Inserisco la moneta, premo il bottone. Caffè espresso. Le pareti sono bicolore e tra il verde tenue e il bianco si infila una impavida striscia blu. A lato del distributore automatico una bacheca tappezzata di avvisi e messaggi vari. Potrei appenderne uno anch’io, ci scriverei sopra “Mirco è morto, finalmente!”
Quella giornata di luglio iniziò, nei miei ricordi, con uno strofinaccio tra le mani. Alle due di pomeriggio suonai il campanello alla porta di Mirco. Abitava con la madre in un appartamento del terzo piano. Mi aprì, una figura minuta in canottiera bianca e pantaloncini corti. Usciamo, gli chiesi. Devo lavare i piatti, rispose. Aveva nove anni e io undici. Sbuffai, però decisi di aiutarlo. Mi accompagnò in cucina. Sotto il lavello c’era un catino rovesciato, vi salì e fece scorrere l’acqua aggiungendo un po’ di detersivo. Lavò e sciacquò le stoviglie e io le asciugai. Terminate le faccende domestiche scendemmo le scale due gradini alla volta, e poi, in strada, corremmo come se non avessimo un domani. Ai margini della boscaglia prendemmo il sentiero del Coniglio, lo chiamavamo così perché un sabato di maggio scorgemmo una lepre grigia attraversarlo, conduceva alla radura del Grande Menhir, un enorme masso trascinato fin lì da qualche ghiacciaio estinto.
Si fantasticava sul futuro. Il mio sogno era diventare musicista, con il flauto non ero male. Mirco mi rivelò il suo. Rimasi a bocca aperta. Fissai il terreno e quando mi voltai notai le lacrime. Parlava sul serio. Non lo dirò a nessuno, promisi.
Udimmo dei guaiti e delle risa. Ci avvicinammo con cautela. Vidi Pietro e Pinuccio, l’incubo di noi ragazzini, tredicenni dall’anima nera e nel DNA la voglia di fare del male. Bastonavano Botola, un piccolo randagio mite e affettuoso. Ci scagliammo contro di loro, al pari di antichi cavalieri senza macchia e paura. Mirco venne colpito subito alla testa e quasi svenne. Io fui più fortunato, presi solo calci e pugni. Me la cavai con dei lividi e la maglietta stracciata. A lui spaccarono un timpano. Era quasi ora di cena, supini sul prato, a pochi metri da Botola, seguivamo con lo sguardo le nuvole rossastre. Ci alzammo a fatica. Il povero cane non respirava più. Mirco piangendo si mise a scavare frenetico con le mani, per lui, disse. Lo seppellimmo lì, con il cuore morto, accanto al finto menhir. Quel giorno ci strappò dall’infanzia e legò le nostre vite come mai avremmo immaginato.
Sara esce dalla sala operatoria. I medici dicono che è andato tutto bene. È ancora sotto l’effetto dei farmaci, mi vede e sorride. Sorrido anch’io, il suo sogno è stato esaudito. Mi siedo sul bordo del letto, accarezzo i suoi capelli, lunghi, fini, sfioro con le dita l’invisibile apparecchio acustico, lo porta dal luglio di quell’estate di venti anni prima.

di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Daniela Landini

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Il parcheggio dell‘ipermercato di Gallarate è pieno. Antonio aspetta che si liberi un posto, non ha fretta. La mattina si era svegliato presto, poco abituato a dormire solo. Seduto sul letto di lenzuola fradicie, aveva preso la pistola d’ordinanza dal comodino e spinto la canna in gola fino a farsi lacrimare gli occhi. Ripeteva quel gesto da giorni, senza decidersi. Sua moglie Anna lo aveva lasciato.
Antonio era una guardia giurata, lei commessa in un centro commerciale. Sì, a volte era stato violento, le aveva dato qualche spintone e lasciato lividi sulle braccia quando aveva dovuto ripeterle due volte la stessa cosa. In faccia, però, non l’aveva mai colpita. Ed era un merito, secondo lui.
In quei due mesi, in cui il tempo si era fermato a quel pomeriggio delle valigie riempite di corsa, della Punto scassata di quella stronza della sua amica Serena che aspettava in strada, Antonio aveva perso il lavoro e dieci chili di grasso arrotolati alla cintura. Aveva colmato il vuoto che sentiva dentro con dolore, rabbia e rancore, goccia dopo goccia.
Gli altoparlanti del parcheggio riempiono l’aria delle note di una canzone di Zucchero.
“Ridammi il sole
Che piove dentro me”
Antonio apre la portiera. Cammina lento verso l’ingresso principale. Anna esce e lui sussulta nel vederla vestita in quel modo. Tacchi alti e gonna corta, una camicetta che lascia intravedere il reggiseno nero. Lui non le avrebbe permesso di conciarsi così, da sgualdrina di periferia. Un uomo le si avvicina, indossa una stupida felpa azzurra con la scritta I Love New York sul davanti. La prende per la vita e la solleva. Antonio è a circa trenta metri da loro. Il bacio che si danno lo sconvolge più dei tacchi e delle gambe scoperte. Mano nella mano i due si dirigono alla loro auto. Antonio resta immobile. Li guarda, freddo come l’acciaio che impugna.
La musica continua, altre persone escono dal centro commerciale, con i carrelli pieni e il passo veloce.
“Ridammi il sole
Che avevo dentro me.”
Antonio appare improvviso di fronte ad Anna e al tizio che non conosce. E in quel fermo immagine che è stata la sua vita negli ultimi due mesi, preme Start.
Il primo colpo brucia il reggipetto nero, il secondo la felpa azzurra e tutto quello che c’è dietro. Uno stormo di tordi si alza in volo. Antonio punta la pistola sotto il mento, e questa volta non esita.
Zucchero non canta più. Dagli altoparlanti una voce femminile invita i clienti a visitare il reparto detersivi, cinquanta per cento di sconto su tutti i prodotti. In lontananza si odono le prime sirene.

Di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Mauro Speri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Maurizius, il replicante, io l’avevo conosciuto una sera al Cavedio, il più fantastico ritrovo di tutte le galassie, lì la gente arrivava da ogni parte e c’era ancora un’umanità che valeva la pena di incontrare, operai, mercenari, professori, agenti di borsa, replicanti, un filo sottile univa quelle vite, e di vite di quel genere ne rimanevano poche, i tempi erano degenerati, e la Belles Corporation aveva lavorato sui cervelli e li controllava con la Legge delle Libertà, i replicanti della Jappons spacciavano le loro droghe micidiali anche ai bambini e a nessuno interessava niente di niente, e tutti viaggiavano, si divertivano e si facevano con l’ultimo ritrovato sintetico… E Maurizius era diverso, e non solo perché era un replicante della generazione alfa, lui era così felice della completezza che aveva maturato come personaggio di storie di fantascienza che sul suo viso si era stampato il sorriso di chi ha assolto il proprio dovere e dalla vita non si aspetta più niente, e infatti aveva i giorni contati, noi non lo sapevamo, lui sì, e alla Centrale i suoi costruttori erano stati espliciti, lui era uno dei migliori replicanti usciti dalla Fumetteria, ma tutto aveva una fine, era la legge del mercato… E quella sera c’erano i fratelli Marinos, Betty Blue Cap, e poi Carmen Fabian, erano suoi amici, e anche miei, e me lo presentarono e lui si confidò come se ci conoscessimo da sempre, e solo alcuni mesi dopo, quando lui non c’era più, compresi che in quel fiume di parole c’era quella stessa visione della vita che io cercavo di comunicare, perché anch’io inventavo personaggi, e per tanto tempo avevo creduto di generarli dalla mia fantasia, e invece quelli già esistevano, e io non facevo altro che fermarli mentre passavano, ed era questo il significato di quella confessione, di quel sorriso beffardo che Maurizius ebbe per tutta la sera… E mi raccontò le sue avventure, i viaggi, i lavori, mi parlò dei luoghi che aveva visitato, delle città, e di una in modo particolare, di Esperanda, la città magica, la città della fantasia e dell’impossibile, la più bella in assoluto, e sugli schermi giganteschi delle sue strade scorrevano ininterrottamente le storie dei Cavalieri del Futuro, quelli che ti dicevano come sarebbe stato fra due, dieci o vent’anni, e tu non ci credevi fin tanto che un giorno te lo trovavi lì davanti, il futuro, proprio come loro te lo avevano descritto… e poi disse di quell’antica fatica che era il lavoro nei campi, di quelle campagne assolate, e di quando alla sera gli operai tornavano all’azienda e ognuno aveva sempre un pensiero da comunicare, e quel pensiero era maturato nel silenzio, sotto il sole, come se il pensiero fosse un frutto e il cervello un albero, e mi aveva raccontato poi di quella vita meravigliosa che conducevano gli abitanti delle isole di Nervantes dove tutti, dalla mattina alla sera, se ne stavano stravaccati a bere succhi di gullian e intanto parlavano di attività frenetiche, e quando invece si mettevano a lavorare lo facevano per settimane intere senza una sola interruzione e il lavoro era così piacevole che pensavano di essere fermi sotto una palma con una bibita a godersela… E i suoi ricordi, quella sera, mi erano sembrati le allucinazioni di un cocainomane, fantasie, solo fantasie di una mente turbata, e i replicanti erano tutti così, erano un po’ strani, avevano un loro modo di dire le cose… E Maurizius non sapeva leggere, e gli piaceva ascoltare uno dei racconti che stavano appesi alle vetrine del Cavedio, e io gliene lessi uno, il primo che mi capitò, ma siccome le cose non succedono mai per caso scelsi proprio quello di William Acerbi, e io non sapevo neppure che quel giovane scrittore era anche lui un replicante, e invece Maurizius lo riconobbe dopo poche frasi, e rise, rise per la storia di William, ma anche di me, e più di ogni altra cosa rise della mia ingenuità e di tutta quella strada che ancora mi restava da fare.

di Yuri Sansilvestro, illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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PAROLE GUIDA, trovate le vostre

Ispirazione, concentrazione, e poi metodo e meccanismi psicologici e di scrittura.  E intuizione, che è alla base forse di qualsiasi forma di vita. L’intuizione artistica è inoltre qualcosa di diverso, si muove nella fantasia, e fantasia, a parer mio, è un’altra parola guida.

E poi armonia e unità sono straordinarie. L’armonia della pagina, dei concetti, delle situazioni, delle descrizioni sorregge l’idea di unità. Ma, attenzione, ho detto a parer mio, perché ognuno troverà e si affezionerà a delle espressioni sue proprie che diventeranno davvero una guida originale. Io ho fatto un esempio personale, e tale resta. Il vero suggerimento è di valutare bene il peso delle parole che maturerete e che sentirete come guida. Ma come?

Pensate alla connessione che esse hanno con la vostra vita. Ciò che guida la scrittura guida anche la vita.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


continua il 30 dicembre

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Il suo nome era Mario, ma lo chiamavano Mariolino perché era gracile, trascorreva sempre le vacanze nella casa dei nonni.
Passava buona parte del tempo nel suo rifugio favorito, la soffitta, dove leggeva, e viveva idealmente nel Medio Evo. Si era dato il nome di Bartolomeo, come Bartolomeo Colleoni, il suo modello di cavaliere. Aveva visto una volta a Bergamo la statua equestre rivestita d’oro del condottiero e da allora si immedesimava in lui, inventava storie in cui combatteva e vinceva. Le scriveva e le leggeva al nonno, lui gli faceva da padre. Insieme passavano molte ore.
Il giardino dove giocava era più un bosco che altro, e lì avvenivano le scorrerie più cruente, lui come unico protagonista, oltre a un cane paziente che era, all’occorrenza, un destriero, il nemico, il resto del battaglione.
Il nonno gli aveva costruito un cavallo di legno, come lo usavano ai suoi i tempi, un bastone lungo da tenere in mezzo alle gambe con incollato la sagoma della faccia di un cavallo.
Quando fu più grandicello, costruì una torre di avvistamento in alto sulle acacie, giorni e giorni di tentativi per tenerle insieme, non erano gli alberi più adatti per sostenerla, cadde più volte ma la sua ostinazione nel ricostruirla era più forte del vento. Consumò mille chiodi, corde, martellò ferocemente le dita, ma la torre rimase lassù, ferma e quasi stabile, fino alla fine dell’estate.
Era il giorno del suo compleanno, nove anni. I nonni organizzarono una festicciola, non ci sarebbero stati ospiti, loro tre, la mamma, il destriero.
Scese dalla torre raggiante, aveva sconfitto la Repubblica di Venezia e tornava al castello felice e affamato.
Si fermò, un’auto era parcheggiata nel cortile, sua madre. Ma come, era già arrivata a prenderlo, e la festa?
Da fuori sentì la voce alta della mamma e quella del nonno che urlava, la nonna cercava di mettere pace.
Il nonno accusava la figlia di ricevere in casa uomini.
Uomini? Sì, si era dimenticato della condizione in cui vivevano.
Sapeva che di notte c’era un andirivieni di gente in casa, li sentiva, ma non poteva uscire dalla sua camera. Era un segreto.
Avrebbe preferito vivere con i nonni, qui era libero, felice, non aveva paura, si sentiva protetto, ma non poteva lasciare la mamma sola, a modo suo aveva bisogno di lui.
Urlavano, oh come urlavano.
Tre mesi di felicità cancellati in un solo momento: la realtà. Era stato felice, tanto felice, troppo felice.
Riprese il cavallo e cominciò a correre, galoppare, si fermò sotto il piedestallo del condottiero e guardò su, non era un vero piedestallo ma lo era per lui. Si arrampicò in fretta, dall’alto scorse il nemico che avanzava nel bosco, urlò: “caricaaaa” e con un balzo gli andò incontro

di Elda Caspani, disegno di George Crowhurst

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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IL CONTROLLO, per dare vita alla fantasia

Scriviamo una paginetta, oppure un romanzo di mille pagine, ma le parole non ci debbono sfuggire, non possiamo buttarle sulla pagina bianca senza criterio. La pagina bianca è sacra. È la partenza, e l’arrivo. Il rispetto, di ciò che è superiore a noi, e la comprensione delle parole, che è la guida e lo scopo dello scrivere, debbono essere un costante riferimento nella nostra mente. Scriviamo quello che vogliamo, ma tutto deve essere sotto controllo. L’amore muove i nostri passi, è l’impulso vitale, è una luce che ci guida, ma se non controlliamo tutto questo rimarremo nella banalità, nelle belle idee inespresse, o espresse fino a un certo punto. È questa la differenza, la sensibilità e la maturazione che ci portano su percorsi inesplorati.

Verso l’Infinito. E ciò che appare contraddizione, vita e morte, limiti e infinito, si manifesta per quello che è: un’unica realtà. Se non c’è controllo, la conoscenza sfuma, perde luce, l’amore non riconosce la propria natura, nega sé stesso. La nostra paginetta, o romanzo di mille pagine che sia, non ha la struttura adatta, né lo stile più propizio. Non incidiamo sull’animo del nostro lettore ideale, siamo acqua su marmo. E il nostro scrivere serve solo a coltivare illusione.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


Continua il 23 dicembre

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IL METODO, è un suggerimento

Ricerca di stile, struttura e contenuto si intrecciano e procedono insieme.

Non ci sono capitoli a sé stanti. Oggi vediamo lo stile, domani la struttura, e poi la grammatica e così via. Studiamo il tale scrittore, e poi i generi e il trasformarsi della lingua. No. Tutto procede di pari passo. Si parte dalla pagina bianca e si sperimenta. Non ci sono prima la teoria e lo studio e poi la pratica e la scrittura. Cerchiamo il nostro stile, la struttura più idonea, la creazione dei personaggi, la descrizione degli ambienti eccetera, ci informiamo e ci aggiorniamo, studiamo e osserviamo, e allo stesso tempo coltiviamo l’umiltà, e il senso del distacco, e tutte quelle qualità che scopriremo in noi.

Oltre a tutto questo c’è sempre la comprensione e la pratica della riscrittura, senza la quale nessun metodo personale sta in piedi.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


Continua il 16 dicembre

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LA TECNICA, meglio pensare al metodo

Gli iscritti al corso di scrittura chiedono sempre la tecnica. È lo scopo per il quale si sono iscritti. Con la tecnica si pensa di risolvere tutto. Se uno vuole fare il venditore gli insegnano le tecniche della vendita, ma poi sono pochi quelli che riescono, perché il lavoro è difficile e occorrono qualità particolari. E così se uno vuole scrivere un romanzo si iscrive a un corso per imparare la tecnica. Quando una persona ha scritto un racconto si sente già scrittore. Mi è capitato anche di trovare chi non aveva ancora scritto, ma ne aveva l’intenzione, ed era uguale, parlava da scrittore. L’unica cosa di cui si sente la mancanza è la tecnica. Sinceramente, non ho mai capito che cosa intendano per tecnica. Probabilmente una bacchetta magica. Se è così, adesso l’hanno trovata, e si chiama intelligenza artificiale, ma ne parliamo più avanti. La scrittura, dall’idea alla realizzazione, è fare. Il giusto livello del fare non è sempre lo stesso. L’azione, gli stati d’animo, sono diversi, e questo mostra il limite delle tecniche, uniformi nell’esecuzione. Per questo le tecniche di scrittura sono limitate e addirittura non funzionano, non sono il riferimento. Lo è la ricerca. Piuttosto delle tecniche cerchiamo un metodo di lavoro. La tecnica è impersonale, il metodo è personale, come lo è la scrittura. Il metodo è in sintonia con lo scrivere, le tecniche no. Le tecniche ci lasciano in superficie, il metodo ci serve per andare a scoprire. Le tecniche riempiono di illusione, il metodo ce ne libera. Quello che ci serve sono la psicologia, l’introspezione, l’arte di osservare, e la capacità di saper riscrivere. In un corso di scrittura cercate le giuste indicazioni, e fatele vostre.


Continua il 9 dicembre

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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