Gli amici dell’Accademia preferivano i drammi, le sceneggiate, le commedie. Invece Volodì, un giovane che al cinema vedeva i film di Buster Keaton e Charlie Chaplin, aveva scelto di fare l’attore comico.
– Volodì, sei sicuro? – gli disse il maestro di recitazione – Far ridere è la cosa più difficile che ci sia.
– Ho detto che farò il comico – ribatté Volodì con aria corrucciata, e gli voltò le spalle.
Era solo un ragazzo viziato o davvero sapeva il fatto suo? Di certo la determinazione l’aveva stampata in volto. Non avrebbe recitato nelle sale dell’oratorio.
L’attendevano i più prestigiosi palcoscenici del mondo. Già ne sentiva gli applausi. Bis bis. E lui sarebbe uscito ogni volta da dietro il tendone, il braccio destro piegato all’addome e l’inchino fino al pavimento. Poi, rialzandosi con il busto, sguardo fiero e sprezzante. I poverini non sapevano ancora di che sarebbe stato capace.
Le cose però non andarono come aveva pensato. Il pubblico non rideva. Quei cretini rimanevano con occhi fissi e labbra strette.
– Caro mio, non fai ridere nessuno – gli disse un attore anziano, che voleva dargli consigli.
Volodì lo scostò con la mano e si rifugiò in camerino.
Davanti allo specchio rifece quelle mosse per le quali lui aveva previsto la platea scoppiare in risate, quando in una scena mostrava i muscoli come Superman e saliva l’immaginaria scala del potere prevista dal copione. Si ricordò allora della sua infanzia felice, e delle parole della mamma, quel giorno che non voleva mangiare il borscht e piangeva lacrime isteriche e capricciose:
– Volodì, ma cosa farai da grande?
– L’attore, mamma. Farò l’attore.
– E quale parte reciterai?
– L’eroe, mamma. Farò l’eroe.
– Volodì, gli eroi muoiono in scena.
– È vero, mamma, ma io lascerò morire gli altri. E confortato da quel ricordo riemerso come le madelaine di Proust, abbandonò la carriera di comico e si rigenerò in un nuovo tipo di teatro.
Subito trovò un impresario di fama mondiale, per lui una specie di zio d’America.
Prima campava con mille euro al mese e adesso, dopo soli tre anni, possedeva ville in Italia, al mare e in montagna, e depositi bancari in paradisi fiscali.
Il suo teatro è sempre affollato, e arrivano spettatori da tutte le parti d’Europa, pronti a pagare qualsiasi cifra. Nell’immaginario collettivo ha oscurato tutti gli eroi dei video giochi. – Volodì, stai attento di non fare la fine del rospo nella favola in cui beve tant’acqua per diventare bue – gli disse un giorno il suo maestro di recitazione (licenziato sul posto).
Volodì, da un anno in arte con il nome di TONA, che vuol dire colui che reca pace e democrazia, recita nella vita di tutti i giorni. Indossa l’abito di scena e prepara le sceneggiature, come l’altro giorno quando è andato da un capo di stato, suo ammiratore, che l’aveva invitato. Lui ha organizzato la scenetta dei due amanti che corrono sulla spiaggia, lei da una parte e lui dall’altra, e incontrandosi a metà si abbracciano. Nell’occasione ha studiato un passo che fa intendere di essere stato ferito, come Dustin Hoffman nellUomo da marciapiede. Quando i giornalisti gli chiedono quante persone pensa di aver coinvolto, lui non dice mai il numero totale, ma solo quello dei bambini.
Un critico ha scritto invece che in un solo anno, sommando tutti gli eventi, si può parlare di trecentomila. E non è finita.

di Abramo Vane

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Come giunsi fin qui, al limite del tempo e dello spazio, come mi piegai a questa mera condizione di reietto a me stesso, sotto quali perduranti incertezze il mio animo affogò nell’odio? Nemmeno ora, dopo innumerevoli ere, lo so.
Io che ero parte di una schiera scelsi l’orda, io che amavo e lodavo odiai e svilii, io che osannavo e glorificavo denigrai e ingiuriai, non volevo cadere nell’errore eppure vi caddi. Oh, potessi trasformarmi in pietra, silente, immota, oppure congelare come il ghiaccio che mi circonda, avessi il potere di bruciare come sterpaglia le mie maledette spoglie, osassi contrastare l’ipocrita battito del cuore.
Salgo, continuo a salire. Mi arrampico su pareti gelide, il corpo scivola, ma ho ancora la forza, la volontà. Il forte vento, unico compagno di viaggio, dopo aver sferzato le mie membra sta calando. Affronto un altro sperone di roccia, lo supero e mi ritrovo su una piana gravida di profonde fenditure. E per la prima volta dall’inizio della fuga vedo l’orizzonte. Non so se provare rabbia o disperazione, io che anelavo rivedere la vera Luce ora ho davanti agli occhi solo grigia desolazione, un futuro desertico, pallido e indifferente al mio disincanto. Ed è allora che grido. E le mie urla percorrono la vuota pianura, sorvolano le spaccature, penetrano l’aria immobile, indugiano sulle pietre e infine muoiono. Vorrei essere un grido. Riprendo il cammino. Non uno stridio, non un mormorio, solo il mio respiro. Ad ogni passo alzo polvere brunita e, come avesse coscienza propria, si sposta per evitare ogni contatto con il mio essere. Non mi stupisce e non la biasimo per questo. Sono ciò che sono.
Odo un lontano rumore, proseguo veloce, la terra scura tradisce terrore e si ritrae con più celerità. Il suono, che in precedenza era poco più che ovattato, come il verso di una creatura rinchiusa nel guscio, ora è più forte, frastorna i miei sensi, quasi mi stordisce. Sale dalle profondità. Sono sull’orlo di un cratere immenso. Mi siedo sul ciglio. Mi chiedo se il Creatore osserva con uno dei Suoi innumerevoli occhi, mi chiedo se sa che mi trovo qui. Mi chiedo… Piango. Lacrime torbide rigano il mio volto. Ed ecco, la disperazione ha il sopravvento. Mi lascio cadere. Precipito, e ogni pensiero mi abbandona e allo stesso modo vorrei mi lasciasse la miserevole vita che posseggo.
Una luce. Maestosa, si intensifica come se venisse verso me, ma sono io che le vado incontro. Cado verso di lei.
Chissà perché sorrido, e il sorriso mi si allarga, diventa suono. Rido, grido, e le due cose insieme, e attraverso la luce. È tutta intorno, mi avvolge, non è calda, non è fredda, mi ristora, dona qualcosa e qualcosa mi toglie e, immerso nello splendore del perdono, ne bevo l’amore.

di Gian Paolo Zoni

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Stamattina ero a casa di Gigi, mio amico d’infanzia. Abita tuttora con i suoi vecchi, in una villetta di via Vico. Lui sotto e i genitori sopra. Lo sorpresi in garage, smontava un televisore del 1980. Ci abbracciammo a lungo, felici di rivederci dopo tanto tempo. Mi chiese perché fossi tornato. Nostalgia, risposi. Poi gli diedi una mano a completare l’autopsia alla vecchia TV.
Spengo il telefonino. Il poliziotto con cui ho parlato ha chiesto di non muovermi da lì. Ma il “lì” non è qui.
Il cimitero di Sant’Elmo è silenzioso, solo il fruscio delle foglie che si sfregano tra loro. Cerco la tomba di Aldo Creti, morto suicida in carcere nel settembre del 1998. Aveva ventidue anni, il pensiero volatile in una mente disordinata e flebile, figlio unico del giornalaio, e unico indiziato dell’omicidio di mia sorella Agata. Una undicenne dal sorriso vivace e il cuore ancora troppo piccolo. In quei giorni io e i miei amici Franco e Gigi eravamo convinti della sua colpevolezza. Un minorato mentale che si recava ogni giorno nei boschi dietro il campetto da calcio, e in quell’estate lo incrociavamo spesso. Eravamo convinti fosse lui. Il killer perfetto. Fummo noi a indirizzare i sospetti. Quello scemo non fiata mai, ti squadra come se davanti avesse fondi di caffè, un sorriso ebete ad aprirgli la bocca e lo sguardo perso, dicevamo. Recuperarono nel suo giardino una delle scarpe da ginnastica di Agata. Il giorno dell’arresto la signora Creti ebbe un malore, e suo padre gridò così forte da spaventare i cani dei vicini che gli risposero ululando. Poca cosa rispetto al tormento della mia famiglia.
La tomba si trova nella parte inferiore del cimitero, dove gli ultimi loculi si allineano sulla parete che dà a Sud. Lontano dalle altre, appartata. Niente nome, date o foto, soltanto l’ombra di un fiore scolpito nel marmo.
La pioggia fine bagna i miei capelli radi, sono qui, a distanza di quasi vent’anni, per chiedere perdono. Mi inginocchio sulla ghiaia, i calzoni freschi di tintoria, accolgo il dolore, che mi penetri in ogni cellula fino all’anima, e rievochi in tal modo un antico volto associato a un altro tipo di sofferenza. E non lo rammento. E Piango. Lacrime per la piccola Agata e le sue treccine dorate, per il giovane Aldo di cui non ricordo il viso, per la dissimile innocenza di entrambi. Odo le sirene. Le forze dell’ordine si avvicinano al “lì”. Scopriranno il corpo di Gigi. Vedranno la ferita profonda alla testa e il martello intriso di sangue appoggiato sul banco di lavoro. Ripenso alle sue ultime parole, “Ho bisogno della pinza con gli occhielli, è nella scatola blu sopra la mensola”. Presi il contenitore sbagliato, sono discromico. All’interno una scarpa da ginnastica.

di Gian Paolo Zoni

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Camminiamo da ore nella foresta, impaurite dagli alberi sbattuti dal vento e dai versi degli animali che non trovano quiete. Passo dopo passo il respiro si fa corto e la stanchezza ci rallenta.
Dobbiamo raggiungere il fiume prima dell’alba e seguirne la riva fino alla città. E sarai salva.
La luna piena brilla nel cielo africano e mi ricorda la notte in cui sei nata, dieci anni fa. Un grande disco bianco sopra al villaggio che pareva abbandonato. Si udivano solo il canto lamentoso dello stregone, e le mie urla di bambina col ventre gonfio squarciato da un dolore sconosciuto. Giacevo su una stuoia sporca nella capanna dove vivevo in solitudine da quando il vecchio, cui mi avevano dato in sposa, era morto con la bava alla bocca e il corpo martoriato da pustole sanguinanti. Prima gli anziani, poi la pestilenza si era portata via i giovani, e i campi erano rimasti incolti, aridi. Mesi di fame e angoscia, un maleficio misterioso ci aveva travolto.
Un ultimo grido, e sei arrivata nel bagliore della luna, candida come nulla avevo visto prima. La pelle trasparente, la sottile peluria più chiara dell’erba secca, gli occhi arrossati.
Femmina, e albina.
Sfinita, ti ho preso tra le braccia color della pece e rivolta ai fiotti di luce che entravano dalla porta, ho sussurrato: “Ti chiamerai Mwezi, il nome della luna! Il mattino seguente i giovani si alzarono dai giacigli di morte e i campi tornarono fertili. Un prodigio inatteso. E così, a ogni plenilunio lo sciamano ti alzava al cielo e il candore della tua pelle splendeva nella luce della grande luna, un talismano prezioso. Sei cresciuta silenziosa nella penombra della capanna al riparo dal sole e dagli sguardi, una creatura solitaria dagli occhi ciechi in continuo movimento e la pelle delicata. Ma non è bastato.
La tua fama propiziatrice si é diffusa in fretta tra i villaggi. Uomini donne e bambini giungevano a frotte e mani fameliche cercavano ciocche dei tuoi capelli, lembi di pelle, orecchie, naso, mani piedi arti. In tanti erano disposti a pagare per la tua stessa vita, e quando gli sguardi si sono fatti vogliosi ho deciso di portarti lontano. La foresta si apre, il fiume scorre silenzioso, all’orizzonte il bagliore della città.
Corriamo Mwezi, mia piccola luna bianca, sei salva.

di Alessandra Stifani, illustrazione particolare da “Per natura ed eternità” (acrilico, olio e matite su tela). Soluzioni Alessandrine, 2022

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Mi appare un’ombra lunghissima con un’aureola di luce, i capelli sulle spalle, le mani nelle tasche del cappotto, una ragazza in piedi davanti a un lampione. Non parla e io ho poco fiato, seduto su una panchina del Viale delle Cappelle.
È una sera di fine inverno: il cielo nero come piombo, l’aria fredda e immobile e nessun passo sull’acciottolato. Mi sono allontanato dalle luci della città, dalle persone a cui non so più parlare e da quelle che non mi interessa ascoltare, dalla vita non più mia, dai giorni passati irripetibili. Anni fa ho rinunciato a una donna dal sorriso e dal nome luminosi come l’estate. Negli altri amori non ho più trovato lo stesso incanto. Stasera mi è tornata la voglia di ripercorrere una delle nostre passeggiate. La primavera però è lontana e mentre cammino l’aria gelida è penetrata dentro di me, coagulandosi in un blocco che, a metà della salita, ha cominciato a pesarmi sul petto. Per questo mi sono seduto, senza respiro.
Poi dal buio è sbucata la donna alta con il cappotto nero e la guardo, da vicino. Il battito del cuore accelera e, finalmente, trovo le parole.
– Clara! Sei tu. Scusami se non mi alzo, ma non sono sicuro di riuscire. Mi ha preso una grande stanchezza. Che strano rivederti stasera, dopo tanti anni, quando sto pensando a te. Ho ricordato le nostre passeggiate e i cieli dalle mille stelle, quando salivamo dal viale fino al Sacro Monte. Arrivavamo fino al bar appollaiato sul panorama e sorseggiavamo il liquore asprigno, restando vicini. Sono sicuro che ricordi le nostre ore insieme. Ti vesti di nero come allora, e ti sta molto bene. Per anni ho sognato di incontrarti di nuovo. Ma eri sempre su un’altra strada. Sono contento di rivederti qui. Sei silenziosa e non mi rispondi, niente parole inutili tra noi. –
Un sorrisole illumina il volto e il buio intorno. Poi Clara allunga una mano verso di me. La mia è fredda, intorpidita, ma riesce ad afferrare la sua. Il calore di quel contatto mi fa sentire in pace, sereno, quasi felice dopo tanto tempo.
Non la lascio anche quando ritorna, insopportabile, quel peso sul petto.

Angelica si allontana dalla panchina, stringendosi dentro al cappotto e tentando di sentire meno freddo. Risale il viale correndo. Deve arrivare al paese, raggiungere qualcuno, chiedere aiuto. Non c’è nessuno stasera sul percorso e lei si maledice per aver deciso di lasciare a casa il cellulare.Voleva dimenticarsi il mondo per una sera e non aveva voglia di essere ritrovata da nessuno. È rimasta sconcertata dalle parole dello sconosciuto, così diverse dai discorsi che è abituata ad ascoltare. E questo le ha fatto morire sulle labbra una risposta. Non gli ha detto che si sbaglia, che lei non è quella Clara. In fondo che cosa importa, in quel momento in cui lui insegue ricordi e sentimenti lasciati indietro. La cosa giusta da offrire era il silenzio e la sua mano. Il contatto lo ha rasserenato.
Ora è adagiato sulla panchina, in attesa dei soccorsi, con un’espressione tranquilla. Lei però ha capito che non c’è bisogno di cure mediche. Non c’è più tempo.
Si avvicinano le prime luci del paese e quelle dell’unico bar aperto, al termine del viale. Si ferma a prendere fiato e solleva il viso verso il cielo scuro.
Scendono, silenziosi e morbidi, i primi fiocchi di neve.

di Angela Borghi

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Da settimane i ritmi lenti degli abitanti della cittadella erano sconvolti dall’agitazione. La poca disciplina, le uniformi trascurate, gli stivali sporchi di fango non passavano inosservati. Gli ordini gridati si perdevano nella confusione. Eliminare le prove! Evacuare prigionieri e soldati! Molti di loro erano già stati allontanati: la marcia della morte per sessantamila ospiti del campo. Denutriti, sfiniti, battuti dal vento. Quanti avrebbero retto? Si chiedeva Hans, una delle ultime reclute, biondo, di corporatura minuta, vent’anni, ma già vecchio lo sguardo, le mani gonfie e rigide per il freddo. Tremava. Il gelo invernale e l’ansia della fuga mettevano a dura prova anche loro, i tedeschi. La guerra era persa. Ormai era chiaro a tutti. “È solo questione di tempo”, disse con un filo di voce il prigioniero che camminava curvo al suo fianco, i piedi scalzi, uno straccio di coperta sulle spalle.Il giovane soldato non capì. Si vergognò di indossare scarponi. I Russi si avvicinavano, ma Richard Baer, comandante in capo di Auschwitz, non sarebbe fuggito. In piedi davanti alla porta del suo alloggio, si guardò intorno ancora una volta e sistemò il cappello. Le labbra serrate. Tirò fuori un fazzoletto dalla tasca. Se lo passò sulla bocca. L’odore di morte non lo abbandonava: era nelle narici, sulla punta delle dita, nella trama dei suoi vestiti. Odiava quel posto. Odiava quelle bocche sdentate, quelle teste rasate, ossa ambulanti che si trascinavano rassegnate. Nessun rimpianto né rimorso. Solo disgusto. Sentì degli spari. L’Armata Rossa era più vicina di quanto pensasse.Mise la mano sul fodero e sentì la Luger P08. Si sarebbe difeso. E se lo avessero preso? La capsula di cianuro nascosta in un dente avrebbe salvato il suo onore. Al cancello principale, con i mitragliatori sotto il braccio, apparvero i primi soldati della 60esima armata dell’esercito sovietico. Si fermarono in silenzio ai reticolati dove corpi ridotti a scheletri allungavano le mani per cercare pane e aiuto. Erano i più deboli, gli ammalati, lasciati indietro dalle SS. Graziati dal destino. Difficile distinguere gli uomini dalle donne. Esseri annullati. I giovani soldati russi, stanchi e goffi nelle uniformi pesanti, si scambiavano sguardi increduli e poche parole, sottovoce, in una lingua incomprensibile. Nauseati dal forte odore di carne bruciata, trattenevano a fatica conati di vomito. Al loro fianco, inesorabili, i carri armati sfondavano i cancelli della fabbrica dell’orrore. Tra montagne di cadaveri accatastati, tonnellate di capelli umani e centinaia di migliaia di indumenti e paia di scarpe si aggiravano pallidi fantasmi. Era mezzogiorno, il 27 gennaio 1945, e la neve scendeva fitta.

Di Anna Rosa Confalonieri

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I PERSONAGGI, parliamone ancora

E il personaggio folla? Volete perdere tempo sull’assalto al forno dei Promessi sposi o sulla folla descritta in Furia di Fritz Lang con la sceneggiatura di Norman Krasna?

E quando il personaggio è il paesaggio? Tutti gli altri si muovono dentro di lui, vivono e muoiono, il filo conduttore del nostro racconto, o almeno uno dei pilasti portanti, è proprio il rapporto fra uomo e natura. Quel deserto di sete che prima di uccidere il corpo strazia l’anima, genera flash back, ricordi, miraggi, oppure quegli alberi secolari che ondeggiano nella foresta, o quell’alberello che è in giardino e che il protagonista vede spoglio in inverno e poi rifiorente in primavera, o il cielo, le nuvole, le stelle, la luna, non è al fine il paesaggio un personaggio lui stesso, a volte il vero protagonista, sottile o manifesto che sia? 

E l’alter ego, eh, che dire del personaggio che è il nostro alter ego?

Mi è capitato recentemente, nel gruppo di lettura, di trattare Viaggio al termine della notte di Celine. Qualcuno ha riportato l’idea di alcuni critici sul personaggio di Robinson, alter ego del nostro Ferdinando. È vero, condivido. Però vorrei citare un aspetto più sottile, nel rapporto autore-personaggio, che ho già detto prima, e che ripeto volentieri.

In qualsiasi personaggio c’è l’autore. Vi faccio un esempio, che mi sembra semplice e chiaro. Nel mio racconto serve un personaggio che sia negativo. Chi meglio se non il mio vicino di casa? Lo conosco bene e mi basta descriverlo. È così facile. Come si veste, le parole che dice, i modi di fare. La sua visione del mondo, la mente bacata, l’animo viscido, la viltà più volte mostrata, la pochezza delle idee. Sarà un gioco da ragazzi descriverlo freddamente. Eppure. Il personaggio che ne uscirà inevitabilmente passerà dal mio filtro, e lì dentro ci sono anch’io, io che per fortuna non ho niente in comune con il mio vicino. Forse qualche cosina sì, nessuno è perfetto.

Della vita, e quindi dei personaggi che contribuiranno a sostenerne la mia visione, ho questa idea, che non esiste dualismo. Non sono manicheo, come già ho confessato, ma se voi lo siete non ci sono problemi e sosterrete la vostra idea. Buoni da una parte e cattivi dall’altra. E così se a me serve un personaggio del genere, lo creo in tale modo.  Lo zio Stefano: poche idee ma precise, non ci sono margini o dubbi in lui. A me interessa il personaggio e la storia. Attraverso di lui e la sua vicenda cresco nel mio percorso di scrittore, e di uomo che vuole capire come stanno le cose.

In conclusione vi dico: lo sapete tutti che cosa sono i personaggi. L’avaro, la puttana, il brigadiere, lo scrittore, il marito cornuto, il cane e il gatto. Scriviamo, e sui personaggi che facciamo? Ci lavoriamo come Michelangelo con suo David e nel marmo scolpiamo l’opera.


continua il 24 febbraio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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I PERSONAGGI, il divertimento continua

Com’è possibile scrivere un racconto senza personaggi, anche se, come spesso capita nel nostro caso, si tratta di racconti di sole duemila battute? I personaggi nella narrativa sono come l’acqua nel mare. Se ne vogliamo parlare, la cosa si fa lunga, perché il mare è vasto.

Riprendiamo la differenza fra la prima o la terza persona e facciamo un sacco di letture, di confronti, ma quello che dico sempre è che siamo qui per scrivere, e quindi scriviamo. Do per scontato l’importanza dei personaggi, e quando li descriviamo, nel loro aspetto fisico, di come sono vestiti, o nudi, nel loro carattere e modi di essere… a chi ci siamo ispirati, magari mettendo insieme le caratteristiche di due o più persone che conosciamo… non è forse un divertimento tutto questo? È il bello della nostra arte, la capacità che abbiamo acquisito, come uno scultore aggiungiamo e togliamo creta da quella figura che non è ancora diventata ciò che abbiamo in mente.

Per chi ama raccontare in prima persona, l’io narrante è davvero uno spettacolo sul quale e con il quale giocare. E la terza persona, il protagonista della storia? Il lettore ci chiede sempre ma sei tu quel personaggio, la storia è autobiografica? Quando descrivo quel personaggio generoso e spendaccione, mentre sanno tutti che io sono un tirchio della miseria, non sono sempre io? Dobbiamo scomodare per forza il buon Flaubert per sapere che Madame Bovary c’est moi? Qualcuno vuole rimarcare che la nostra scrittura è creativa? Senza la creazione di personaggi non c’è narrazione. Quando ci servono li inventiamo. Abbiamo già un’idea ben definita della nostra opera, c’è il personaggio principale, e poi gli altri, più o meno importanti, e quelli detti minori. Ci capita però di trovarci in una situazione di stallo, l’azione non va avanti, s’è bloccata. È in realtà la nostra fantasia che ha perso vitalità, e con essa la storia. Andava tutto così bene, e adesso? Inventiamo uno o più personaggi, ci salveranno da quella pagina arida che non ci aspettavamo di incontrare. E chissà che quel personaggio soccorrevole non acquisterà una sua autonomia e comparirà in altre pagine.

E possiamo anche averne uno solo, di personaggio, come quello che si è trovato solo al mondo e gira disperato dalla prima all’ultima pagina.


Continua il 17 febbraio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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