Quando entrò nella gabbia aveva ancora la giacca da domatore, slacciata però sul petto nudo, ma non impugnava né la frusta né il bastone. Si presentava indifeso: dopo tanti anni insieme si fidava di lei. Non chiuse il cancello alle sue spalle e si accasciò a terra, sfatto.
Lei non si mosse, emise solo un leggero ruggito. Lo guardò per capire a che gioco volesse ancora giocare, ma si rese conto che lui non aveva più la forza di imporre nessun gioco. Rimasero così, a guardarsi.
Quando il sole incominciò a calare, lei gli si avvicinò e si vide riflessa negli occhi di lui. Si stupirono entrambi: lei della sua immagine, lui della sua mitezza. Poi lei gli si accovacciò di fianco, lo leccò con la sua lingua ruvida di felino e lui sospirò. Venne la notte e lui incominciò a gemere, solo la lingua ruvida sulla pelle lo consolava. Poi venne il buio e se lo portò via. Così lei alzò i grandi occhi al cancello. Si alzò in piedi e uscì fuori. Fuori dalla gabbia dove aveva vissuto dal giorno della sua cattura, quando ancora era un animale libero e forte.
Gironzolò intorno, non conosceva quel luogo, lo aveva visto solo da dietro le sbarre e si sentiva vulnerabile. Si muoveva circospetta, annusando odori nuovi e sgranchendo i muscoli non più abituati a muoversi in uno spazio libero.
Si ritrovò a camminare per le vie come un animale braccato. Rincorse un ratto che, molto più abile di lei, le sfuggì sotto un tombino. Esausta tornò nella gabbia. Lui era ancora lì. Diede un colpetto col muso al suo padrone e gli leccò la mano, lui non si mosse.
Il giorno dopo fu lo stesso, e sempre tornava nella gabbia.
I crampi della fame poi divennero insopportabili. Per anni aveva desiderato quel momento e adesso che era arrivato non lo voleva più. Meglio sarebbe stato sollevarsi sulle zampe posteriori allo schioccare della frusta, ruggire, graffiare l’aria con una zampata e gustarsi le bistecche che lui le lanciava da dietro le sbarre. Adesso era libera ma non sapeva vivere nel mondo che le stava attorno.
Verso mattina passò un cane davanti alla gabbia.
Randagio senza collare, camminava veloce avanti e indietro e annusava col muso basso a cercare quel qualcosa che lo inquietava e attirava al tempo stesso. L’odore di selvatico, una volta potente, si era molto affievolito durante la prigionia. Finché la sentì. Si fermò fisso e la guardò. Lei, immobile, lo osservava da un po’. Il cane non aveva paura, e l’annusò meglio da vicino. Lei gli soffiò come un gatto ma si lasciò annusare. Wuf, le fece poi l’animale sbandierando la coda, e trotterellò via.
In quel momento una voce riecheggiò nella sua testa: te la fai coi cani adesso? Ma la stessa voce poco dopo diceva: scappa finché sei in tempo! Forse il cancello aperto non era stata una dimenticanza, ma un dono d’addio.
Si alzò di scatto, si scrollò di dosso il terriccio umido della gabbia e seguì il cane.
Pioveva quella mattina, Anna non sollevò il cappuccio per ripararsi, persino l’acqua sulla testa era benvenuta. Poco più avanti Giovanni l’aspettava. Chissà perché le ricordava un cane con quel suo modo di fare festoso, solo pochi mesi prima non l’avrebbe neanche guardato uno così, ma oggi sì. Così lo raggiunse e insieme si avviarono, non sapeva dove, ma di certo sapeva che non sarebbe più tornata indietro, nella gabbia.

di Ester Tognola

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Se ne sta lì davanti a me di spalle, ha la luna storta. “Io vado a fare un giro”, dico, “hai bisogno di qualcosa?” Nessuna risposta, e senza guardarmi si dirige verso la sua stanza tutta impettita e con gli occhi quasi chiusi per evitare i miei. E inciampa nel tappeto! Mi lancio per sorreggerla ma lei si scosta e urta la libreria: “Guerra e Pace”, già in precario equilibrio, cade a terra con un tonfo sordo. Non riesco a soffocare una risata. Apriti cielo! Entra in camera sua, chiude sbattendo la porta e sancisce così aperte le ostilità.
Mia sorella! Da quando mi ha invitata a passare un po’ di tempo insieme ogni giorno è una battaglia. All’inizio mi trattenevo, ma lei è insofferente nei miei confronti perché, nonostante l’invito, le dà fastidio avermi tra i piedi in casa sua, allora io divento cattiva e ribatto su tutto. Insomma, un tormento.
È stato così fin da bambine. Giocavamo insieme ma finiva sempre che litigavamo per storie di bambole e bambolotti e giù parole a non finire. Seguivano ore di bronci e mutismo. Poi la sera a letto, nella stessa camera, facevamo pace e il giorno dopo si ricominciava. Con l’adolescenza ci fu una tregua. Io ero ancora bambina quando lei dava già i primi baci e fumava sigarette di nascosto dai nostri genitori. Fu lei che mi instradò al vizio… veramente fui io a insistere in modo ossessivo fino a che una sera cedette e fumai la mia prima sigaretta, d’inverno davanti alla finestra spalancata per via dell’odore di fumo, un freddo cane! Ricordo che mi girò la testa. Ah, ma le liti non erano ancora finite. Lei studiava pianoforte e passava i pomeriggi a ripetere e ripetere sempre gli stessi pezzi o, peggio, le scale per allenare le dita. Nella camera accanto io friggevo. A pensarci ora mi viene da sorridere.
Intanto fuori si è fatto buio, accendo la lampada a stelo e una luce calda invade la stanza. Accanto allo stereo un CD attira la mia attenzione, lo inserisco nella fessura.
Il pianoforte è padrone della scena, la musica impregna l’aria e si espande in tutta la casa. Mi adagio in poltrona e mi godo la meraviglia quando lei entra nella stanza. Lascio che si sbilanci per prima, e lo fa: “CLAIR DE LUNE, DEBUSSY, dolce come il miele!”
Eccome, non lo sapevo?, penso, ma sto zitta. “Non sei poi uscita?”, dice.
“No, non ne avevo più voglia”. “Ho fatto il tè” e dopo aver appoggiato il vassoio con la bevanda fumante sul tavolino si siede nella poltrona davanti a me e mi sorride: “Un biscottino?”
Il cielo è limpido e la luna si è raddrizzata.

di Ester Tognola

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