Giacca di pelle con la decalcomania di un teschio infuocato sulla schiena, stivali da pioggia, e il cappello degli Yankees messo a rovescio, tutto largo e tutto rigorosamente pesato. Franco, il ragazzino problematico degli Stagi, così dicevano i vicini, inforcò la bici Saltafoss, sellino lungo, ammortizzatori anteriori e posteriori e si diresse verso la montagnola di terra formatasi durante i lavori di costruzione del quartiere Gavi: sei palazzine di otto piani senza ascensore. Per gli altri bambini era Pesolordo, un modo per prenderlo in giro due volte, per la sua corporatura, sessanta chili concentrati in un metro e quaranta di altezza, e per l’ossessione per la matematica. Fosse nato un paio di lustri più tardi gli avrebbero diagnosticato l’autismo, ma nel 1978 chi manifestava quel tipo di problemi era, per sempre, un minorato mentale. Aveva calcolato distanze, pendenze e la variabile gravità, per questo aveva preso in prestito i vestiti di suo zio Gianni, un ventottenne scapestrato, e li aveva pesati sulla bilancia in cucina e in quella del bagno. In una gara in discesa la massa era essenziale. Per toccare la velocità prestabilita doveva raggiungere gli 81 chili, non uno di meno non uno di più. Per questo alla fine collocò sopra il manubrio un mangianastri con inserita una cassetta dei Pooh, il suo gruppo preferito. La salita fu faticosa, scese dalla bici diverse volte per spingerla a piedi, qualcuno dal basso rideva di lui, Franco non se ne curò, aveva un unico obbiettivo in testa. Giunto in cima si asciugò il sudore con il panno che teneva sotto il sellino. Rifece a mente i calcoli e i computi, le formule gli balenavano davanti agli occhi chiare come farfalle in una sera d’estate. Iniziò la discesa. Percorse il pendio per una ventina di metri con una pendenza di 14 gradi, poi una leggera curva a sinistra con un inclinazione minore e di nuovo a destra per gli ultimi 37 metri, ogni tratto era stato misurato con il righello di scuola. Doveva ricordarsi di chinare di più la Saltafoss nella svolta a destra e percorrerla un po’ più stretta del normale così da arrivare alla meta a una velocità di 45 chilometri orari. Tra scossoni e vibrazioni metalliche stava comunque procedendo bene, finché il berretto non calò sugli occhi oscurandoli per una frazione di secondo, tempo sufficiente a cambiare traiettoria. Con la musica a tutto volume e pochi e distratti spettatori, andò a sbattere contro il masso che, se non avesse avuto inconvenienti, sarebbe rimasto pacifico un paio di metri alla sua sinistra. E con un effetto catapulta, annotò mentalmente Franco, volò in alto nel cielo. I presenti diranno poi di avere sentito un urlo di terrore. Ma in quei pochi secondi Pesolordo calcolò la velocità di caduta: 68 chilometri all’ora. Il suo, in realtà, fu un grido di giubilo.

Racconto di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Daniela Landini (instagram: dani_illustra)

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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RACCONTO DI GUERRA AL QUOTIDIANO

Di Pierre Ley

La guerra, o meglio le guerre, costituiscono per noi oramai un consueto sottofondo nel flusso quotidiano dell’informazione globalizzata, quasi fosse un’interferenza fisiologica alla quale ci siamo in qualche modo assuefatti. Per alcuni di noi, però, la guerra è molto più presente: è entrata nelle nostre vite con prepotenza e con tutto il suo corredo di paura e indicibile orrore. Tutti siamo rimasti scioccati dall’inimmaginabile mostruosità dell’attacco del 7 ottobre scorso e dall’inevitabile, spietata ritorsione. E tutti continuiamo a soffrire per le vittime che aumentano di giorno in giorno.

È proprio questa guerra, così orrenda e mediatica, ad essere ora parte anche della mia vita. Lo è, per così dire, per procura: mio fratello, chirurgo ortopedico da sempre impegnato sul fronte umanitario prima a fianco di Gino Strada poi sotto la bandiera del Comitato Internazionale della Croce Rossa, si trova attualmente all’interno della striscia di Gaza. Dal 27 ottobre, giorno in cui è entrato con l’unica équipe medica internazionale arrivata dopo l’inizio del conflitto, la guerra, quella guerra, è diventata una presenza costante anche nella mia quotidianità.

Non è certo la sua prima volta: dall’Afghanistan, alla Sierra Leone, alla Cambogia, all’Etiopia, la lista dei conflitti di cui è stato testimone attivo è lunga, ma mai come oggi aveva visto una tale intensità di fuoco e una tale quantità di morti, feriti e mutilati in così poco tempo e su un territorio così ridotto. Siamo al telefono, come quasi tutti giorni, quando c’è rete. “Li senti? Sono i razzi che stanno lanciando da qui vicino all’ospedale. Tra poco arriverà la replica israeliana, speriamo non ci capiti in testa, anche se ‘loro’ sanno esattamente dove ci troviamo, e la zona di sicurezza è di 150 metri. Capirai. Se cade uno di quei cosi anche a un chilometro qui saltano i vetri! Poco fa è arrivata una di quelle bombe di profondità. Si è sollevato il pavimento della sala operatoria!”. Mio fratello mi racconta così la guerra vera, e la sento come se mi stesse chiamando dal giardino di casa. In sottofondo sento anche i lamenti dei pazienti lasciati senza sedativi o analgesici, perché non ce n’è, e tutti i suoni di un ospedale allo stremo, stipato all’inverosimile.

Quando non è in guerra, siamo soliti scambiarci ricette e foto. Ha voluto farlo anche ora. Da Gaza qualche scatoletta, e le razioni umanitarie che accendono una discussione tra di noi. Vedo sull’etichetta “spaghetti alla bolognese”. “Non esistono gli spaghetti alla bolognese! È un affronto alla tradizione italiana!”, sbotto. Lui ride, “non sono così male. Che dici, vado a lamentarmi?”. Un altro giorno mi manda foto di frutta e verdura fresca appena arrivata dal valico di Rafah. Mi chiama: “mi dici la ricetta della ratatouille di mamma?”. Così inizio a spiegargliela, fornendo anche tutte le circostanze storiche, le similitudini con altri piatti del mediterraneo e di come si preparano. Ne salta fuori una versione fusion, mezza caponata siciliana e mezza ratatouille nizzarda, che battezziamo “ratatouille gazaoui”. Dall’inizio della missione ha perso peso. “L’unica cosa positiva finora” mi dice. Mi manda ogni giorno foto degli interventi, dei suoi casi. Sono abituato, ma sono inguardabili. Queste immagini non si vedranno mai né in televisione né sui giornali, non sono pubblicabili. Ma a qualcuno deve mostrare ciò che vede tutti i giorni, non può tenerselo dentro. Io non ci dormo, ma questa è la guerra, e per qualche momento durante il giorno, anche la mia guerra.

Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)


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Di Fabrizio Tummolillo

Quando voglio parlare con mia figlia vengo qui, alla panchina sotto quest’albero. Mi siedo e attendo che si alzi un po’ di vento. È necessario che si muova l’aria ma basta anche la brezza della sera.So no le foglie a formulare le parole ma è l’aria a portarmele. Credo funzioni in questo modo.

Non è un albero qualsiasi. È un acero di monte. Non lo sapevo, me l’ha detto il mio amico Remo.

Al vivaista avevo chiesto un albero qualunque purché avesse cinque anni d’età. Non sembrava capire la richiesta. Ha fatto storie poi me ne ha mostrato uno. “Questo è nato da seme cinque anni fa”. “Lo compro”.

“Il nome scientifico è “Acer pseudoplatanus” mi ha spiegato Remo. Lui se ne intende. “Trascorrerai le giornate alla sua ombra, fra qualche anno” ha aggiunto. Poi mi ha dato una pacca leggera sulla spalla, come un incoraggiamento. Siamo andati a piantarlo in un campo in fondo alla sua proprietà in collina. Le prime volte passavo da casa ad avvisarlo che venivo da mia figlia. Mi ha detto di non preoccuparmi, di non stare a dirglielo ogni volta.

Tempo dopo ha messo la panchina. È sempre stato un amico. Mia figlia aveva cinque anni. Per questo ho insistito con il vivaista: era nata lo stesso anno dell’albero che volevo comprare.

Le sue ceneri le ho poggiate nella buca, vicino alle radici. Ho ricoperto di terra e Remo ha dato l’acqua.

Basta una brezza leggera e riesco a sentirla. Stasera le sto chiedendo scusa per quella volta che l’ho sgridata fino a farla piangere. Aveva sbriciolato il sigaro lasciato sulla scrivania per dopo cena. “Non pensarci, papà. Non avere rimorsi. Eri stanco, avevi lavorato tutto il giorno”.

Sono passati quindici anni da quando ho piantato l’acero. In questo tempo la sua voce è diventata quella di un’adolescente poi di ragazza poi di una giovane donna.

“Non preoccuparti. Davvero. Ti voglio bene, papà”. “Anch’io”. Oggi con le sue parole il vento ha portato un seme. Sembrava una piccola elica, è sceso ruotando su se stesso. “È la samara, il frutto dell’acero di monte – ha detto Remo quando gliel’ho mostrato -. Ognuna contiene due semi. La forma permette al vento di portarle lontane”.

Invece a me era scesa nel palmo della mano e questo mi ha fatto impressione perché se l’avessi piantata in un vaso e poi in terra come ha consigliato Remo, se me ne fossi preso cura, sarebbe nato un nuovo acero e tutto questo sembrava avere senso compiuto, come un cerchio che si chiude, per farmi fare pace con il padre che non sono riuscito a essere, per lasciare fluire le cose. Con leggerezza, come l’abbraccio dato a quell’albero prima di andarmene sentendoci dentro il respiro di mia figlia.

Fabrizio Tummolillo è nato nel 1970 a Milano. Vive nel Piacentino con moglie e figli. Lavora come educatore ed è giornalista professionista anche se ormai l’unico editore che ne pubblica gli articoli è il prete del paese sul bollettino parrocchiale.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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I PUNTI DI INTERPUNZIONE, come usarli

Non ho mai capito il doppio uso della grammatica che fanno in molti. Da una parte un mostro sacro: lo dice la grammatica! Dall’altra la negazione di principi e suggerimenti.

Vorrei affrontare questo tema, in una paginetta, pur sapendo che ci potrei scrivere un libro, e allora scelgo un solo capitolo per accennare all’argomento, ed è quello della punteggiatura e dei punti d’interpunzione.

Tutto è risolto dalla grammatica stessa, che si esprime in modo molto chiaro: non vi sono regole nella punteggiatura.

L’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce, quello di Penelope, settanta pagine senza un segno di punteggiatura, fu scritto nel 1922, cent’anni fa. Ciononostante ci sono ancora professoroni, che oggi hanno trovato in internet il terreno a loro più adatto, che disquisiscono su ogni singola virgola.

La cosa però più deprimente è quando costoro, di norma analfabeti in materia, si spendono in messaggi di marketing per richiamare l’attenzione di altrettanti analfabeti, con lo scopo, a volte addirittura dichiarato, di essere i depositari di sacri riferimenti, gli unici a garantire l’editing che trasformerà i suddetti in scrittori di successo.

Un elemento della formazione di questi autentici venditori di fumo è di conquistare innanzitutto la fiducia della vittima. Tanti libri e tanti film ne hanno parlato. Cito La casa dei giochi di David Mamet con Joe Mantegna (1987), che affronta in modo diretto l’importanza di acquisire fiducia da parte della vittima designata.

Il capitolo che più si presta è quello dei segni di interpunzione nei discorsi diretti. I professoroni fanno copia e incolla da una qualsiasi grammatica e mettono in guardia i neofiti aspiranti scrittori che guai, se si usano i caporali, guai a mettere il punto finale all’interno, va fuori! Per chi usa il trattino, guai a…  Ne ho letto uno che diceva: questa informazione ve l’abbiamo data gratis, se ne volete altre sono a pagamento.

La grammatica è una guida, un’indicazione indispensabile, ma non è legge scritta su pietra. Tanto è vero che le regole cambiano secondo l’uso corrente.

Le case editrici, di norma, nei discorsi diretti impongono le proprie scelte, per cui i caporali, le virgolette o i trattini che vi trovate sono per tutti uguali.

Nella nostra piccola casa editrice lasciamo invece libertà all’autore, perché ci sembra giusto rispettare le sue preferenze, al quale magari i caporali non vanno giù e si sente a proprio agio con le virgolette o i trattini. È ovvio che se Mondadori fosse interessato a una mia pubblicazione e mi chiedesse i caporali, io userei i caporali. Ragazzi! Non sono questi i problemi della scrittura. Dopo il punto esclamativo di “Ragazzi !” ci va la virgola? Non sono questi i problemi. La grammatica, ve lo assicuro, non si offende. Anzi, da quella grande madre che è, ama i figli che prendono iniziative e vanno ad abitare da soli.

Vi porto la mia esperienza. Per i discorsi diretti fra virgolette, trattino e caporali io ho scelto il trattino. So bene che la grammatica indica il trattino lungo, per distinguerlo da quello breve che ha significato di unione e non ha relazione con il dialogo, ma a me piace di più quello breve. Alla fine, dovete ammetterlo, non si confondono, così come la grammatica dice di non accentare il do verbo perché nel contesto non può essere scambiato con la nota do.

Sento già il raglio provenire dai social specializzati, che campano sulle inezie.

Alessandra dice che i simboli vanno rispettati. Beh, a questo punto, se riuscirò a capire come si fa sulla tastiera, adotterò il trattino lungo.

continua l’11 maggio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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Come giunsi fin qui, al limite del tempo e dello spazio, come mi piegai a questa mera condizione di reietto a me stesso, sotto quali perduranti incertezze il mio animo affogò nell’odio? Nemmeno ora, dopo innumerevoli ere, lo so.
Io che ero parte di una schiera scelsi l’orda, io che amavo e lodavo odiai e svilii, io che osannavo e glorificavo denigrai e ingiuriai, non volevo cadere nell’errore eppure vi caddi. Oh, potessi trasformarmi in pietra, silente, immota, oppure congelare come il ghiaccio che mi circonda, avessi il potere di bruciare come sterpaglia le mie maledette spoglie, osassi contrastare l’ipocrita battito del cuore.
Salgo, continuo a salire. Mi arrampico su pareti gelide, il corpo scivola, ma ho ancora la forza, la volontà. Il forte vento, unico compagno di viaggio, dopo aver sferzato le mie membra sta calando. Affronto un altro sperone di roccia, lo supero e mi ritrovo su una piana gravida di profonde fenditure. E per la prima volta dall’inizio della fuga vedo l’orizzonte. Non so se provare rabbia o disperazione, io che anelavo rivedere la vera Luce ora ho davanti agli occhi solo grigia desolazione, un futuro desertico, pallido e indifferente al mio disincanto. Ed è allora che grido. E le mie urla percorrono la vuota pianura, sorvolano le spaccature, penetrano l’aria immobile, indugiano sulle pietre e infine muoiono. Vorrei essere un grido. Riprendo il cammino. Non uno stridio, non un mormorio, solo il mio respiro. Ad ogni passo alzo polvere brunita e, come avesse coscienza propria, si sposta per evitare ogni contatto con il mio essere. Non mi stupisce e non la biasimo per questo. Sono ciò che sono.
Odo un lontano rumore, proseguo veloce, la terra scura tradisce terrore e si ritrae con più celerità. Il suono, che in precedenza era poco più che ovattato, come il verso di una creatura rinchiusa nel guscio, ora è più forte, frastorna i miei sensi, quasi mi stordisce. Sale dalle profondità. Sono sull’orlo di un cratere immenso. Mi siedo sul ciglio. Mi chiedo se il Creatore osserva con uno dei Suoi innumerevoli occhi, mi chiedo se sa che mi trovo qui. Mi chiedo… Piango. Lacrime torbide rigano il mio volto. Ed ecco, la disperazione ha il sopravvento. Mi lascio cadere. Precipito, e ogni pensiero mi abbandona e allo stesso modo vorrei mi lasciasse la miserevole vita che posseggo.
Una luce. Maestosa, si intensifica come se venisse verso me, ma sono io che le vado incontro. Cado verso di lei.
Chissà perché sorrido, e il sorriso mi si allarga, diventa suono. Rido, grido, e le due cose insieme, e attraverso la luce. È tutta intorno, mi avvolge, non è calda, non è fredda, mi ristora, dona qualcosa e qualcosa mi toglie e, immerso nello splendore del perdono, ne bevo l’amore.

di Gian Paolo Zoni

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Non sono quelli del bar

Ho visto libri potenzialmente belli cadere in malo modo sui dialoghi, rovinarsi con un niente. Fin tanto che l’autore era sui personaggi e sugli ambienti tutta una meraviglia. Poi i dialoghi, ahimè! La scrittura non è il parlato. Parliamo in un modo e scriviamo in un altro. Questo vale per tutti, anche per quegli autori che nella loro ricerca di stile, nel loro modo di esprimersi, tendono a unificare il parlato e lo scritto.

Figuriamoci per gli altri. Di nuovo vi invito a rileggere i vostri autori preferiti, giusto per fare un confronto.

Troverete chi usa dialoghi forbiti, e chi teatrali. Qualcuno i botta e risposta da bar, sì, ho detto da bar, solo che lo fa con una maestria tale che s’inseriscono nel contesto generale del racconto e soprattutto aderiscono al personaggio, esaltandolo.

Da dove arriva questa maestria?  Come in tutte le pagine di questo libro non troverete l’elenco delle soluzioni. Per un semplice motivo: perché non esistono. C’è una sola soluzione, ed è la vostra. La vostra sperimentazione. Resta il consiglio di avere molta cura dei dialoghi.

Chissà perché vengono sottovalutati. Sembra che servano per riempire più facilmente le pagine. Se li usate bene, dopo qualche pagina, il lettore capirà quale personaggio sta parlando perché quelle espressioni sono una sua caratteristica.

Vi dico una cosa. Non è facile scriverli bene, se il nostro scopo è davvero quello di scrivere bene e non solo di riempire le pagine. E poi non sono indispensabili, anzi, tutt’altro. Fior di capolavori non li contemplano, o li usano pochissimo. Altri, a onor del vero, hanno storie che si basano sui dialoghi. Preferisco i primi, le pagine dense di azioni e di descrizioni, con un uso molto moderato dei discorsi diretti, se non completamente assente. Ognuno ha i suoi gusti. Ognuno ha un carattere, una personalità, che si esprimono in modo diverso.


continua il 2 marzo

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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Il mio ragazzo non è un bianco, e nemmeno un nero o un giallo, lui non è nato in Europa, in Africa o in Giappone, e veramente non so neppure dove è nato e di che paese è, ma lui è verde, e non è, lo dico subito, un marziano o un extraterrestre, almeno non sembra, ha i sentimenti, le paure, le emozioni di tutti noi, e se mi sentisse dire queste cose si arrabbierebbe molto perché lui è convinto di essere diverso da tutti gli altri, e in un certo senso lo è, altrimenti non sarebbe il mio ragazzo… ha i capelli verdi ed è sempre alterato, ha gli occhi verdi e vede tutto verde, e ha anche la pelle verde perché è ancora acerbo, non è maturo, e se mi sentisse dire queste cose si arrabbierebbe molto perché lui è convinto di sapere tutto della vita, e vive fuori del mondo, rintanato nella sua cameretta e studia, si alza un’ora prima e va a dormire un’ora dopo, salvo appisolarsi sui libri, è un appassionato di astrologia, o per lo meno adesso è questo il suo interesse, è in continua evoluzione, e anche la sua stanza è verde e riflette il carattere, quel carattere che forse io sola al mondo sopporto, e c’è qualcuno che mi dice come fai a tollerarlo, e l’amore è sempre una cosa difficile da capire e da comunicare, e io rispondo che lo amo per quello che è, e non vorrei che cambiasse per fare piacere agli altri, però una cosa ve la voglio dire, e non per giustificare me stessa e farvi cambiare opinione nei miei confronti ma per confidare che cos’è, secondo me, l’amore…il mio ragazzo non ha i capelli verdi, né la pelle, e nemmeno gli occhi, e la sua stanza in realtà è bianca, ma quello che vede la gente è solo il riflesso della sua immagine, lui è così, mostra un colore, e io lo amo, amo lui e il suo colore, e so che un giorno verranno fuori tutti gli altri, una miriade di colori, i colori che non vi potete immaginare, sarà un’esplosione, e non un miracolo. Sono i colori che io già vedo, e questo per me è l’amore.

di Anna Bentivoglio, illustrazione di Renato Pegoraro

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L’INCIPIT, chi bene inizia

Nella vetrina della prima sede del Cavedio invia Cavallotti, nel centro storico di Varese, dal 2000 e per diversi anni, esponemmo racconti brevi, anzi brevissimi. Massimo 2600 battute spazi compresi. L’ipotetico lettore al quale ci rivolgevamo era un passante al quale potevamo chiedere solo pochi minuti di attenzione. Fondamentale l’incipit. Se le prime due righe non erano più che accattivanti perdevamo un cliente, che per sua natura non ha tempo da perdere.

Una situazione stimolante. Da noi pretendeva il meglio.

Mi ricordo un amico giornalista che aveva la fissa dell’attacco, e ricordo il suo cestino pieno di fogli accartocciati (a quei tempi si scriveva con la macchina per scrivere), ma ricordo anche i suoi articoli, che iniziavano sempre in modo originale.

Se questo è l’impegno di ogni bravo giornalista, per uno scrittore un buon inizio è ancora più importante. Per un racconto, dove l’attacco è risolto in poco spazio, ma anche per un romanzo. Il fatto che poi ci saranno centinaia di pagine da leggere non giustifica uno scarso impegno nella prima.

Quando sento qualche lettore che parla di libri che incominciano a essere interessanti dopo venti pagine sto male, e mi chiedo come abbia l’autore potuto pubblicare, se non come raccomandato. Non capisco neppure il lettore che si sente in obbligo di continuare a leggere. Forse lo fa per giustificare il costo del libro.

Penso che il tempo in questa vita a mia disposizione non sia tanto, di sicuro non mi va di sprecarlo, e così cambio lettura. L’incipit, di racconto o di romanzo che sia, è il suo biglietto da visita. Suggerimenti? Vi direi di riprendere in mano i libri che avete letto e di rileggere la prima pagina.

Ci sono autori che da subito ammaliano e fanno intendere che cosa ci attende. Un canto di sirena che ci chiama, per vivere un’avventura.

Personalmente non amo gli incipit con il discorso diretto, anche se vi sarebbero ottimi esempi pure in questo senso. In genere li trovo deboli, mi sembra che l’autore abbia fretta di far parlare i suoi personaggi. Mi è capitato a volte, in questi casi, di dare il suggerimento di attaccare con una breve descrizione sul personaggio o sull’ambiente, e poi, subito dopo, introdurre il discorso diretto. Quasi sempre il risultato è stato buono. Mettiamo a confronto il primo incipit con la seconda versione, nella quale abbiamo fatto precedere le parole di un personaggio da una breve descrizione, e poi decidiamo quale sia più efficace.


Continua il 3 febbraio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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Chi si ferma è perduto! gridano i tenenti. Chi si ferma è perduto! ripetono i sergenti.
Cammino un giorno intero. Sono stanco, ho fame, ho sonno. Fiume ghiacciato. Terreno ghiacciato. Nevica, e la neve si accumula. Un passo dopo l’altro, e con la neve fresca il passo è più pesante. Ho fame. Ho sonno. Voglia di buttarmi in questa morbidezza, e dormire. Per sempre. Addio, mondo fasullo. Mi hai ingannato, e io c’ho creduto. Ho creduto all’amore. È finita, prima di cominciare. Papà, mamma, fratelli, sorelle. Amici. Mi ricorderete. Quella volta in cui. Olga, in un solo giorno ti ho dimenticata. Non sono più un uomo. Cammino e cammino. Ti prometto, però. L’ultima immagine sarai tu. L’amore. Cammino e cammino, cammino. Laggiù una luce, un’isba. Devo arrivarci. Devo. Salvo la vita. Non è la mia terra. Ho lasciato a casa l’amore perché avevo un dovere da compiere. Adesso l’ho compiuto, ci sono passato dentro, al dovere. Ne sono uscito. Sono un uomo libero. Libero. Voglio solo amare.
Cammino cammino cammino. Chi si ferma è perduto. I russi attaccano, sparano. Oggi c’è il sole. Pallido, ha una faccia da funerale. Il nostro. È lì per vedere, per farci le condoglianze. E le pernacchie. Ride di noi, stupidi animali. Incontro alpini che hanno camminato avanti e adesso si sono afflosciati. Feriti, induriti dal freddo.
Uno è steso, rannicchiato. Un modo originale per trapassare. Un feto nella placenta. È già morto, e prega ancora. La morte ama tutti.
Un altro è in croce. Gli è venuto spontaneo stendersi come un Gesù Cristo. Non c’è Maddalena, non ci sono le pie donne, e chi passa capisce. La morte ama tutti.
Un alpino si è inginocchiato, e così è rimasto. Figurante di un presepe. Ma qui è il calvario. Dentro tutta la vita, da Betlemme alle Tre croci. La morte ama tutti.
Vedo il poeta Bernasconi Alvaro seduto nella neve. Alvaro, Alvaro. Non ce l’ha fatta. Gli è bastata una notte di gelo. C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico. La morte ama tutti.
Io no, resisto, e cammino. Vivo il doppio, come quel giorno che mi alzai con Olga nella mente. Io sono quello che morirà, e guardo i morti che camminano con me. Sono cosciente. Il soldato che racconta è un altro. Lui scrive nel vento, e consegna parole all’Infinito. Io ho lo zaino in spalla, il fucile a tracolla.

di Abramo Vane Pagina tratta da “Il soldato inutile” di Abramo Vane Edizioni Il cavedio 

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