LA TECNICA, meglio pensare al metodo

Gli iscritti al corso di scrittura chiedono sempre la tecnica. È lo scopo per il quale si sono iscritti. Con la tecnica si pensa di risolvere tutto. Se uno vuole fare il venditore gli insegnano le tecniche della vendita, ma poi sono pochi quelli che riescono, perché il lavoro è difficile e occorrono qualità particolari. E così se uno vuole scrivere un romanzo si iscrive a un corso per imparare la tecnica. Quando una persona ha scritto un racconto si sente già scrittore. Mi è capitato anche di trovare chi non aveva ancora scritto, ma ne aveva l’intenzione, ed era uguale, parlava da scrittore. L’unica cosa di cui si sente la mancanza è la tecnica. Sinceramente, non ho mai capito che cosa intendano per tecnica. Probabilmente una bacchetta magica. Se è così, adesso l’hanno trovata, e si chiama intelligenza artificiale, ma ne parliamo più avanti. La scrittura, dall’idea alla realizzazione, è fare. Il giusto livello del fare non è sempre lo stesso. L’azione, gli stati d’animo, sono diversi, e questo mostra il limite delle tecniche, uniformi nell’esecuzione. Per questo le tecniche di scrittura sono limitate e addirittura non funzionano, non sono il riferimento. Lo è la ricerca. Piuttosto delle tecniche cerchiamo un metodo di lavoro. La tecnica è impersonale, il metodo è personale, come lo è la scrittura. Il metodo è in sintonia con lo scrivere, le tecniche no. Le tecniche ci lasciano in superficie, il metodo ci serve per andare a scoprire. Le tecniche riempiono di illusione, il metodo ce ne libera. Quello che ci serve sono la psicologia, l’introspezione, l’arte di osservare, e la capacità di saper riscrivere. In un corso di scrittura cercate le giuste indicazioni, e fatele vostre.


Continua il 9 dicembre

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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I GENERI, senza problemi

Non penso che i gialli vadano scritti in un certo modo, con determinate caratteristiche o strutture, e le storie d’amore in un altro, e quelle d’introspezione in altro ancora. Nessuno schema, al più qualche indicazione. La storia viene fuori per conto suo, con lo stile adatto e la sua struttura. Con il nostro modo di essere. Lo studio degli autori e la storia della letteratura ci importano fino a un certo punto. Un’opera piace o non piace. Non è il contenitore, ovvero il genere, ad attirarmi, ma il contenuto, ciò che sarò in grado di metterci dentro, al di là del tipo di storia.

Forse qualcuno ha preferenze. Riesce meglio in questo piuttosto che in quell’altro, i suoi interessi sono precisi. Va bene, ci mancherebbe. Anzi. L’unica cosa davvero importante è avere qualcosa che ha bisogno di venir fuori, di esplodere. Se non lo facciamo il rischio è che la scrittura, invece di essere per noi una forza, diviene un problema.

So di essere inattuale, nel momento in cui oggi i generi dominano il mercato, per cui esistono i gialli, il fantasy, l’introspettivo eccetera, ognuno per conto proprio. Leggo un po’ il tentativo, conscio o inconscio che sia, di uccidere la letteratura, che è la più vera e autentica forma di comunicazione. Scrivo perciò di quello che mi piace e, aldilà della storia di genere, la mia visione della vita, il mio io che ha trovato risposte e che è pronto a cambiare ancora.

Uno scrittore è in grado di scrivere di qualunque argomento, di qualunque genere. È la formazione che conta. Gli schemi non servono, distolgono la mente. La libertà della mente contiene l’originalità dello stile.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


Continua il 2 dicembre


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Mi chiedo quali parole userai,

con che tono me le dirai,

se avrai voglia di ascoltare,

anche le mie parole,

senza sbirciare sull’orologio,

nascondendo a malapena il tuo disagio.

Ci sarà le tele accesa,

e un film scorrerà lontano

e i miei occhi si poseranno

sui tuoi libri sul ripiano,

avrei voluto leggerne qualcuno

per avere un’altra cosa in comune

o solo così per informazione.

“Non è razionale, viviamolo senza guardare lontano

Viviamolo e lasciamo che vada,

tanto prima  o poi scolorirà.

Prendiamolo così com’è senza fare progetti

e d’altra parte che progetti vuoi avere,

così dissimili dai miei”

Avrai gli occhi duri, non ammetterai repliche,

mi dirai che era inevitabile e ti si addolciranno,

per irrigidirsi di nuovo quando ti accorgerai

che non vorrò capire, non vorrò accettare.

E mi disprezzerai per la mia cocciutaggine,

una mano di vernice non toglie la ruggine.

Mi chiedo quali parole userai

con che tono me le dirai,

e se avrai voglia di ascoltare

anche le mie parole.

di Mauro Speri

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LA STRUTTURA, una piccola cattedrale

Lo stile vale molto, la struttura altrettanto. Qualcuno l’ha già in mente fin dall’inizio, qualcun altro la costruisce procedendo. In qualsiasi caso la narrazione si arricchisce di particolari, di personaggi, di descrizioni… e tutto guarda alla struttura che sorregge il racconto. L’abbiamo sempre in mente. Come per lo stile passiamo attraverso imperfezioni. Rimedieremo, di volta in volta.

So che in tanti corsi di scrittura si esaminano le strutture di opere o il modo di portare avanti la narrazione di alcuni autori. Bene, a molti piacerebbe avere delle caselline da riempire.

Ricordatevi che non esistono strutture predefinite.  Una casa, o addirittura una piccola cattedrale, la costruiamo noi.

È il contenuto, lo sviluppo della storia a portarci in modo naturale a una certa struttura. Stile, struttura e contenuto s’intrecciano e procedono insieme.

È il metodo più efficace, non ci sono capitoli a sé stanti. Oggi vediamo lo stile, domani la struttura, e poi la grammatica e così via. Studiamo il tale scrittore, e poi i generi e il trasformarsi della lingua. No. Tutto procede di pari passo. Si parte dalla pagina bianca e si sperimenta. Non ci sono prima la teoria e lo studio e poi la pratica e la scrittura. Cerchiamo il nostro stile, la struttura più idonea, ci informiamo e ci aggiorniamo, studiamo e osserviamo, e allo stesso tempo coltiviamo l’umiltà, e il senso del distacco, e tutte quelle qualità che scopriremo in noi.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


Continua il 25 novembre


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Bau-bau, faceva sempre Storm, e Storm non era un bambino che imitava il verso del cane, Storm era un cane che voleva essere bambino e, come cane, non era poi tanto giovane, anzi ormai era più vecchio che giovane, però giocava ancora come un cucciolotto, e del bambino gli era rimasto l’animo buono, e così papà Egisto tolse dal cancello quell’avviso che diceva attenti al cane, non corrispondeva al vero, e infatti Storm non avrebbe fatto del male a nessuno, e se fossero arrivati i ladri avrebbe giocato con loro, era un tipo così, voleva solo giocare, era generoso e simpatico con tutti ma con papà Egisto aveva un rapporto speciale, e si è scoperto che papà Egisto leggeva i suoi pensieri, e questo non lo aveva rivelato a nessuno, lo ha detto solo ora, e papà Egisto non è una donnetta che vive sola e parla con il cane, lui è un professionista serio e se ha detto una cosa del genere vuol dire che davvero Storm aveva dei pensieri e lui li leggeva, e in fondo non è una cosa poi tanto assurda, è certo infatti che gli scienziati di energia vitale e di amore non hanno mai capito tanto, e anche se non vogliono ammetterlo, semplicemente non è la loro materia… e a Storm, come a ogni cane lupo, piaceva correre nel vento, ma del vento aveva anche paura, e questo era molto strano per un cane, e non però per un bambino, e quando c’era vento scappava via, e un giorno che papà Egisto andava con la famiglia in città vide un’automobile con il portellone aperto e un cane lupo che ci stava salendo, e disse… guardate, quello sembra Storm… è vero, dissero tutti, ma si corressero subito… ma quello non sembra, quello… è Storm! E lo riportarono a casa, e scene di questo tipo accaddero in continuazione, una volta lo ritrovarono che correva sull’autostrada, un’altra volta era scappato nel bosco, fino all’ultima, quando se ne è andato col vento, come aveva sempre detto di fare. Ciao, Storm, ciao eterno bambino.

di FMK, foto di Leonardo Pigoli

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Di Francesco Cappellani

Nella tarda estate del 1943, a causa dei bombardamenti degli americani sempre più insistenti sulla ferrovia del Brennero, dove transitavano gran parte dei convogli militari tedeschi, ed anche su Verona, la città dove abitavamo, mio padre riuscì a trovare a Sommacampagna, un paesino a circa tredici chilometri dalla città, alcune stanze a pianterreno ed al primo piano di una grande villa, attualmente patrimonio del FAI, dove sfollare per vivere in condizioni di maggiore sicurezza. La villa era situata in un parco vastissimo dove noi ragazzi potevamo correre a perdifiato senza pericoli e controlli. Il complesso apparteneva ad una coppia di industriali milanesi senza figli che abitavano nell’ala centrale dell’edificio. In un’ala laterale erano alloggiati alcuni alti ufficiali tedeschi, mentre un solitario colonnello della Wehrmacht abitava in una camera vicina alla cameretta dove dormivo io. Questo ufficiale parlava ottimamente l’italiano in quanto credo fosse originario dell’alto Adige; d’altra parte, dopo il 1943, molti militari italiani del sud Tirolo che parlavano correntemente la lingua tedesca, erano confluiti sia nella Wehrmacht che nelle SS. Ad esempio altoatesini erano i ragazzi del battaglione SS Polizei “Bozen”, morti nell’attentato di via Rasella a Roma nel marzo del 1944. Il colonnello, un omone corpulento e pacioso, scambiava ogni tanto qualche rara parola con me (io nel 1943 avevo otto anni) e ricordo che una volta mi fece entrare nella sua camera per mostrarmi e descrivere le armi che possedeva. Troneggiava una baionetta da parata col pomolo a becco d’aquila ed il manico istoriato con un’aquila che sormontava la croce uncinata circondata da una corona d’alloro, e una pistola Luger, un oggetto stupendo per meccanica ed estetica che aveva eccitato in me, dotato di una pistola ammaccata di latta, un desiderio irrefrenabile di possesso. Non capivamo bene quali compiti avesse questo ufficiale e francamente cosa facesse tutto il giorno in quanto stava spesso chiuso per ore in camera.

Intanto la guerra proseguiva implacabilmente, a sera ascoltavamo a bassissimo volume Radio Londra e quasi ogni giorno stormi compatti delle gigantesche “fortezze volanti” (i B24 Liberator) americane oscuravano il cielo bombardando in particolare l’aeroporto militare di Villafranca distante pochi chilometri da noi. Dopo l’8 settembre 1943, a seguito dell’invasione tedesca, l’aeroporto era stato notevolmente potenziato con una pista in cemento di quasi tre chilometri con hangar e depositi di materiale militare che arrivavano vicino all’abitato di Sommacampagna.

Ci fu un intenso bombardamento alleato il 12 ottobre 1943 ed un altro, che colpì parzialmente anche Sommacampagna, il 26 agosto 1944 con la distruzione di alcuni obiettivi militari. La Luftwaffe aveva schierato nell’aeroporto sia caccia tipo Stukas che grossi bombardieri Junker; l’aeroporto venne in seguito completamente distrutto dai bombardamenti degli alleati e dai soldati tedeschi prima di fuggire verso il nord. Per me, come per gli altri ragazzini del paese, il momento magico era la fine delle incursioni annunciata dal suono cupo delle sirene; allora ci scatenavamo nei prati alla ricerca di oggetti bellici soprattutto schegge di bombe e bossoli di ogni dimensione. Ne trovavamo in grande quantità e li mercanteggiavamo con i figli di altre famiglie sfollate.

Con l’incoscienza tipica dell’infanzia, la guerra, soprattutto durante i bombardamenti notturni quando i colpi delle batterie antiaeree, i fasci di luce dei fari, i luminosissimi bengala, i lampi accecanti delle bombe e degli spezzoni incendiari, riempivano l’immenso schermo del cielo, era vissuta da noi come uno spettacolo terribile ma affascinante. Vivendo in campagna non si avvertiva una reale penuria di cibo, c’era latte in abbondanza, mancavano completamente i salumi e ogni tipo di dolciume per la carenza di zucchero e particolarmente l’adorato cioccolato. Ma nel giugno del 1944 avvenne un fatto per me memorabile per la gioia che provo ancora oggi a ricordarlo. Studiavo in casa con un mite e bravissimo professore che mi preparava per l’esame di ammissione alla quinta elementare da dare da esterno nella scuola di Verona che non avevo potuto frequentare. A metà giugno del 1944, dovendo recarmi a Verona a sostenere l’esame, mi ero alzato di buon’ora in quanto il mezzo per andare in città era costituito dalla canna della bicicletta dello stradino di Sommacampagna, un buon uomo di mezza età, che si prestava, sbuffando come una locomotiva appena la strada pianeggiante presentava anche una minima salita, ad accompagnarmi pedalando fino alla scuola e poi, ad esame concluso, a riportarmi in paese.

Il colonnello altoatesino mi vide mentre mi appollaiavo, con tanto di cartella, sulla bici dello stradino e mi chiese dove fossi diretto. A sostenere l’esame, gli risposi, e speriamo che vada tutto bene. L’omone mi fece un sorriso e mi promise, se fossi stato promosso, una scatoletta di cioccolato che loro, come ufficiali della Wehrmacht, avevano modo di reperire. Mantenne la promessa, mi regalò una scatoletta circolare di latta, che conservo ancora gelosamente, con scritto sul bordo del coperchio “Scho-ka-kola – die Stärkende Schokolade” (- il cioccolato rinforzante) e sul retro “Wehrmacht-Packung. Hildebrand – Berlin” e la composizione dettagliata dei cento grammi di prodotto che includeva caffeina e cola. Sicuramente era un cioccolato energetico ed eccitante, da… “combattimento”. Per me fu il cioccolato più buono che avessi mai mangiato in quegli ultimi due anni di guerra, solo poi con l’arrivo degli americani nella primavera del 1945, ritornò sulle nostre tavole questo “cibo degli dei”. Avvicinandosi gli alleati, nei primi mesi del 1945, improvvisamente il colonnello scomparve lasciando armi e divise nella sua cameretta. Sembra che si fosse travestito da prete, aveva un po’ il fisico e l’aria bonaria da pretone di campagna, ed avesse intrapreso una fuga verso l’Austria. Non sapemmo più nulla di lui.

Recentemente, mostrando alle mie nipotine quella scatoletta di latta ho fatto molta fatica a spiegare cosa avesse rappresentato per me in quegli anni quel po’ di cioccolato; mentre raccontavo mi accorgevo sempre più che parlavo di cose troppo diverse dal loro mondo e dalla vita di oggi, per loro era una storia lontana, remota, che non riuscivano ad immaginare vissuta da una persona ancora lì presente con loro!

Di Francesco Cappellani, che gentilmente ha chiesto di essere pubblicato sul sito dell’Associazione IL CAVEDIO


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GLI STILI, ne basterebbe uno

Ogni stile è personale e ognuno lo ricerca e lo costruisce a modo suo, su sé stesso, così come si confeziona un abito su misura.

Noi siamo lo stile. È il nostro carattere, e l’anima.

Non vi è niente di stabilito, nemmeno la grammatica. La conosciamo, ma il nostro stile potrebbe essere anche sgrammaticato, purché comunichi in modo efficace, si faccia intendere, e nel racconto susciti emozioni e interessi.

Grandi autori si sono espressi con linguaggi e stili poco ortodossi, vedi Celine. Forse per niente ortodossi. Leggendoli a nessuno verrebbe in mente di correggerli, anzi ci vien voglia di scrivere come loro.

Cancelliamo ogni classificazione e scriviamo. Scriviamo e basta. Come ci va. La cosa peggiore è essere condizionati e, nel caso di un insegnamento, condizionare. Il peggior insegnante è quello che impone come esempio il proprio modo di scrivere. Ognuno ha strutture mentali proprie. Partiamo da qui. Poi si vedrà.

A volte mi capita di trovare qualche giovane che afferma di aver usato un determinato stile per scrivere un racconto, di aver poi cambiato per un altro racconto. Caspita, che bravo! Direi che sarebbe meglio lavorare con umiltà fin dall’inizio. Solo quando avremo acquisito sicurezza attraverso un lavoro d’impegno costante, solo quando avremo capito chi siamo, capiremo come sono fatti gli altri. E, per quel che qui ci riguarda, la costruzione e l’uso di stili diversi.

 A questo punto metteremo l’abito che vogliamo, senza dare spiegazioni a nessuno. Nel pomeriggio i jeans, e alla sera lo smoking.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


Continua il 18 novembre


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Cerchiamo il modo, e non abbiamo tempo,

abbandonandoci nell’auto-commiserazione,

per dare un nuovo volto

alla nostra vita priva di soddisfazione.

Cerchiamo il mezzo, ma non abbiamo idea

scostando le tende per vedere nel futuro

per trovare una nuova via

nel nostro cammino insicuro.

Cerchiamo il fine e non abbiamo scelta

spegnendo le candeline ad una ad una

per ritrovare il sorriso di una volta

dopo la tristezza che chiamiamo sfortuna.

Cerchiamo il senso ma non abbiamo voglia

masticando amaro a ogni risveglio

dell’odio che brucia come sterpaglia

che non sappiamo di che è padre e di chi è figlio.

Cerchiamo il vero ma non abbiamo sete

erigendo pareti di pietra grezza

per comprendere le azioni errate

compiute in leggerezza.

Cerchiamo il mistero, ma non abbiamo fede

scomparendo come ombre nel buio

e della tristezza prede

e di noi che non abbiamo pelle ma cuoio.

Cerchiamo il tempo ma non abbiamo più ore

rotolando da un giorno all’altro

per avere ancora un’altra occasione

ora che abbiamo capito, ora che sono pronto.

di Osvaldo Urso

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Lo stile è ciò che definisce uno scrittore e gli permette di esprimere nel modo più efficace un’idea, e di comunicare. Uno stile debole comunica incertezza e superficialità. Pensavamo di avere una grande storia da raccontare e ci è mancato il modo. Quante buone e meravigliose idee non sono state espresse a dovere, o sono rimaste nelle intenzioni.

Abbiamo appreso la riscrittura e con essa intrapreso la ricerca di uno stile personale, abbiamo sperimentato e conosciuto il distacco, per quello che è, nella forza che dà al nostro lavoro. Siamo entrati nel significato dello scrivere, maturato un modo di procedere, una nuova visione della nostra arte, e con essa una nuova visione della vita, più ampia. Non siamo più quelli di prima, e la sensazione è che non sappiamo dove arriveremo.

Volevamo solo mettere a posto il nostro racconto e abbiamo mosso montagne, aperto spiragli. Lo stile riflette il carattere. È il nostro modo di essere, di affrontare i problemi. Ognuno ha il suo, di carattere, e ognuno cerca di migliorare, di controllare le situazioni, di essere equilibrato, di realizzare sogni e desideri. Ognuno a modo suo, perché ognuno è diverso. Volete studiare gli stili? Bene, ma non dimenticate chi siete.

Lo stile non è tecnica fredda, nasce per necessità da un’emozione incontenibile e vuole esprimerla. È importante, fondamentale, ma da solo non esiste, sarebbe un pezzo di ghiaccio. Ciò che conta davvero è l’esperienza, l’azione vissuta sulla pagina bianca che, con umiltà, tentiamo di rendere nobile. Lo stile è la luce che guida i nostri passi incerti, e dà loro sicurezza.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


Continua 11 novembre


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