AOH! E BASTA!
di Enrico Biondi
IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org
di Enrico Biondi
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di Daniele Crotti
Aveva parlato con sei persone in tutta la settimana: tre al mercato, una il giovedì e una il sabato al bar. Con il prete, la domenica mattina. Ascoltò persino le letture dal Vangelo, cosa che non faceva mai. Quando andava a messa con Ingrid, durante la predica si distraeva contemplando gli affreschi sul soffitto. Uscito dalla chiesa raggiunse il parcheggio. Aveva smesso di piovere, faceva freddo. Paolo salì in auto, prese una penna dalla giacca e scrisse qualcosa sulla pelle del sedile vuoto alla sua destra, quello di Ingrid. Poi accese il motore. L’aria calda cominciò a invadere lo spazio sotto i pedali. Si diresse verso il lago. Lungo la strada c’erano solo foglie schiacciate a terra oltre il ciglio dell’asfalto. Nel tragitto diede qualche occhiata ai fiori autunnali nei giardini. A Ingrid piacevano le ninfee bianche che affioravano sul lago dopo l’estate. E così, da ormai tre anni, lui gliele lasciava tutte le mattine nel campo vicino ai tigli. Dopo una curva, Paolo imboccò la stradina che portava all’approdo per le barche. Il piccolo molo di legno sembrava l’ingresso dell’albergo in cui l’aveva conosciuta. Allora spinse il piede destro, per non fare tardi. E fu come entrare dalla grande porta girevole di vetri e legno lucido. Paolo aveva con sé ancora qualche banconota. Bastavano per la stanza e un paio di whisky. Il resto lo aveva usato per i fiori di Ingrid, adagiati sui sedili posteriori. Ninfee bianche, naturalmente. Come tutte le mattine. Il tettuccio cerato dell’auto cominciò a sfondarsi e l’acqua torbida filtrò velocemente. – Mamma mia, che disastro, – pensò Paolo, – chissà cosa pagherò di riparazione: i vetri, il tetto, e anche dallo sterzo entra l’acqua… -. Ma l’albergo era così bello che non ci pensò troppo. Un cliente al bar somigliava a suo fratello. Faceva battute a voce alta, quindi non poteva essere lui. Due ragazze salivano dalle scale, con l’aria stanca, ma ridendo fra loro. Le luci nel salone, quadri e cornici d’oro sulle pareti. Come quella sera di tanti anni prima, quando conobbe Ingrid. In abito lungo, mentre il pianista suonava. Sentì allora un facchino che lo chiamava e lui capì che la camera era pronta. Salì le scale verso la stanza in cui aveva baciato la sua Ingrid per la prima volta, così forte da far arrossire anche la Luna. – Guarda quanto lago che entra. Chissà cosa costerà riparare tutto. Chissà cosa dirà Ingrid… – pensò Paolo prima che l’acqua sempre più buia lo avvolgesse. Dai sedili posteriori, una foglia si staccò da una ninfea bianca e gli passò sul viso. Pareva una carezza.
Daniele Crotti è un ricercatore universitario in Economia, con la passione per le arti espressive. Quelle che liberano l’energia e la poesia dentro noi stessi. Musica jazz e racconti fulminanti sono le cose di cui si nutre con maggior curiosità.
Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)
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Nel gruppo di lettura abbiamo affrontato l’Ulisse di Joyce in vista del Bloomsday del 16 giugno. La lettura di tre capitoli, dei quali il monologo finale di Molly Bloom. L’idea del flusso di coscienza in queste pagine raggiunge il massimo espressivo, e i lettori si sono interrogati su quanto la scrittura del Maestro segua davvero le manifestazioni fluttuanti dei pensieri, o quanto invece l’inevitabile supervisione dello scrittore. Joyce ha impiegato dieci anni a scrivere la sua opera. Nel flusso, dunque, l’irrazionalità e la confusione che attraversano la coscienza e la mente; nel lavoro di riscrittura la razionalità, il mettere a posto le cose, il lavoro di lima alla ricerca dell’armonia della pagina. Il flusso di coscienza perde dunque la sua naturalezza?
Da ragazzo commisi quello che molti ritengono un errore, cioè leggere Joyce troppo giovani. Nel mio piccolo però affrontai l’argomento, sotto l’influsso di altre letture, come lo Zarathustra di Nietzsche. Mi sentivo per diversi motivi attratto dall’irrazionale e, ricordo, ne discutevo con un’amica, sostenitrice della razionalità.
Vasco Rossi non aveva ancora scritto cerco un senso a questa vita anche se un senso non ce l’ha. Razionale e irrazionale. La mia trovata consisteva nel considerare l’irrazionale in due aspetti: quello che è in antitesi alla razionalità, e l’irrazionale che ne va oltre. E in quest’ultimo credevo, per superare i limiti ammessi dalla stessa razionalità.
Venendo ora a certe avanguardie di anni passati e ai nuovi linguaggi che nascono ogni giorno, mi sembra che la lezione del vecchio Jimmy sia attuale, nel momento in cui il suo lavoro di revisione razionale rispettava, e anzi sosteneva, l’intuizione del flusso di coscienza.
A coloro che dedicano tempo al proprio percorso di crescita nella scrittura il suggerimento è di compiere piccoli passi alla volta, con tanta umiltà. Non come quei pittori che fanno l’astratto senza conoscere il figurativo.
continua il 18 maggio
Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.
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di Gualtiero Callegaro
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di Giorgio Gino Giunta
Benedetto Croce sosteneva che l’artista indica una sua visione, e il fruitore dell’opera è libero di svilupparla secondo la propria sensibilità.
La vignetta di Giorgio Gino Giunta, risultata vincente nel Concorso, si apre a diverse letture.
C’è chi, nella figura del tennista, ha visto un famoso campione che ha rinunciato a un torneo internazionale in difesa delle proprie convinzioni. Altri hanno notato la canottiera da ragazzino, o magari di una ragazza, e non la maglietta di un professionista. Altri ancora si sono riconosciuti nel gesto forte e perentorio di mandare lontana quella palla a forma di Coronavirus e andare oltre, e chi ha pensato non solo all’epidemia, ma a tutti i mali che ci affliggono, in un lancio verso la pace e la libertà.
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Di Anna Iemma
In un piccolo villaggio al confine tra Russia e Ucraina, la vita scorreva tranquilla tra i campi di grano e le case di legno. Il sole sorgeva ogni mattina, risvegliando gli abitanti con i suoi raggi dorati e promettendo una giornata di lavoro e di semplici gioie. Tuttavia, il destino aveva in serbo una prova difficile per questo angolo di mondo.
Un giorno, senza preavviso, il ronzio lontano degli aerei e il rumore sordo delle esplosioni interruppero la pace. La guerra tra Russia e Ucraina era arrivata anche qui, portando con sé paura e incertezza. Gli abitanti del villaggio, sorpresi e spaventati, si trovarono a dover fare scelte difficili. Alcuni decisero di fuggire, cercando rifugio in luoghi più sicuri, mentre altri scelsero di rimanere, radicati alle loro case e alle loro terre. In mezzo a questo caos, due amici d’infanzia, Maksym e Ivan, si ritrovarono su fronti opposti. Maksym, con le sue convinzioni forti e il suo amore per l’Ucraina, decise di unirsi ai difensori del suo paese. Ivan, invece, trascinato dagli eventi e dai legami familiari, si trovò a vestire l’uniforme russa.
La guerra, con la sua brutalità, non risparmiò il villaggio. Le case furono danneggiate, i campi bruciati, e la vita di ogni giorno fu interrotta da continue minacce e pericoli. Ma in mezzo a questa oscurità, la luce dell’umanità continuava a splendere. I villaggi si aiutarono a vicenda, condividendo cibo e rifugio, e mantenendo viva la speranza di giorni migliori. Una notte, mentre le stelle brillavano debolmente in un cielo offuscato dal fumo delle battaglie, Maksym e Ivan si trovarono faccia a faccia. Entrambi armati, entrambi stanchi e segnati dalle esperienze vissute. Per un lungo momento, si guardarono negli occhi, riconoscendo l’amicizia e i ricordi che li legavano. In quel silenzio carico di emozioni, capirono che la loro umanità comune era più forte di qualsiasi conflitto. Quella notte, Maksym e Ivan fecero una scelta coraggiosa. Deposero le armi e, insieme, decisero di lavorare per la pace, cercando di portare un barlume di speranza nel cuore oscuro della guerra. Il loro piccolo gesto divenne un simbolo, un promemoria che, anche nei momenti più bui, la luce dell’umanità può trovare il modo di brillare. E mentre il sole sorgeva su un nuovo giorno, il villaggio iniziò lentamente a tessere di nuovo i fili di una vita spezzata, ma mai del tutto perduta.
Anna Iemma è nata al Sud, ma da bambina è emigrata al Nord. Oggi si sente una di mezzo. Passa dodici ore al giorno in internet. Otto a dormire. Le altre quattro top secret.
Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)
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Non ho mai capito il doppio uso della grammatica che fanno in molti. Da una parte un mostro sacro: lo dice la grammatica! Dall’altra la negazione di principi e suggerimenti.
Vorrei affrontare questo tema, in una paginetta, pur sapendo che ci potrei scrivere un libro, e allora scelgo un solo capitolo per accennare all’argomento, ed è quello della punteggiatura e dei punti d’interpunzione.
Tutto è risolto dalla grammatica stessa, che si esprime in modo molto chiaro: non vi sono regole nella punteggiatura.
L’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce, quello di Penelope, settanta pagine senza un segno di punteggiatura, fu scritto nel 1922, cent’anni fa. Ciononostante ci sono ancora professoroni, che oggi hanno trovato in internet il terreno a loro più adatto, che disquisiscono su ogni singola virgola.
La cosa però più deprimente è quando costoro, di norma analfabeti in materia, si spendono in messaggi di marketing per richiamare l’attenzione di altrettanti analfabeti, con lo scopo, a volte addirittura dichiarato, di essere i depositari di sacri riferimenti, gli unici a garantire l’editing che trasformerà i suddetti in scrittori di successo.
Un elemento della formazione di questi autentici venditori di fumo è di conquistare innanzitutto la fiducia della vittima. Tanti libri e tanti film ne hanno parlato. Cito La casa dei giochi di David Mamet con Joe Mantegna (1987), che affronta in modo diretto l’importanza di acquisire fiducia da parte della vittima designata.
Il capitolo che più si presta è quello dei segni di interpunzione nei discorsi diretti. I professoroni fanno copia e incolla da una qualsiasi grammatica e mettono in guardia i neofiti aspiranti scrittori che guai, se si usano i caporali, guai a mettere il punto finale all’interno, va fuori! Per chi usa il trattino, guai a… Ne ho letto uno che diceva: questa informazione ve l’abbiamo data gratis, se ne volete altre sono a pagamento.
La grammatica è una guida, un’indicazione indispensabile, ma non è legge scritta su pietra. Tanto è vero che le regole cambiano secondo l’uso corrente.
Le case editrici, di norma, nei discorsi diretti impongono le proprie scelte, per cui i caporali, le virgolette o i trattini che vi trovate sono per tutti uguali.
Nella nostra piccola casa editrice lasciamo invece libertà all’autore, perché ci sembra giusto rispettare le sue preferenze, al quale magari i caporali non vanno giù e si sente a proprio agio con le virgolette o i trattini. È ovvio che se Mondadori fosse interessato a una mia pubblicazione e mi chiedesse i caporali, io userei i caporali. Ragazzi! Non sono questi i problemi della scrittura. Dopo il punto esclamativo di “Ragazzi !” ci va la virgola? Non sono questi i problemi. La grammatica, ve lo assicuro, non si offende. Anzi, da quella grande madre che è, ama i figli che prendono iniziative e vanno ad abitare da soli.
Vi porto la mia esperienza. Per i discorsi diretti fra virgolette, trattino e caporali io ho scelto il trattino. So bene che la grammatica indica il trattino lungo, per distinguerlo da quello breve che ha significato di unione e non ha relazione con il dialogo, ma a me piace di più quello breve. Alla fine, dovete ammetterlo, non si confondono, così come la grammatica dice di non accentare il do verbo perché nel contesto non può essere scambiato con la nota do.
Sento già il raglio provenire dai social specializzati, che campano sulle inezie.
Alessandra dice che i simboli vanno rispettati. Beh, a questo punto, se riuscirò a capire come si fa sulla tastiera, adotterò il trattino lungo.
continua l’11 maggio
Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.
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di Maria Novella Lombardi
Ci sono frasi che evocano in chi ascolta un’immediata adesione emotiva. Hanno in sé gli elementi di convalida di quanto enunciato, tanto da far apparire inutile ogni approfondimento critico. Capolavori della retorica, nella pubblicità costruiscono per il prodotto un primato di bellezza/desiderabilità associato a superiorità/qualità morali, in un binomio Kalòs Kai Agathos retaggio dell’antica Grecia.
Si pensi ai natalizi panettoni e pandori capaci di generare magicamente buoni sentimenti.
Una pretesa di veridicità che si estende oltre la relazione fra il claim e l’oggetto reclamizzato, investendo aspetti del vivere che con esso non hanno relazione.
Un tipo di frasi proprie anche della comunicazione politica, bandiere di posizioni giustificatorie di idee o condotte, delle quali, proprio in virtù di tali frasi, si afferma l’incontestabilità. Attualmente chi supporti l’ineluttabilità della reazione di Israele al brutale attacco di Hamas del 7 ottobre, ne cita una di Golda Meir, premier Israeliana al tempo della guerra dello Yom Kippur, “Noi potremo un giorno perdonarvi di avere ucciso i nostri figli, ma non potremo mai perdonarvi di averci costretto ad uccidere i vostri”. Potente, suggestiva, pronunciata a nome di un intero popolo, può essere suddivisa in due parti distinte.
La prima, che sancisce la magnanimità, superiorità e clemenza di un certo gruppo, “Noi potremo un giorno perdonarvi…”, funge da premessa alla seconda, in una sorta di sillogismo nel quale, dando per vera la prima parte, quella in cui ci si dice capaci di perdonare persino l’uccisione dei propri figli, diventa automatica la “verità” della seconda, ovvero che sia più dolorosa per chi la commette, l’uccisione dei figli altrui, esaltando ancora la superiorità morale prima sostenuta.
Ne deriva pure che la causa dell’impossibile perdono per le morti provocate, risieda non in sé, ma nella perfidia del nemico, tanto mostruoso da non lasciare spazio ad alternative e a “costringere” alle uccisioni dei suoi figli.
Si dà per comprovato che non vi siano altre scelte rispetto alla guerra, alla vendetta e all’annientamento, e che le possibili soluzioni siano state davvero tutte esperite.
Oltre alla demonizzazione, al nemico viene attribuita anche la disumanizzazione e la colpa, suggerita implicitamente, di non amare a sufficienza i propri figli, così da evitargli l’uccisione da parte di chi è stato “costretto” a farlo, non condannabile perciò per tale azione. Quel che più fa riflettere, è che attualmente la frase viene citata mentre l’operazione su Gaza è ancora in corso. È come se si pretendesse l’assoluzione preventiva per essere nuovamente “costretti” ad impietose azioni di guerra che causano la morte di civili e bambini, si badi, non già accadute, ma in corso d’opera e ancora da commettere! E lo si fa richiamandosi, loro come i loro nemici, ad un Dio ridotto a meschino tifoso dell’una o dell’altra squadra. Apparentemente costruita con una logica similare, di grande efficacia comunicativa, è un’altra frase, di Gabriel Garcia Marquez, che pare da segnalare. Anch’essa in un certo senso basata su un sillogismo e costituita da due parti correlate. La prima parte pare affermare un altezzoso privilegio, un dato di superiorità morale o materiale “Un uomo ha diritto di guardare un altro uomo dall’alto in basso…”, ma conclude imprevedibilmente negando la premessa, mutandone così il senso profondo: “… solo in un caso. Aiutarlo a rimettersi in piedi”. Nessuno fraintenda però, senza per questo sentirsi autorizzati ad averlo prima steso.
Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)
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di Roberto Filippini
La nostra classe, la terza D del Liceo di Saronno, era divisa in due quartieri, a destra quello delle ragazze e a sinistra i maschi. Angela era in prima fila vicino alla porta e quando si voltava verso di me, che stavo in fondo dall’altra parte, trovava sempre i miei occhi su di lei.
Un giorno il burbero insegnante di scienze la richiamò: “Signorina Angela ma lei ha il torcicollo?” Angela temette di essere stata scoperta e la sua sensibilità non resistette. Dalla mia postazione notai che si asciugava una lacrima.
Anch’io mi sentii offeso dal professore, e la vulnerabilità di Angela risvegliò qualcosa dentro di me, un coraggio che non sapevo di avere. La lacrima è una silenziosa confessione, un linguaggio che va oltre le parole.
Scrissi su un foglietto: “Al tramonto, al Parco della Pianeta” e glielo feci arrivare come si faceva nei compiti in classe da un banco all’altro.
All’appuntamento giunsi mezz’ora prima e ripassai tutte le frasi che mi ero preparato, ma quando comparve in fondo alla stradina ero già senza parole.
Ci sedemmo su una panchina. Il sole non sapeva più come aiutarci con i suoi riflessi sugli alberi. Ogni respiro diventava un dialogo nascosto.
Angela era accanto a me, il calore della sua presenza come una promessa non ancora svelata. Le parole danzavano sulla punta della mia lingua, ma il timore di rompere un incantesimo mi tratteneva ancora. E poi accadde, finalmente. Dalla tasca della giacca presi lo smarphone e dissi: “Ti voglio far sentire una canzone che piaceva ai miei genitori quando erano giovani”.
Lei mi guardò, i suoi occhi lucidi riflettevano la luce del tramonto e dissolvevano i miei dubbi. “Il peso di tutto ciò che non diciamo è troppo da portare”, disse con una certa commozione che di nuovo le procurò una lacrima.
In quel momento compresi che il nostro silenzio non era una barriera, ma un desiderio che entrambi temevamo esplodesse distruggendo l’amore.
Due anni dopo ci iscrivemmo all’Università. Lei biologia, io ingegneria meccanica. L’anno scorso è nato Roberto, che noi chiamiamo Bobby.
Roberto Filippini, ingegnere meccanico, di norma scrive rapporti di carattere tecnico-industriale. Sportivo, pratica il wakesurf sul lago di Como. Prima o poi ne scriverà un racconto.
Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)
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di Mariachiara Ferraro
O Cedro che occupi la finestra del mio risveglio: dal colore delle tue fronde indovino l’ora e la giornata. Ti immagino ancora seme in terre lontane, e poi, giovane di pochi metri, sradicato e imbarcato con altri compagni alla volta del ricco Occidente, deportato ad abbellire i giardini dei suoi nobili e borghesi… Hai viaggiato a lungo per approdare chissà come di fronte a casa mia. O meglio, io sono approdata di fronte a te, che c’eri già da tempo, non so nemmeno quanto: dovrei chiedere al vicino, che sa tutto di tutti nel raggio di un chilometro – lui che ogni giorno spazza meticolosamente i tuoi capelli aghiformi dal suo vialetto, sul quale ti affacci da prima di lui e della sua scopa – che pure occupano il mio risveglio ogni mattina -, tu, enorme, eccessivo, esuberante, quasi fastidioso nella tua abbondanza. Tu c’eri quando da qui si vedevano i tramonti; e hai guardato impotente quando l’odioso condominio rosso inesorabile li ha coperti, con i suoi quattro piani, la sua banca, i bar e il parcheggio. Hai visto le formiche rosa, questa indaffarata razza umana, avvicendarsi ai tuoi piedi sempre più di corsa, sempre più piccole sotto di te, mentre diventavi il gigante che sei. Da quando sono arrivata sei sempre stato lì, alla finestra. Ci hai guardati dormire, piangere, ridere, cambiare posto ai mobili, preparare una culla; hai visto mio figlio crescere con te, con la tua folta chioma di velluto verde scuro, con la tua presenza silenziosa, sontuosa, impassibile. Finché le formiche rosa si sono scocciate di tanta abbondanza, della tua pioggia di aghi che inondava la strada, i vialetti ordinati, le grondaie, i tombini… e così hanno pagato i ragnetti rosa per arrampicarsi sui tuoi rami e fare del tuo manto di velluto tristi brandelli penzolanti, con troppo cielo dietro. E tu, impassibile e nobile – sono sicura che allora hai provato qualcosa… vergogna? Forse rabbia? Io di certo pena. Quando quel giorno sono tornata a casa e ti ho trovato così, ho pianto. Oggi, due anni dopo, ti sei rifatto una vita, ago dopo ago. Durerà? Finché gli insetti rosa non si riterranno ancora padroni di farti ciò che vogliono, perché tu, muto, non protesti, per ora. Mio figlio mi chiede a volte, con un velo di timore: “Ma se cadesse, da che parte cadrebbe? Sulla nostra casa?”. Non gli so rispondere. Ma se in una notte di tempesta cadrai da questa parte, non farci troppo male… So che sarà perché volevi abbracciarci prima di andartene, dopo tanta vita a guardarci soltanto. Chissà se sarà più dolce morire, tra le tue braccia… o Cedro, venuto dal Libano alla mia finestra.
Mariachiara Ferraro. Cantante, amante della musica unita alla poesia nei lieder dei poeti romantici tedeschi, nella poesia di Fernando Pessoa nel Fado portoghese, delle voci di donne che hanno portato al mondo parole intense, sulle ali del canto.
Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)
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