Di Francesco Cappellani
Nella tarda estate del 1943, a causa dei bombardamenti degli americani sempre più insistenti sulla ferrovia del Brennero, dove transitavano gran parte dei convogli militari tedeschi, ed anche su Verona, la città dove abitavamo, mio padre riuscì a trovare a Sommacampagna, un paesino a circa tredici chilometri dalla città, alcune stanze a pianterreno ed al primo piano di una grande villa, attualmente patrimonio del FAI, dove sfollare per vivere in condizioni di maggiore sicurezza. La villa era situata in un parco vastissimo dove noi ragazzi potevamo correre a perdifiato senza pericoli e controlli. Il complesso apparteneva ad una coppia di industriali milanesi senza figli che abitavano nell’ala centrale dell’edificio. In un’ala laterale erano alloggiati alcuni alti ufficiali tedeschi, mentre un solitario colonnello della Wehrmacht abitava in una camera vicina alla cameretta dove dormivo io. Questo ufficiale parlava ottimamente l’italiano in quanto credo fosse originario dell’alto Adige; d’altra parte, dopo il 1943, molti militari italiani del sud Tirolo che parlavano correntemente la lingua tedesca, erano confluiti sia nella Wehrmacht che nelle SS. Ad esempio altoatesini erano i ragazzi del battaglione SS Polizei “Bozen”, morti nell’attentato di via Rasella a Roma nel marzo del 1944. Il colonnello, un omone corpulento e pacioso, scambiava ogni tanto qualche rara parola con me (io nel 1943 avevo otto anni) e ricordo che una volta mi fece entrare nella sua camera per mostrarmi e descrivere le armi che possedeva. Troneggiava una baionetta da parata col pomolo a becco d’aquila ed il manico istoriato con un’aquila che sormontava la croce uncinata circondata da una corona d’alloro, e una pistola Luger, un oggetto stupendo per meccanica ed estetica che aveva eccitato in me, dotato di una pistola ammaccata di latta, un desiderio irrefrenabile di possesso. Non capivamo bene quali compiti avesse questo ufficiale e francamente cosa facesse tutto il giorno in quanto stava spesso chiuso per ore in camera.
Intanto la guerra proseguiva implacabilmente, a sera ascoltavamo a bassissimo volume Radio Londra e quasi ogni giorno stormi compatti delle gigantesche “fortezze volanti” (i B24 Liberator) americane oscuravano il cielo bombardando in particolare l’aeroporto militare di Villafranca distante pochi chilometri da noi. Dopo l’8 settembre 1943, a seguito dell’invasione tedesca, l’aeroporto era stato notevolmente potenziato con una pista in cemento di quasi tre chilometri con hangar e depositi di materiale militare che arrivavano vicino all’abitato di Sommacampagna.
Ci fu un intenso bombardamento alleato il 12 ottobre 1943 ed un altro, che colpì parzialmente anche Sommacampagna, il 26 agosto 1944 con la distruzione di alcuni obiettivi militari. La Luftwaffe aveva schierato nell’aeroporto sia caccia tipo Stukas che grossi bombardieri Junker; l’aeroporto venne in seguito completamente distrutto dai bombardamenti degli alleati e dai soldati tedeschi prima di fuggire verso il nord. Per me, come per gli altri ragazzini del paese, il momento magico era la fine delle incursioni annunciata dal suono cupo delle sirene; allora ci scatenavamo nei prati alla ricerca di oggetti bellici soprattutto schegge di bombe e bossoli di ogni dimensione. Ne trovavamo in grande quantità e li mercanteggiavamo con i figli di altre famiglie sfollate.
Con l’incoscienza tipica dell’infanzia, la guerra, soprattutto durante i bombardamenti notturni quando i colpi delle batterie antiaeree, i fasci di luce dei fari, i luminosissimi bengala, i lampi accecanti delle bombe e degli spezzoni incendiari, riempivano l’immenso schermo del cielo, era vissuta da noi come uno spettacolo terribile ma affascinante. Vivendo in campagna non si avvertiva una reale penuria di cibo, c’era latte in abbondanza, mancavano completamente i salumi e ogni tipo di dolciume per la carenza di zucchero e particolarmente l’adorato cioccolato. Ma nel giugno del 1944 avvenne un fatto per me memorabile per la gioia che provo ancora oggi a ricordarlo. Studiavo in casa con un mite e bravissimo professore che mi preparava per l’esame di ammissione alla quinta elementare da dare da esterno nella scuola di Verona che non avevo potuto frequentare. A metà giugno del 1944, dovendo recarmi a Verona a sostenere l’esame, mi ero alzato di buon’ora in quanto il mezzo per andare in città era costituito dalla canna della bicicletta dello stradino di Sommacampagna, un buon uomo di mezza età, che si prestava, sbuffando come una locomotiva appena la strada pianeggiante presentava anche una minima salita, ad accompagnarmi pedalando fino alla scuola e poi, ad esame concluso, a riportarmi in paese.
Il colonnello altoatesino mi vide mentre mi appollaiavo, con tanto di cartella, sulla bici dello stradino e mi chiese dove fossi diretto. A sostenere l’esame, gli risposi, e speriamo che vada tutto bene. L’omone mi fece un sorriso e mi promise, se fossi stato promosso, una scatoletta di cioccolato che loro, come ufficiali della Wehrmacht, avevano modo di reperire. Mantenne la promessa, mi regalò una scatoletta circolare di latta, che conservo ancora gelosamente, con scritto sul bordo del coperchio “Scho-ka-kola – die Stärkende Schokolade” (- il cioccolato rinforzante) e sul retro “Wehrmacht-Packung. Hildebrand – Berlin” e la composizione dettagliata dei cento grammi di prodotto che includeva caffeina e cola. Sicuramente era un cioccolato energetico ed eccitante, da… “combattimento”. Per me fu il cioccolato più buono che avessi mai mangiato in quegli ultimi due anni di guerra, solo poi con l’arrivo degli americani nella primavera del 1945, ritornò sulle nostre tavole questo “cibo degli dei”. Avvicinandosi gli alleati, nei primi mesi del 1945, improvvisamente il colonnello scomparve lasciando armi e divise nella sua cameretta. Sembra che si fosse travestito da prete, aveva un po’ il fisico e l’aria bonaria da pretone di campagna, ed avesse intrapreso una fuga verso l’Austria. Non sapemmo più nulla di lui.
Recentemente, mostrando alle mie nipotine quella scatoletta di latta ho fatto molta fatica a spiegare cosa avesse rappresentato per me in quegli anni quel po’ di cioccolato; mentre raccontavo mi accorgevo sempre più che parlavo di cose troppo diverse dal loro mondo e dalla vita di oggi, per loro era una storia lontana, remota, che non riuscivano ad immaginare vissuta da una persona ancora lì presente con loro!
Di Francesco Cappellani, che gentilmente ha chiesto di essere pubblicato sul sito dell’Associazione IL CAVEDIO
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