di Gianluca Fiore

Meno male, è giovedì. Oggi dovrebbe arrivare la coppietta di liceali, escono e vengono sempre a mettersi qui sotto, pioggia o sole. Ah, eccoli. Che teneroni…mano nella mano, si parlano fitto fitto, come se non si vedessero da un’eternità. Beh, ve lo devo confessare. Mi sento un po’ chioccia con questi due innamoratini qui sotto. È uno dei momenti più belli della settimana. Poi certo, c’è anche il weekend ma è una carica continua di bambini urlanti, sì, soprattutto quei maschietti votati all’arrampicata a tutti i costi, che barba…ce lo diciamo spesso tra di noi: meglio i giorni infrasettimanali, quando c’è poca gente e ti puoi godere la vicinanza delle persone.

Non credete che riusciamo a dircelo? Eh già, perché voi vi ritenete i soli bravi ed in grado di poter comunicare, vero? Ma io posso attraversare l’intero parco per farmi sentire dalle altre, sapete? Abbiamo tutto un sistema di comunicazione che a voi, bipedi inventori di inutilità, lascerebbe di stucco. A voi la parola – a cosa poi vi servirà mai, dato che spesso e volentieri neanche vi capite – a noi gli impulsi elettrochimici, che non sbagliano di una virgola. È così che la Quercia all’ingresso del parco mi dice chi sta arrivando. Lontano? Certo, l’ingresso è lontano, ma noi siamo tante! La parola d’ordine è inclusione, e anche aiuto. E pure se tra me e la Quercia all’ingresso c’è di mezzo l’Ontano, il Carpino, Il Leccio, le aiuole di Sassifraga, il gruppo di Betulle e il Faggio pendulo, beh, insieme facciamo la differenza.  Lo avevo letto nel giornale del vecchietto che viene qui sotto ogni venerdì: una roba tipo il telefono senza fili. In realtà, del telefono ne ho appena sentito parlare, ma ve lo posso garantire: tra noi ci capiamo benissimo.

E poi lo sapete che possiamo anche godere della forza reciproca? Ora vi stupisco: qualche giorno fa è arrivato il senza tetto che ogni lunedì passa di qui per farsi un pisolino. Beh, non è arrivata la solita nuvola rompipalle a dar fastidio? Ci siamo detti ma guarda che insolente, ora ci pensiamo noi. Sarebbe sufficiente un po’ di sforzo per piegare le nostre chiome e proteggere il dormiglione. Oh: detto, fatto. Mi è arrivata un’ondata di energia dalle altre e questo mi ha aiutato a piegare i rami fino a proteggerlo. Forte, eh? E pensare che tutti ci credono senza anima, esseri immobili con una vita senza pensieri, senza sforzi, senza empatia. Se solo ci si fermasse un po’ più a ragionare…

Beh ora scusate, a proposito di esseri vegetali ora ho un mucchio di cose da fare. Sto giusto aspettando al varco il gruppo di giovani scoiattoli che da qualche tempo ha preso casa qui nel parco. Corrono a tutte le ore, e quando c’è da passare da una all’altra di noi non chiedono neanche se si può. E va bene un po’ di sfrontatezza giovanile, ma insomma chiedere permesso mi sembra il minimo, non trovate? Ora li fermo e gliene dico quattro.

E poi? E poi niente, continuo la mia intensa giornata di relazioni. Mica siamo come voi, che a un certo punto vi spegnete senza un motivo apparente. Beh, arrivederci. E tornate a trovarmi, eh, tanto…chi si muove?

Gianluca Fiore. Uno dei pochissimi romani che ha deciso di fuggire dalla Capitale, che oramai ritiene un luogo invivibile, per contaminare il Nord con la sua romanità. Amante, tra le tante cose, della bella scrittura: mezzo per esplorarsi, conoscersi e riconoscersi.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Avrei voluto essere lì, vicino a te, quando dal seggiolone tiravi stelline in brodo con il cucchiaio, felice come una Pasqua. O quando, la domenica, ti avventuravi nei rigatoni al sugo, e ci soffiavi dentro come fossero cannucce. Mi sarebbe piaciuto costruirti una piccola catapulta, per ridere assieme dei tuoi bersagli raggiunti.
E fare a cambio con tuo nonno, che dal balcone della casa in montagna guardava lontano – occhi persi verso le Dolomiti. Mentre ti crogiolavi attaccata a lui, come avvolta in una coperta di lana. Così maestoso, visto dai tuoi occhi. Rintanata dietro il suo braccio non guardavi lui, ma gli altri. A dire eccolo, questo è mio nonno. Ed è mio, non lo divido con nessuno.
O quando, dopo qualche anno, scoprivi un corpo in evoluzione, e ti guardavi il petto per capire se alla fine era tutto normale o qualche ignota malattia stava minando la tua esistenza. Ti sarei stato accanto, e avremmo giocato con Barbie e Ken. Ti avrei spiegato che i cambiamenti portano felicità, spesso. Perché ti mettono in condizione di vedere cose che prima non percepivi, e ti sfuggivano come bolle di sapone.
Ti avrei seguito nel primo viaggio con il tuo ragazzo, appena sedicenne, in una Europa ancora tutta da disegnare, quando Montenegro e Albania erano davvero paesi stranieri. Avrei raccolto le tue lacrime di un amore interrotto, per una svedese uscita fuori dal nulla nel momento sbagliato, nel posto sbagliato. Ti avrei sorretto, e portato a casa in spalla e sussurrato che la vita è anche questo. Cadi, e ti rialzi. E alla fine capisci come evitare le buche.
Travestito da venticello estivo avrei soffiato via le briciole di gomma dai progetti disegnati con cura e rifatti mille volte, perché sei una perfezionista. E asciugato la fronte quando, esausta in un luglio africano, saresti crollata a dormire, vestita, la notte prima dell’esame. Ti avrei bisbigliato di non pretendere troppo da te, e di riservare le tue energie per uno spicchio di vita che ti avrebbe dato più soddisfazioni.
Lasciami sperare che in quei momenti, tra un rigatone al ragù e un temperamatite, ti sia fermata un momento ad ascoltare il tuo cuore, a cercare di percepire una sensazione, una presenza. Un soffio. Il fruscio di una pagina girata, il volo di un moscerino. A domandarti se eri sola. Perché io c’ero. Ero lì. E voglio immaginarmi vestito da Piccolo Principe quando, secoli più tardi, ti ho finalmente toccato, e parlato. E la nostra vita è iniziata allora.

di Gianluca Fiore, illustrazione di Benedetta Fiore

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Allora, vediamo se tutto è pronto. Pasta con le sarde scappate, fatta. L’acqua già bolle. La spigola al sale la metto in forno quando servo l’aperitivo, così la mangiamo calda. Le zucchine alla scapece sono perfette tiepide, nessun problema. In frigo ci sono le cassatine alla siciliana (ricetta segreta di Nonna Rosalia, non hanno mai fallito un colpo). IL Donnafugata è in freezer, già aperto. Continuo a tormentarmi così da piu’ un’ora, facendo la spola tra cucina e finestra della sala da pranzo. È tutto pronto. Bicchieri di cristallo, posate d’argento prese in prestito dai miei, portatovaglioli e sottopiatti di legno. Perché sono così agitato, allora? Perché non arriva, sono due settimane – da quando cioè l’ho convinta a venire a cena da me – che non solo non dormo, ma avrò cambiato il menu una trentina di volte. Poi dicono che la strada del cuore passa per lo stomaco. Quale stomaco? Non penso che a lei. Non ho più fame. Non ho più concentrazione. E la sogno, irrimediabilmente, a occhi aperti. Sogno quello che le potrei dire, di rivederla non appena ci siamo salutati, di come la potrei far ridere ancora, per sentire quella sua risata a testa indietro che squarcia qualsiasi discorso, per vedere quei denti bianchi e quegli occhi che si inumidiscono. Cazzo, comincia pure a nevicare. Cos’è, il citofono? Mi precipito, sì, è al terzo piano!
Il suo odore la precede. Un misto di timo e mughetto, sfacciato, quasi arrogante. Entra, ed è un pugno allo stomaco. Provo a darmi un contegno, ma sono già fuori uso. Mi guarda ed è come se dicesse “Mio”. Beviamo, e non capisco cosa sto dicendo. Provo una sorta di dicotomia. Lei parla, ride, scherza, mi guarda con il suo solito sguardo che mette in disordine mente e stomaco e poi c’è un altro io che parla e la fa ridere. Ma in realtà io, il mio vero io, non ha altra occupazione che guardarla, goderla, immergersi nei suoi occhi. I piatti mi danno una mano, Nonna Rosalia è una garanzia. Mi fai vedere la tua casetta? Certo, vieni, non è un gran che. E in un attimo (ma non stavamo in soggiorno?) ci troviamo sul letto. E lì continuiamo a mangiare, a nutrirci l’uno dell’altra. Io perdo la conoscenza di spazio e tempo. È tutta una nebbia indistinta che ruota attorno a questi due occhi magici, che mi parlano di calore, di tramonti, di vino, di corse sulla spiaggia. Le nostre pelli restano attaccate, a lungo, come se l’unica possibilità per sopravvivere fosse quella di unirci il più possibile. Odori, sapori, sguardi, parole, si uniscono. I nostri piedi, freddi, parlano un linguaggio che non conoscevano prima. Si accarezzano, si intrecciano, si conoscono, si capiscono.
È questo l’amore?
Non lo so, l’unica cosa che capisco è che i nostri corpi, le nostre anime si stanno appartenendo. Restiamo incollati così, nel buio, con i battiti dei cuori che rallentano, solo ora. Ed è qui che ho cominciato ad avere paura. Di quello che succederà tra qualche minuto, o di quello che succederà domani. È questo l’amore?

di Gianluca Fiore

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Il Professore. Così mi chiamano, e questo mi consente di mantenere una certa distanza da quel gruppo di analfabeti che detengono il potere. Magro, basso, occhialetti tondi alla Gramsci, Borsalino e farfallino tutto l’anno. Lo stile non è acqua.
Mi guardano spesso tra il rispetto e l’invidia. Loro, che vanno in giro vestiti in modo dozzinale e con chilate d’oro attaccate al collo. Alla fine sono certo che mi disprezzano. Basta guardarli quando parlottano tra loro, indicandomi.
Gente per la quale il denaro è l’unica cosa che conta davvero. Ma io sono indispensabile. Gestisco tutti i beni della Famiglia, come viene chiamata. A volte mi viene da ridere. Io che una famiglia non l’ho mai voluta, né cercata. E ora mi trovo, obtorto collo, a condividerne una.
Mi ricordo quando arrivai qui nel Meridione da piccolo imprenditore del Nord. I sogni in tasca, la solita burocrazia e i soldi che non bastano mai. Le persone sbagliate presentate dalle persone sbagliate, e in poco tempo un buco finanziario incolmabile. Fino al ricatto di dover lavorare per loro. In quarant’anni ne ho viste di ogni genere. Capitali entrano, investimenti escono, in mercati finanziari che pochi conoscono. Non è più come ai tempi di Al Capone, ora i soldi si fanno con i soldi. E pensare che, da polentone quale sono, questi terroni mi sono sempre stati sulle palle. In occasione dei dieci anni di “onorato servizio” mi hanno anche affiliato alla Famiglia. Sembrava una cerimonia di iniziazione. Mi hanno costretto a indossare questo anello da Padrino che ho sempre odiato. Oro massiccio con una pietra violacea e uno stemma araldico. Che cafonata. E dire che una volta messo non sono più riuscito a levarlo, neanche col sapone. Mi ricorda i legami esistenti, e mi obbliga a non dimenticarli. La Famiglia non si lascia. Mai.
Ed è questo che mi è pesato di più, e mi ha convinto a scappare. A quasi settant’anni, chiuso in una camera a centinaia di chilometri da casa, in fuga. Gli ultimi anni li voglio vivere da uomo libero. Ma ho troppi segreti con me, ho visto troppe cose, sono stato testimone di troppe schifezze. Mi viene da ridere, un Clyde in fuga senza la sua Bonnie.
Quanto durerò? Non lo so, ma ero arrivato a provare disgusto di me stesso. Un semplice cassiere può seminare gentaglia che cerca le persone e le uccide per mestiere? Forse è il caso di fermarsi, e aspettare la fine qui, in un posto anonimo. In fondo, è meglio così. Piuttosto che farsi freddare mentre scappo in un vicolo cieco.
Passi davanti alla porta della mia camera.
Mi scolo le ultime gocce di Bourbon, e chiudo gli occhi.
E pensare che non ho mai sopportato gli spari.

di Gianluca Fiore

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Anche oggi la Piana di Salinagrande è arroventata. Perfino il cavallo sembra percepire l’aria immobile che ci circonda, dove nessuno osa muoversi e anche gli animali cercano di risparmiare energia. Il sudore cola lungo il suo collo muscoloso. Trovo rifugio sotto un albero di fico, le Egadi mi guardano, circondate da un’atmosfera tremolante.
Comincio il mio giro di perlustrazione della proprietà, un’abitudine che ho ereditato da mio nonno. Il padrone deve sempre farsi vedere. Scendo verso il mare, oggi è giornata di mercato e nonostante il caldo i contadini sono arrivati dalle campagne per vendere il poco raccolto che la stagione arida gli ha concesso. Già percepisco i loro richiami, come se urlare più forte potesse cambiare la loro giornata.
Il mio obiettivo, però, è un altro. È il banco di frutta di Rosaria. Mi avvicino, e la scorgo mentre il profumo dei meloni e delle angurie mi colpisce, violento.
La guardo. Occhi penetranti, capelli corvini abbandonati lungo le spalle. Gocce colano con una lentezza estenuante tra i seni. La voce, roca, mi risveglia.
Comandi, signor Conte, anche oggi a mischiarsi col popolo? Fossi in lei me ne sarei stata sotto gli alberi di Villa delle Palme. Cosa le posso offrire?
La frutta la conosci te, meglio di me. Cosa vuoi suggerirmi?
Dipende quello che cerca, signor Conte. La frutta è come la vita. Il fico d’India è per chi non si ferma alle apparenze, per chi è disposto ad andare a fondo, a oltrepassare la superficie delle cose. Magari pagando qualcosa in più riesce, alla fine, a godere di splendidi sapori. Un po’ d’uva? Se vuole provare il dolce e l’aspro della vita senza chiedersi prima come sarà, senza sapere se sarà quel chicco a tradirti, l’uva è la frutta per lei. O la banana, che copre tutti i sapori, nessuno escluso, con la sua consistenza morbida e rassicurante?
Mi si avvicina. Dall’alto la sua scollatura diventa ipnotica. Mi rendo conto che le pulsazioni prendono un ritmo insolito. E che anche io sudo, e non so se per la temperatura.
Ma oggi fa caldo, Conte. È la giornata dell’anguria. Una giornata da stare sdraiati alla spiaggia giù alle Saline, con l’anguria a mollo nell’acqua. La si prende, si divide a metà, e si immerge la faccia nella polpa. Si beve, e si mangia. E poi, ancora col succo che cola, ci si bacia. Perché tutto, Conte, diventa dolce.
Ma mi scusi, Conte, come al solito divagavo. Che le posso dare?
Rosaria, dammi un pomodoro. Uno solo. Ma che sia grosso, e saporito. E morbido. Che lo possa mangiare anche chi i denti non li ha più.

di Gianluca Fiore

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Visto dal ponte, questo braccio del Mediterraneo ha l’aria di un animale che sornione respira, senza fretta. Sicuro che prima o poi digerirà tutto quello che arriverà a contatto con le sue acque. Il vento di dicembre fa montare le onde, inizia una nuova giornata a bordo della Aquarius. Guardo la superficie del mare, e cerco di immaginare il tappeto di persone che giace sul fondale. Naufraghi. Uno li può chiamare migranti, ma non sono solo questo. Tutti hanno diritto ad essere aiutati, e salvati. Questo dice la legge del mare, che è anche la legge dell’uomo.
Uno dei ragazzi della Aquarius esce di corsa, hanno avvistato un gommone in difficoltà, l’ennesimo di questo mese maledetto. Più le condizioni sono sfavorevoli, e più si mettono in mare per una traversata che è peggio di una roulette russa. Dieci partono, uno arriva.
Il gommone cominciamo a vederlo, o dovrei dire a intuirlo, dopo mezz’ora di navigazione. Una massa di braccia e di gambe si muove in modo disordinato sul pelo dell’acqua. Vestiti variopinti compaiono e scompaiono al ritmo delle onde, una macabra danza di chi vuole scavalcare gli altri nel tentativo di arrivare primo a toccare la Aquarius. Cominciamo il trasbordo, donne in lacrime per i figli, odore di gasolio, merda, uomini che spingono, pianti non so se di gioia o di dolore.
E poi i morti, come sempre. Lo sappiamo bene, dopo anni di questa vita. I bambini. I vecchi. Il mare è una falce, fa fuori chi non ce la fa. Senza chiedere. Senza pensare a quello che potrà fare quel bambino, o cosa potrà insegnare quel vecchio. E poi le donne incinte, la promessa di un futuro infranta in un’acqua gelida. La disillusione di un amore, di una promessa.
Li issiamo a bordo, li curiamo, li nutriamo. Il ventre della Aquarius li scalda, una chioccia in mezzo al mare. Scappano dal loro Paese. Fuggono dalle loro radici. A volte ci dovremmo soffermare sull’enormità di tutto questo.
Cominciamo a intervenire sullo stato di salute. Dobbiamo lavorare rapidamente, siamo un’ambulanza con il primo ospedale utile a giornate di navigazione. Dopo qualche ora di lavoro convulso e senza sosta, la situazione sembra stabilizzarsi. E tiriamo il fiato. Una sigaretta, un bambino che ti si accoccola sulle gambe e dorme, magari sogna il padre. Una donna che ti guarda sussurrandoti cose che non comprendi, ma capisci.
Alcuni si inginocchiano davanti a un vecchio, che parla loro a voce bassa, una breve litania appena sussurrata. Tocca le teste, e da una piccola scatola tira fuori delle ostie. Un prete. Una Messa improvvisata. Poi ricordo, oggi è Natale. Anche qui, lontano dal modo civile. E accarezzo i capelli di questo scricciolo che ho sulle gambe.

di Gianluca Fiore

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Sono giornalista, e vivo di parole. Scritte, ma non solo, dato che sempre più spesso mi chiedono di fare l’opinionista nei talk show serali. E la cosa che non sono mai riuscito a sopportare (un vero paradosso per uno come me) è quando non mi vengono.
Uno potrebbe pensare che è una cosa che succede, che non ne devo fare una tragedia, ma essere privato del mio strumento è come levare la bicicletta ad un campione del Giro d’Italia. Una menomazione. Ogni tanto, nei momenti meno indicati, non riesco a trovare la parola giusta. Mia moglie cerca di aiutarmi, e spesso la cosa si trasforma in scenette piuttosto ridicole, con me che cerco di spiegare cosa vorrei dire e lei che cerca di indovinare. E quasi mai ci riesce.
Mi capitava spesso anche quando ero piccolo. Allora c’era mio nonno che arrivava in soccorso e a volte riusciva a capire quale era la parola che non trovavo. Un giorno eravamo nel suo studio, e mi dice sai Francesco, in realtà non è colpa tua se ogni tanto le parole non ti vengono, perché questo succede quando vicino a te passa il ladro di parole. E chi è, nonno? E’ un bambino curioso, invisibile, che se sente qualcosa di interessante…oop! ti ruba la parola e tu rimani come un fessacchiotto. Ma il suo lavoro non finisce qui. Una volta a casa, in una delle nuvole più alte del cielo, il ladro di parole completa il suo esercizio, ed elimina quelle brutte, e quelle che lui non vorrebbe mai sentire. E allora comincia a fare la cernita. Guerra, la butto. Fame, non la voglio vedere. Violenza, via nel cesso. Sfruttamento dei bambini, la distruggo. Alla fine tiene da parte solo quelle che assieme possono costruire un racconto bello, e pieno di promesse.
Questa del ladro di parole divenne una favola familiare, anche quando mio nonno, ormai passati i novant’anni, cominciò a sragionare. E quando la domenica a tavola circondato da figli, nipoti e pronipoti non riusciva più a parlare bene tutti, anche i più piccoli, gli dicevano nonno, nonno, non ti preoccupare, sta passando il ladro di parole…
Un giorno di Dicembre – mancava poco a Natale – mi chiamarono al giornale. Nonno era vicino alla fine, anche il medico non sapeva più cosa fare. Passai la notte accanto a lui, e mi raccontava cose senza un filo logico, ormai perso nella sua dimensione. Verso mezzanotte, mentre gli stavo rimboccando le coperte, si sollevò e gli si illuminò il viso. Guardò verso l’alto e mi disse France’, France’, è arrivato il ladro di parole, mi deve fare il suo discorso…poi rimase così per qualche istante, come se ascoltasse qualcuno. Si adagiò sul guanciale, e lasciò questo mondo con uno dei suoi sorrisi migliori.
Il ladro di parole esisteva davvero.

di Gianluca Fiore

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Sei e mezza di mattina, tutti a bordo e si parte. Il primo Frecciarossa schizza da Termini verso Centrale come un proiettile. E’ presto, ma a bordo la vita è già frenetica. Cellulari che squillano, appuntamenti da confermare, manager da rassicurare, ultime versioni delle presentazioni in powerpoint da inviare. E il carrello del caffè, come perderlo? La velocità mi circonda, tutto si muove troppo rapidamente, treno incluso. Ai tempi dell’Università si viaggiava di notte, salivo a Roma Tiburtina prima di cena e alle sei del mattino ero a Milano. Ora quei treni sono stati cancellati, per dare spazio a questi siluri da 300 km all’ora. Niente più notti in cuccetta, incontri casuali con una umanità varia per condividere poche ore, e lo spazio di una chiacchierata.
Cerco di immergermi nella trama del libro, ma è impossibile. I passeggeri di questa carrozza devono essere i predestinati alla soluzione dei problemi del Paese. Meetings rinviati, budget sottodimensionato, tagli allo staff, cambio di management. Chissà perché quando ci sono crisi da affrontare si passa subito all’inglese.
Decido di dedicarmi alla bellissima campagna romana, anche se la velocità non mi consente altro che guardare pennellate di giallo, invece di casolari di campagna. Schizzi di verde, e non pini. Mi chiedo se sia viaggiare, questo. O piuttosto spostarsi tra due punti, senza godere di ciò che si attraversa, senza soffermarsi. Una soluzione anticipata del raggio trasportatore di Star Trek. Poi, tutto si ferma.
Immobili in mezzo al nulla, un paesaggio attonito ci fissa come extraterrestri. Tutti si bloccano con lo smartphone a mezz’aria, con espressioni tra il sorpreso e l’incazzato come per dire ma io ho da fare, non posso mica fare tardi, e il management meeting, e il CEO non può aspettare… A venti metri da questo missile spiaggiato, un pastore e le sue pecore mi guardano. Lui avrà la mia età, e tiene un sigaro spento tra le labbra. Appoggiato al bastone mi fissa e accenna un saluto con la testa. E ridacchia, mentre parla al suo cane. Ride di un modo di vivere a lui incomprensibile, immagino. I suoi piedi lo portano in giro da decenni senza tentennamenti, per sentieri dove si confronta con la natura e le sue espressioni.
E c’è il tempo giusto per camminare, per accompagnare le pecore, per mungerle, senza fretta. La giornata è scandita da momenti che non puoi accelerare. Ogni cosa merita spazio, e rispetto. Ecco, questo è il suo viaggio. E quanto siamo lontani, anche se vicinissimi. Lui viaggia nella natura rispettando le sue regole, e noi oggetti sconosciuti voliamo basso, con l’illusione di far girare il mondo.
Il treno ha uno scossone, si riparte. Il pastore volge lo sguardo verso di me, si leva il cappello e
mi saluta, con la sua smorfia divertita.
E io mi sentirò più solo.

di Gianluca Fiore

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org