la terra sotto i piedi. Nell’aria passano sbuffi rabbiosi di polvere e calcinacci. Dietro di sé un violento boato col suo rude scossone. Qualche maceria precipita dal fronte della chiesa proprio ai suoi piedi. Una fortuna averla trovata chiusa.

Allo spegnersi del caos gli echi di quel frastuono si ostinano ad affollarle le orecchie.

Finalmente silenzio. Silenzio che in tempo di guerra sembra quasi la pace. Maria attende un po’ prima di credere che tutto, almeno per ora, sia davvero terminato. Aggiusta alla meglio per il figlio una coperta di rassicurazioni ma non osa staccarsi dalla sua posizione, il sostegno di quel contatto schiena a schiena, così aderente al suo bambino, sta confortando anche lei.

Allunga lo sguardo verso il cielo e nelle due direzioni della strada. Tutto tranquillo. Si gira verso il piccolo, è stato proprio bravo, irrequieto com’è, a restare così buono e in silenzio, fermo.

Immobile. Inchiodato da una scheggia volata dall’interno della chiesa a schiantarsi contro il portone. Capace di trafiggerne il legno massiccio. Capace di trafiggere la carne di un bambino.

Gianfranco Casadei. Architetto urbanista ed esperto di turismo, da sempre coltiva l’amore per lo scrivere, specialmente la divulgazione storica “Guida all’architettura del ventennio” per Legambiente-ER e la narrativa “A noi toccò la guerra” per l’ANMIG di Ravenna. (Presente in antologia anche con vignetta).

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)


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Il primo sguardo che il Maestro ebbe per me fu di traverso. Era intento a piegare una tovaglietta per deporla in un cassetto che stava lì davanti e mi volgeva parzialmente le spalle. Entrai, e mi guardò in quel modo, di traverso. Poi si voltò verso l’ingresso e mi salutò con un inchino. Quell’uomo era famoso, il suo pensiero, i suoi insegnamenti erano conosciuti ovunque, ma viveva isolato, estraneo ai clamori della celebrità. Con un gesto della mano aveva tracciato un’idea del vivere e aveva parlato al mondo con la saggezza di rituali antichi. Pochi l’avevano però incontrato, e al fine forse pochi l’avevano davvero compreso. Lui del mondo non ne aveva bisogno, e quando entrai in quella stanza io non ero altro che il mondo.
Divenni la sua allieva prediletta, e mi chiedevo com’era stato possibile. Lo incontravo ogni lunedì pomeriggio e insieme gustavamo meravigliose tazze di infusi preziosi. Fui silenziosa, attenta. Memorizzai i particolari delle varie liturgie di quelle cerimonie così disadorne e così profonde, un mistero che mi pareva il mistero della vita stessa. Ne sperimentai i sapori, e un giorno, dopo anni di frequentazione, capii che il Maestro di me sapeva già tutto fin dall’inizio, da quello sguardo di traverso. Ero, a quei tempi, una donna che cercava la verità, e fra le tante strade possibili avevo scelto quella della bellezza.
Tutto era sobrio e raffinato. Il Maestro sereno, la conversazione fluiva libera, composta da poche e essenziali parole. E l’armonia non veniva mai alterata.
In me cresceva una convinzione, e sul mio diario scrissi che l’arte esprime l’energia e il vigore spirituale dell’umano esistere. Ne ero certa, e volevo essere artista. Ero andata fino là per questo, per imparare, e quel giorno ebbi l’intuizione che era lui in persona, il Maestro del tè, ciò che io cercavo. Lui era l’arte, e tutto stava in una tazza di tè.

di Anna Bentivoglio

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Di Fabrizio Tummolillo

Quando voglio parlare con mia figlia vengo qui, alla panchina sotto quest’albero. Mi siedo e attendo che si alzi un po’ di vento. È necessario che si muova l’aria ma basta anche la brezza della sera.So no le foglie a formulare le parole ma è l’aria a portarmele. Credo funzioni in questo modo.

Non è un albero qualsiasi. È un acero di monte. Non lo sapevo, me l’ha detto il mio amico Remo.

Al vivaista avevo chiesto un albero qualunque purché avesse cinque anni d’età. Non sembrava capire la richiesta. Ha fatto storie poi me ne ha mostrato uno. “Questo è nato da seme cinque anni fa”. “Lo compro”.

“Il nome scientifico è “Acer pseudoplatanus” mi ha spiegato Remo. Lui se ne intende. “Trascorrerai le giornate alla sua ombra, fra qualche anno” ha aggiunto. Poi mi ha dato una pacca leggera sulla spalla, come un incoraggiamento. Siamo andati a piantarlo in un campo in fondo alla sua proprietà in collina. Le prime volte passavo da casa ad avvisarlo che venivo da mia figlia. Mi ha detto di non preoccuparmi, di non stare a dirglielo ogni volta.

Tempo dopo ha messo la panchina. È sempre stato un amico. Mia figlia aveva cinque anni. Per questo ho insistito con il vivaista: era nata lo stesso anno dell’albero che volevo comprare.

Le sue ceneri le ho poggiate nella buca, vicino alle radici. Ho ricoperto di terra e Remo ha dato l’acqua.

Basta una brezza leggera e riesco a sentirla. Stasera le sto chiedendo scusa per quella volta che l’ho sgridata fino a farla piangere. Aveva sbriciolato il sigaro lasciato sulla scrivania per dopo cena. “Non pensarci, papà. Non avere rimorsi. Eri stanco, avevi lavorato tutto il giorno”.

Sono passati quindici anni da quando ho piantato l’acero. In questo tempo la sua voce è diventata quella di un’adolescente poi di ragazza poi di una giovane donna.

“Non preoccuparti. Davvero. Ti voglio bene, papà”. “Anch’io”. Oggi con le sue parole il vento ha portato un seme. Sembrava una piccola elica, è sceso ruotando su se stesso. “È la samara, il frutto dell’acero di monte – ha detto Remo quando gliel’ho mostrato -. Ognuna contiene due semi. La forma permette al vento di portarle lontane”.

Invece a me era scesa nel palmo della mano e questo mi ha fatto impressione perché se l’avessi piantata in un vaso e poi in terra come ha consigliato Remo, se me ne fossi preso cura, sarebbe nato un nuovo acero e tutto questo sembrava avere senso compiuto, come un cerchio che si chiude, per farmi fare pace con il padre che non sono riuscito a essere, per lasciare fluire le cose. Con leggerezza, come l’abbraccio dato a quell’albero prima di andarmene sentendoci dentro il respiro di mia figlia.

Fabrizio Tummolillo è nato nel 1970 a Milano. Vive nel Piacentino con moglie e figli. Lavora come educatore ed è giornalista professionista anche se ormai l’unico editore che ne pubblica gli articoli è il prete del paese sul bollettino parrocchiale.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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ESSERE SCRITTORE, ciò che conta davvero

Riporto molto volentieri il pensiero che un amico giornalista ripeteva nelle lezioni di giornalismo al Cavedio, è cioè che per essere un buon giornalista non è tanto importante saper scrivere quanto conoscere le persone. Una saggezza che a sua volta aveva appreso dal capo-redattore, che considerava il suo maestro. Oggi il mondo cambia, c’è internet e con esso si è sviluppato il fenomeno della fabbrica dei saputelli. Il computer fa delle cose che il neofita non conosce né immagina e così in un battibaleno diventa illustratore, editor, scrittore… dispensatore lui stesso di consigli.

Perdiamo la saggezza, la tradizione, quelli che furono i valori, e che lo sono ancora, perché i valori non cambiano nel tempo. Oggi non ci sono amici, ma competitor.

L’ultima cosa che serve a chi intraprende il percorso della scrittura è saper scrivere, che imparerà strada facendo. Occorre invece conoscere l’uomo, sé stessi… e a questa conoscenza ci si arriva crescendo nella scrittura.

continua il 1 giugno

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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di Anna Ditta

“Questa è la volta buona, dopo tanto rimandare”: l’ho appena pensato che il medico – ne ho scelto appositamente uno giovane che non conosco – mi dice di togliermi il maglione e accomodarmi sul lettino e allora mi viene di nuovo quell’istinto di fuggire via con una scusa, come è successo le ultime tre volte, e così da sdraiata, mentre il dottore districa i fili elettrici del macchinario, penso già a quando si chiederà il motivo per cui le mie lacrime continuano a scendere durante un esame semplice e indolore come l’elettrocardiogramma, che mica è un’estrazione dentale, e poi allo sguardo di compassione che mi rivolgerà quando leggerà nitide sul tracciato le condizioni precarie in cui mi trovo – e intanto lui mi disinfetta le zone interessate, suscitandomi un brivido di freddo che però è niente rispetto al ghiaccio degli elettrodi attaccati a ventosa sotto e sopra il seno, e alle pinse sulle caviglie e intorno ai polsi, ed ecco che di colpo realizzo che non posso più alzarmi, sono costretta a stare qui e tanto vale stringere i denti, ma non posso controllare la testa, quella va proprio dove non deve andare, a questi identici gesti che lui – e lui solo – ha fatto con me tante di quelle volte in questi trent’anni, e io – che sciocca – mai a pensare che potesse farli un giorno qualcun altro, mai a prepararmi all’evenienza di perderlo, e a quella battuta – sempre la stessa – che faceva ogni volta: “Signora, mi pare evidente che il suo cuore batte molto forte per qualcuno qui presente” e allora io restando seria gli rispondevo che era colpa del mio cardiologo che mi faceva incazzare troppo e da troppi anni – che a pensarci adesso quelle parole me le inghiottirei, le manderei giù per questa gola che ora è stretta, e non ci passerebbe neanche uno spillo – e mannaggia a questa fissa per i controlli, perché nella vita non si sa mai, e dopotutto mica è servito tutto questo scrupolo quando si è trattato di te, che sei sempre stato attento a prevenire ma poi sei finito sotto una macchina che correva all’impazzata e niente, tutto è finito così di colpo, ma ecco che anche il dottorino qui ha finito, ed è evidente che si è accorto di qualcosa: “Non so come dirglielo, signora…il suo cuore non c’è, semplicemente non esiste più” e io, che in fondo lo sapevo, gli rispondo calma: “Lo sospettavo, ma io devo vivere, sa dottore, per i ragazzi”, lui sta quasi per parlare ma poi non dice altro e capisco che non c’è proprio niente che si possa aggiungere, allora mi alzo e ora è come se ci conoscessimo da moltissimo tempo, quindi gli stringo la mano e vado via.

Anna Ditta. Giornalista siciliana, vive a Roma. È autrice dei libri “Belice” (Infinito edizioni, 2018) e “Hotel Penicillina”, con M. Passaro e A. Turchi (2020). Dal 2023 cura il progetto di approfondimento letterario “WeltLit. – Letteratura oltre ogni confine”.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Flock era un cane, ma non sapeva di esserlo. Era un pastore bergamasco e custodiva tre pecore, che lui considerava bambine, correvano indisciplinate, andavano su e giù dalla molera, e qualcuno diceva che praticavano “free climbing”. Flock, pur capace di discernimento, non sapeva come fare a convincerle che era pericoloso. La molera era alta, e se le pecore si buttano giù è sempre colpa del pastore che non sa guidare, custodire. Così Flock abbaiava e attirava la loro attenzione, prevenendo ogni sciagura.
Ma dentro di sé sapeva cosa vuol dire provare quella speciale gioia a misurare le proprie forze, proprio lui, taglia media, agile, veloce e resistente.
Nella sua onorata esistenza aveva tre sogni proibiti, li nascondeva sotto il ciuffo di peli per non mostrare gli occhi e rivelare i pensieri.
Il primo era di pizzicare le gambe di Beppe, il ragazzo della fattoria che ogni sera consegnava il latte. Una volta l’aveva rincorso, lo sciocco aveva lasciato cadere la bottiglia piena e il latte si era sparso per terra. Adesso, sgolandosi, lo sgridava, e Flock strofinava il muro per non passargli vicino.
Il secondo sogno lo aveva quasi esaudito, la volta che aveva inseguito il prete che veniva a benedire le case, un uomo alto, con la tunica lunga, nera. Quel giorno era di guardia, s’era sfilato il collo dal collare della catena e laveva fatto scappare, oh come correva, l’aveva raggiunto e addentato appena alla veste prima di essere afferrato dal padrone. Quanto l’aveva menata solo per un per pezzetto di stoffa.
Il terzo sogno, il più grande, forse un’ossessione che richiedeva una grande perizia, era quello di battere il “ciuff-ciuff”, il treno a vapore che alla sera passava accanto alla casa. Flock era sicuro di essere più veloce, e si allenava quando portava a spasso le tre pecore. Che corse esaltanti, che goduria sentire il pelo arruffato pettinato dal vento!
Sapeva sempre quando il drago-treno stava arrivando, udiva il “ciuff-ciuff” prendere velocità dopo essersi fermato alla stazione dietro la curva.
Una sera si liberò della catena in tempo, lo sguardo concentrato del predatore che attende la preda, la bocca aperta, la lingua penzoloni, i canini in vista. “Questa volta lo prendo, non mi scappa, lo agguanto”, pensava mentre sentiva il vento soffiare più forte e cercava di fermarlo, di spingerlo indietro. Ma lui amava il vento, era il suo alleato, ogni pensiero svaniva quando correva: la casa, la catena, le pecore. Nel vento era libero, non sentiva più nulla, nemmeno le bambine che, terrorizzate, quella sera gli urlavano di fermarsi. Flock corse invece più veloce, raggiunse il treno. Uno sulle rotaie, lui sul sentiero. Il treno, il vento… corsero, e poi… poi si incontrarono. Bum!

Di Elda Caspani

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


ANATOMIA DI UN FENOMENO INSOPPORTABILE E INSOPPRIMIBILE

di Giuseppe Geneletti

Ho chiesto a mio figlio Riccardo, 10 anni, cos’è la guerra. “È una m… la guerra è un combattimento tra Stati e anche tra bande rivali, come quella dei ragazzi della via Pal”. E noi italiani siamo in guerra adesso? “Mentalmente sì”. C’è solo il signor Vladimir Vladimirovič Putin (Vladimir significa “governo della pace”) che la definisce “operazione speciale”. La guerra è uno stato di fatto conclamato con effetti reali anche sui civili. Ricordiamo che dei 315 milioni di esseri umani uccisi nei cento massacri più rilevanti della storia, 266 milioni sono civili, a fronte di 49 milioni di soldati. La media dei civili morti durante le guerre è dell’85 per cento. Per evitare le conseguenze legali e politiche sancite dall’ONU, nessuno Stato è disposto a dichiararsi aggressore con una dichiarazione di guerra, mentre infiniti sono gli appigli per dichiararsi aggredito. Il modo più moderno e potente di coinvolgere i civili nei conflitti è attraverso la comunicazione. “Uno degli aspetti terribili della guerra è che radicalizza senza spazi per le riflessioni. C’è più propaganda che informazione che passa e si fa fatica a sapere la verità delle cose”, mi dice Marco Giovannelli, di VareseNews. Diventa sempre più chiaro che “c’è un nuovo attore predominante nella società iper-connessa, importante quanto i missili, che può determinare l’esito stesso del conflitto” aggiunge Michele Zizza, professore di Culture Digitali. “La comunicazione è alleata dell’Ucraina e nemica della Russia”.

LA GUERRA CON LE ARMI

Secondo l’ultimo ConflictBarometer nel mondo ci sono 359 conflitti di cui 220 violenti, tra i quali 40 guerre, di cui 21 ad alta intensità in Afghanistan, Libia, Siria, Turchia, Yemen, Congo, Etiopia, Mali, Burkina Faso, Nigeria, Mozambico, Somalia, Sud Sudan, Brasile, Armenia, Azerbaijan. La situazione in Ucraina era già considerata nel 2020 a livello 4 “guerra limitata”. Solo in pochi Paesi del mondo ci sono situazioni prive di conflitto.

La pace non è un bene diffuso, oltre che non garantito. Siamo sempre in guerra anche perché il business della guerra è immenso. Nel 2020, la spesa globale militare stimata corrisponde a 1.981 miliardi di dollari, di cui 778 miliardi negli USA, e252 in Cina. I maggiori importatori di armi sono Arabia Saudita, India, Egitto, Australia e Cina. Mentre l’esportatore per eccellenza è l’USA, seguito da Russia, Francia, Germania e Cina. Le nuove guerre sono una linfa vitale per questo settore. Piaccia o no è un settore strategico che contribuisce al PIL di molti Paesi, anche se spesso tendiamo a dimenticarcelo.

LA GUERRA SI COMBATTE CON IL PANE

Il motto pro-spese militari “Se vuoi la pace, prepara la guerra” di Publio Vegezio Renato si è rivelato una fandonia: nonostante la crescita delle spese militari i conflitti sono solo aumentati nel XX e XXI secoli. La crescita delle disuguaglianze, il sovraffollamento del pianeta e l’accelerazione del riscaldamento globale, sono solo alcune delle sfide che seminano i conflitti del presente e del futuro.

Una credibile politica globale di riduzione dei conflitti passa attraverso una perseverante politica democratica per i diritti sociali.

Soltanto una pace giusta è una pace veramente duratura. Pace è lavoro, distribuzione più equa di ricchezze e risorse, sviluppo sostenibile, pari opportunità di genere, istruzione. Pace è tutto questo insieme perché i diritti non si mangiano.

Giuseppe Geneletti è un giornalista pubblicista, associato alla redazione di VareseNews.it. Esperto di cambiamento organizzativo e innovazione, pubblica settimanalmente su temi di attualità economica, sociale e di interesse glocale.

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Ci sono arrivato in ritardo, è vero, ma alla fine anch’io ho capito perché nel mondo esistono bambini che nascono cerebrolesi o con handicap fisici e mentali, bambini che muoiono di fame, bambini senza un futuro se non di morire in mare, e tutti si pongono queste domande e se ne vanno con una scrollata di spalle, e poi tornano e si danno da fare affinché queste cose non succedano più, e invece accadono lo stesso, e alcuni sanno il motivo e lo spiegano, ma nessuno li segue, perché un conto è dirle o ascoltarle le cose, e un altro è comprenderle… E io quel giorno mi fermai in un paesino medioevale in Liguria, che prima era trascurato, anzi abbandonato dai nativi, ma poi erano arrivati dei gruppi di americani e di tedeschi, e che fossero ricchi lo si capiva da una profonda tristezza che raggiungeva il bianco degli occhi e lo colorava di grigio, e avevano aperto lì le loro botteghe d’arte, e così quel paesino dimenticato era divenuto un ritrovo particolare… e tutto era ben curato, in ordine, e si capiva che quelle opere di pittura, di scultura e di designer erano nate da una ricerca e da un gusto raffinato, e io guardavo in faccia quelle persone che avevano portato tante belle proposte, e i loro sguardi erano lame di rasoio e tagliavano di netto, esprimevano il desiderio di essere selettivi, di escludere chi non era al loro livello… e su questo discorso dell’arte avevo le idee confuse, e senza un motivo, davanti a una gallerista che tentava un sorriso cordiale senza riuscirci, pensai alle persone che soffrono, agli infelici, e poi fu inevitabile per me il pensiero sull’infinito, ed era un po’ che lo avevo maturato e mi stava sempre davanti come uno specchio, e quel pensiero era che tutta l’umanità è contenuta in un respiro, e i millenni dell’uomo sulla terra sono solo un respiro rispetto a quello che già esisteva prima e a quello che sarebbe esistito dopo, e in quel respiro c’eravamo dentro tutti, gli Omero e i Dante Alighieri e i Picasso, e ciascuno di noi. Un respiro però è solo un respiro, è parte di qualcosa di più grande, non esiste da solo… e non so per quale associazione di idee mi venne in mente quel ragazzo down figlio dei miei vicini di casa, lui tutte le mattine per un’ora di fila pianta chiodi nel parquet della sua cameretta con il martello del papà falegname e mi dà la sveglia come fosse il canto del gallo, e questo mio pensiero non era arrivato per caso, era un’intuizione, e così intesi quello che tanti avevano cercato di spiegarmi, e cioè che in quei ragazzi c’è l’anima di ciò che c’era prima e di ciò che ci sarà dopo. Un giorno, di tutto lo scrivere, il dipingere, il costruire non rimarrà nulla, l’arte sparirà e di essa rimarrà solo l’essenza, lo spirito, quello che il vero artista coglie, e che tutti noi vediamo in ognuno di quei ragazzi, quando piantano chiodi sulla nostra pigra coscienza e poi, in strada, ci salutano con semplici sorrisi.

di Abramo Vane . Disegno stile De Chirico

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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