di Daniele Gaeta

Il telefono squillò nel mezzo di quello che poteva apparire come un tranquillo tè tra amiche e che invece era un dibattito tra le personalità più importanti del Paese.

Tutte tacquero, a strillare era nientemeno che la linea rossa, di solito in silenzio.

La Presidente si congedò preoccupata, si trasferì veloce nello studio ovale chiudendo la porta. Si sedette e, mordendosi le labbra tra i denti, chiese “Anna, sei tu?”, ignorando ogni cerimoniale.

Dall’altra parte la voce accusò: “Avete passato ogni limite!”. “Con il vostro attacco di ieri, prima i droni, poi il bombardamento, avete rivelato ogni inganno! Basta, è finita, questa volta le vostre azioni non rimarranno impunite!”.

Miss President digitò un codice su un pannello vicino che si aprì rivelando una teca con chiavi e pulsanti che fino a quel momento non erano mai stati premuti.

Tentò di giustificarsi con l’altra donna: “Siamo dovuti intervenire per evitare altri caduti…” ma lei la interruppe prima che potesse finire: “Elizabeth, mi dispiace, siamo arrivati al punto di non ritorno! So bene che non ci saranno né vincitori né vinti ma solo l’apocalisse… e la colpa di tutto questo è solo vostra!”.

Ci fu un lungo silenzio carico d’angoscia, il dito di Elizabeth si trovava sull’interruttore, il primo della sequenza che portava al pulsante rosso, quello da cui non si poteva tornare indietro. Tratteneva il respiro, era certa che Anna dall’altra parte della linea si trovava nella stessa esatta posizione, forse incerta sul da farsi. Forse c’era ancora una speranza.

“Colpa nostra, colpa vostra!” riprese Elizabeth “In verità neanche tu più ricordi chi abbia iniziato questo tragico gioco, questa guerra è costata fin troppo senza dimostrare niente a nessuno. E poi, lo sai, entrambe siamo donne, noi doniamo la vita, non la prendiamo”.

Ancora un lungo, lunghissimo silenzio, poi lo schiocco improvviso della chiamata che viene interrotta. Il dito della Presidente tremava sull’interruttore.

Attese ancora un momento ma non accadde nulla. Rigirò le chiavi, richiuse la teca, portò le dita alla tempia ad asciugarsi il sudore, stava ancora tremando.

La donna più potente della terra provò a riprendere il controllo, cercò di non pensare a quanto il mondo intero fosse stato vicino al tracollo, si alzò e tornò nella stanza vicina dove le altre la fissavano con ansia.

Miss Elizabeth si rivolse al Ministro della Difesa e le ordinò con piglio deciso: “A qualsiasi costo dobbiamo ottenere la pace! So che i droni stanno per alzarsi in volo, fermate subito il secondo attacco! Piuttosto… mettete dei fiori sopra quei droni!”

Daniele Gaeta. Affascinato dalla creatività in ogni forma e curioso fin da piccolo, si ritrova con la “testa tra le nuvole” nei momenti più inopportuni, ha riscoperto la passione di affidare le sue fantasie alla penna grazie alle favole inventate per i suoi figli.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Gianmarco Pellattiero

È una storia speciale quella che mi appresto a raccontare, fatta di angoscia, speranza e stupore.

Lucia, cinque anni, è ricoverata all’ospedale Gaslini di Genova, noto per la competenza dei suoi operatori sanitari. Eppure, la capacità professionale è inutile se il fondo del baratro è vicino e un sorriso è più efficace di un farmaco costoso. Certo, un tumore non può essere sconfitto da una manciata di legumi, ma a Natale, credetemi, tutto può succedere.

La sera del 18 dicembre Babbo Natale entra nella stanza di Lucia; la sua presenza è davvero insolita, dato che al 25 mancano ancora molti giorni. Sarà uno dei numerosi volontari presenti nei reparti, pensano i genitori della bambina. Ma le stranezze non finiscono qui, perché l’uomo vestito di rosso e con la barba bianca, non porta a Lucia dei pacchi, bensì sette fagioli, ognuno appoggiato su una base di cotone idrofilo, all’interno di un vasetto.

«Cara Lucia, ho bisogno del tuo aiuto. Ti chiedo di annaffiare i fagioli tutte le mattine e mentre li bagni immagina sette abeti, addobbati con dei festoni stupendi e tante luci colorate. Se esaudirai la mia richiesta, la mattina di Natale avrai una meravigliosa sorpresa: durante la notte verrà un folletto a prenderli e li pianterà nel terreno a lato dell’edificio. E vedrai, ogni tuo desiderio si realizzerà.»

La bambina, estasiata dalla presenza di Babbo Natale, annuisce, mentre lo vede uscire dalla stanza. Un sorriso illumina il suo viso, è la prima volta dopo tanti mesi di sofferenza. La settimana passa veloce, le crisi sono sempre più frequenti. Per i medici la fine è vicina. Nel frattempo, grazie allo zelo di Lucia, sono nati dei bellissimi germogli.

È la mattina di Natale, la flebile voce della figlia attira l’attenzione dei genitori. I vasetti contenenti i fagioli sono spariti! Lucia chiede di alzare la tapparella. Grande è il suo stupore nel vedere sette abeti, illuminati e addobbati, proprio come li aveva immaginati. Babbo Natale ha mantenuto la sua promessa.

Sono passati ormai 40 anni; i genitori della bambina conservano nei loro cuori il ricordo del miracolo avvenuto in ospedale. E sorridono quando, nell’ultima settimana di avvento, vedono i nipoti preparare sette vasetti, contenenti altrettanti fagioli, che il 25 dicembre saranno piantati nel terreno da un folletto di nome Lucia.

Ovunque i bambini e gli adulti crederanno alle mie promesse, il seme della speranza genererà tanti alberi magici e prodigi inspiegabili. Parola di Babbo Natale.

Gianmarco Pellattiero vive a Malnate. Nel suo repertorio sono presenti numerosi racconti brevi, poesie, monologhi teatrali e alcuni romanzi, tra cui “E mi ritrovai a Malnate” del 2021 e “Cloe e l’enneagramma d’Oro” del 2022.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Di Natalia Rovera

Quella lacrima sul viso aveva detto tutto. Raccontava di un amore taciuto per troppo tempo, di tanti “ma si dai poi passa”. Come se fosse un’influenza o uno fastidioso sfogo, che poi tanto danno non fanno. Quante volte Pier incrociando il suo sguardo avrebbe voluto confessarle il suo amore! Le aveva anche contate poiché così facendo, si diceva, avrebbero fatto da sprone alla sua ritrosia. Una, due, cinque, dieci volte, ma niente proprio non ce la faceva. Rimuginava tra sé e sé: “l’altro giorno era di corsa”, “ieri era troppo accigliata”, “oggi poi proprio no, pioveva troppo!”. Quando le scuse si esaurirono iniziò a sfuggire al suo sguardo, quasi i suoi occhi avessero il potere di pietrificarlo all’istante. C’era sempre qualcosa che cascava provvidenzialmente di mano, un passante da salutare o un raggio di sole ad infastidirlo. Gli anni passavano e Pier vide Juliette trasformarsi in una giovane splendida donna, che egli venerava in devoto silenzio, quasi fosse l’incarnazione di una divinità e lui un misero mortale al suo cospetto.  Venne poi l’inesorabile giorno in cui la vide scendere le scale per salire nella carrozza adornata a festa. Non era stata mai così bella, pensò, ed in quel momento seppe che mai più avrebbe provato quello smarrimento, quel senso di totale impotenza dinanzi ad un’altra donna. Lei era il suo amore, la sua musa, il suo eterno tormento. E mentre le porgeva dolcemente il braccio a suo sostegno, nell’esatto momento in cui i loro occhi si incrociarono capì di averla perduta per sempre. Lei saliva in carrozza e lui fu come trafitto da mille pugnali. Quel dolore fu così acuto tanto da causargli un mancamento. Juliette se ne accorse mentre si voltava sventolando il suo fazzoletto come si confà agli addii in grande stile. Fece fermare subito la carrozza, scese di corsa quasi inciampando nell’abito e si precipitò a soccorrerlo. Avvicinandosi a Pier, che si era accasciato sui gradini, si inginocchiò dinanzi a lui e fissandolo con occhi indagatori lo vide forse realmente per la prima volta per ciò che era. Quelle lacrime, quello sguardo, valevamo più di mille parole. Ed ella tacque, sforzandosi di mantenere quel regale contegno che il suo ruolo imponeva e per il quale tanto si erano adoperati i suoi educatori negli anni addietro.  Asciugò dolcemente le sue gote con un tocco estremamente delicato, quasi temesse sfiorandolo di cagionargli altro dolore. Poi strinse le sue mani e con voce tremolante disse “forse in un’altra vita, in altri luoghi, avremmo potuto essere noi”. E se ne andò.

Natalia Rovera è una varesina di 53 anni. Odia il freddo, i ragni, la prepotenza. Ama il mare, i gatti, la gentilezza. Scrivere per lei è un’esigeza viscerale, che le permette di catturare il suo mondo interiore tanto turbolento quanto sfuggevole.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Di Giulia Carloni

Ero nel paese dove tutto era finito e dove avevo sognato di costruire la mia vita. Ero solo nella stanza che sapeva di polvere e di muffa. Dondolavo sulla sedia scricchiolante e in mano avevo il bicchiere di bourbon. C’era il camino tenuto acceso dall’ultimo pezzo di legna.

Me ne stavo andando perché poco era rimasto per me. Dovevo dire addio e a me gli addii non sono mai piaciuti. Da quando sono arrivato a Varese tante cose sono cambiate. La stanza nella palazzina novecentesca mi ricorda casa di mia nonna, con la carta da parati a fiori e un parquet scheggiato. «Di buon gusto», direbbe Agata con una risata, ironica. Ha girato quasi tutto il mondo. Le appartiene il senso del bello e della scoperta. È l’anima della festa.

A me, invece, piace la routine; le abitudini mi fanno stare comodo in un luogo e le persone non sono sempre necessarie. Amo la persona che ora è lontana da me, che odora di bruciato e di rosmarino. Agata è morta con le margherite nella mano sinistra e l’ombrello nella destra. Odio gli ombrelli, le strade trafficate e la pioggia. Odio quando le goccioline entrano nella giacca e ti scivolano sulla schiena come piccole gocce di pianto. Da quel giorno indosso un cappotto impermeabile e arrivo in ufficio zuppo di umidità. Non mi importa perché lei non c’è.

Le lacrime che verso hanno il gusto amaro del rimorso e della solitudine. Di qualcosa che ho perso per sempre. Detesto i “per sempre” ma in questo caso non c’è modo migliore per descriverlo. Indosso il trucco della persona in grado di sopravvivere, di scomparire, di iniziare da capo. Le lacrime sciolgono la maschera durante le notti di quiete, di sgambetti emotivi e di dolore.

Verso il the nella tazza e Varese è baciata dal sole primaverile. Sono arrivato per dimenticare, per costruire da capo, per rimediare agli errori del “per sempre” e del “mai”. E ora che i miei piedi calpestano l’acciottolato dei Giardini Estensi, scopro che sul viso si è fermata la voglia di sognare.

Nell’orecchio un farfugliare giocoso di momenti che urlano, che mi chiamano. Agata è la parte di me che non mi guarderà più, eppure che resterà sotto la pelle, nel sangue, nel midollo osseo di questa mia esistenza.

Gli addii non mi piacciono, talvolta hanno il colore del sollievo, altre di tormento. Salgo con i piedi pesanti le scale, i sentieri, tra i carpini, con le mani in tasca. Mi siedo su una tiepida panchina, con una luce timida sul viso. Sono pronto a provare la sensazione del lasciare andare, del ricominciare. E una lacrima sul viso mi dona il coraggio di dire addio.

Giulia Carloni. Classe 1990, crede nei diritti di partecipazione, di esistenza e di felicità. Nel 2022 ha pubblicato un libro, “Un mondo a colori”, edito da Porto Seguro Editore. Lavora come educatrice con Coop Lotta Contro l’Emarginazione.

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di Kenji Albani

   1996

   “Allah o’akbar”.

   “Allah o’akbar”.

   “Allah o’akbar”.

Fu tutto un ripetersi di quelle sante parole. Jamal ci credeva. O quasi…

Corse al MiG, indossò il casco con la maschera per l’ossigeno, saltò dentro l’abitacolo. Furono i serventi di terra a chiudere il cupolino, il meccanismo automatico non funzionava più. Da quando il regime di Najibullah era finito, dalla Russia non arrivavano più pezzi di ricambio. E figurarsi: i russi dovevano pensare alla Cecenia, non a sostenere il regime talebano in Afghanistan.

Jamal decollò. Lui era il Solitario, l’ultimo pilota militare del paese.

Si sollevò di decine di metri fino a centinaia di metri sopra le montagne tanto da perforare le nuvole. Lasciò Kabul e si diresse verso Mazar – i – Sharif.

Ci arrivò in dieci minuti, trovò tutto molto noioso, si era augurato un po’ di difficoltà, ma purtroppo lui era l’ultimo pilota in Afghanistan. Almeno militare. Neppure l’Alleanza del Nord disponeva di apparecchi d’attacco, figurarsi da ricognizione o da trasporto.

Jamal incominciò il bombardamento della città ribelle. Vide più in basso dei fiori di fuoco diventare pennacchi di fumo, si divertì a pensare quanto fosse divertente bombardare e uccidere i nemici dell’Islam.

Anche se poi, negli ultimi tempi, un tarlo gli rodeva la mente. Non aveva apprezzato che la sorella del suo migliore amico, Nadia, fosse stata lapidata a morte nello stadio di Kabul. Lui aveva assistito alla scena: durante una partita di calcio i giocatori in tute a maniche e pantaloni lunghi e le barbe incolte che si erano ritirati negli spogliatoi per dissetarsi visto il caldo, allora erano arrivati degli uomini che avevano scavato una buca per poi infilarci una donna in burqa. Avevano richiuso la buca lasciandola scoperta dalla vita in su, intrappolata. Davanti alla condannata si erano parati dei talebani, sei in tutto, e come un plotone d’esecuzione avevano preso le pietre caricate su un pick-up entrato in campo.

Un mullah aveva detto al megafono: Nadia Nizamuddin ha commesso adulterio. Ecco la sua punizione!

Non è vero, mi sono solo tolta il burqa nel cortile di casa…

Non aveva potuto concludere che la prima pietra l’aveva colpita. Era stato il mullah a lanciarla.

Il plotone d’esecuzione aveva iniziato a scagliare i sassi contro la poveretta.

A Jamal era venuto da vomitare. Le voleva bene, era una brava ragazza.

Adesso che stava bombardando Mazar – i – Sharif, prese la sua decisione perché quella era una storia vera che non gli dava pace. “Meglio fuggire in Uzbekistan”.

Capì che i talebani non si sarebbero mai più serviti del Solitario.

Kenji Albani è nato a Varese il 13 novembre 1990 (il suo nome è giapponese, ma lui è italiano). Nella vita fa l’articolista, pubblica con Delos Digital ed è arrivato in finale alla 6a edizione del Premio Altieri Segretissimo.

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di Agnese Ilaria Telloni

C’era una volta una margherita, in un grande prato verde. Era spuntata un giorno di primavera, di mattina presto, dopo uno scroscio improvviso.

Le era capitato di nascere sul bordo di un campo di calcio di provincia. In quel prato si sentiva una delle tante, e mai nessuno che si accorgesse di lei. Se non ci fosse stata, di sicuro non avrebbe fatto differenza.

Lì ogni domenica tante scarpette colorate le passavano vicino. Quando arrivavano veloci, con tutta la loro foga, facevano tremare la sua corolla, e ogni volta pregava di non essere travolta. Sentiva un rumore sordo quando colpivano il pallone o si scontravano fra loro. Le grida che riempivano l’aria le mettevano paura, ma erano sempre meglio del silenzio che la avvolgeva negli altri giorni della settimana. Di domenica non pensava e tra tutti quei colori, quelle urla, quell’energia, la vita le sembrava dolce.

Un giorno qualsiasi se ne stava assopita sotto il sole tiepido, quando sentì dei passi leggeri. Due scarpe bianche, anzi, quattro.

Non correvano, non facevano rumore. Il loro incedere sembrava una danza.

Si muovevano lente e in certi momenti si fermavano, vicine vicine, a far cosa non riusciva a vederlo. Due di quelle scarpe a volte, di fronte alle altre, si alzavano sulle punte.

Non calciavano un pallone. Non c’erano grida, non c’erano tonfi, né boati.

Solo quelle quattro scarpe, intrecciate a due a due.

Solo dei sussurri lievi e ogni tanto, così le pareva di sentire, il fruscio di una carezza.

A un certo punto accadde una cosa inaspettata: quelle scarpe le si avvicinarono, vide un ginocchio a terra e una mano che piano piano si accostava a lei. Quella mano le sfiorò lo stelo. Ebbe un brivido, la colse il terrore di essere strappata via. Pensò al prato, ai suoi giorni tutti uguali e in un attimo se ne innamorò. Le piombò addosso come un pugno l’indifferenza del piccolo mondo che abitava, e ne provò dolore.

Poi udì una voce che diceva: “Questa è per te, ma la lasciamo qui, la lasciamo vivere”.

Un’altra voce, soave e calda come la luna nelle notti d’estate, rispose: “È nostra, ricordatela, torneremo a vederla”.

Quel giorno la margherita scoprì di essere felice.

Non era più una delle tante. Era lei, proprio lei il fiore vivo che le quattro scarpe bianche avevano scelto. Era felice che quei passi attenti, grati di ogni raggio di sole e di ogni alito di vento che potevano condividere, si fossero accorti di lei. Sarebbero tornati, era certa.

Da quel giorno, ogni giorno li aspetta, coi suoi petali bianchi, inebriati di luce, finalmente fieri della propria preziosissima unicità.

Agnese Ilaria Telloni, ricercatrice in Didattica della Matematica, è sempre in bilico fra la fascinazione della matematica e la passione per la letteratura. Ha pubblicato articoli e saggi di ricerca scientifica. Nel 2011 ha vinto il premio L’Oreal Italia “Per le Donne e la Scienza”.

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di Valentina Ciocca

Mi accingo a scriverti questa lettera mentre tu sarai già salito sul treno.

Dopo la tua partenza gli ingranaggi del tempo devono essersi inceppati, sono passate solo poche ore o forse tutta l’eternità? Mi stringo al desiderio di te, immagini e pensieri indelebili scivolano via insieme alle lacrime. Ci siamo giurati amore eterno, rammenti? Sotto le fronde del salice piangente abbiamo suggellato il nostro impegno.

Sulle mani tracce invisibili di te, nel cuore il solco profondo della tua assenza.

Sorrido, ripensando ai nostri primi incontri, mani intrecciate e grandi speranze, baci umidi sotto la pioggia, ritagli di felicità nel grigiore quotidiano. Ci siamo amati fin da subito, con trasporto e dedizione, protagonisti di una storia romantica d’altri tempi, fatta di corteggiamenti, dichiarazioni, boccioli di rose. Un amore da favola, temo però che non avrà un lieto fine. Ti amo tra le ombre della sera e il sorgere del sole, quando l’anima è più fragile. Sei il mio tutto che riempie la vita di sapore. Conosco il suono del tuo cuore, onda dell’oceano che ritmicamente si infrange sugli scogli. Ti amo così, incessantemente. Sei dentro di me, presenza indissolubile, ti sento addosso mentre lascio fluire il respiro e la nostalgia di te. In fondo cos’è l’amore? Sentimento e dono, emozione e impegno. Siamo anime erranti legate da un filo invisibile, siamo l’urgenza di appartenerci e la necessità di incatenarci i cuori. Il destino ha disegnato per noi una trama diversa, ma io non sono pronta a lasciarti andare.

Il tempo forse mitigherà la sofferenza, modellando i ricordi, restituendomi un’immagine di te ancor piu’ dolce e forse ci darà le risposte che cerchiamo.

Mi immergo nella malinconia, mi lascio cullare dal calore dei ricordi.

Se l’amore è un viaggio, il nostro non è ancora giunto al capolinea, ma ha preso una deviazione, inaspettata o forse no. Provo ad accettare quello che non sarà.

Vorrei abitare nei tuoi sogni e sussurrare al vento la nostra melodia.

Sono certa che se ti metti all’ascolto, mi puoi sentire. Avverto segni inconsistenti di te nella brezza della sera, nella luce calda del tramonto. Cercami nell’andito più segreto dei tuoi pensieri, mi troverai lì, paziente, ad attenderti e forse ci ritroveremo ad accarezzarci le anime.

Arrivederci, amore mio. Abbi cura di noi.

Valentina Ciocca è laureata in giurisprudenza, vive in Val d’Ossola e fin da bambina coltiva la passione per i libri e la scrittura. Nel 2024 ha ottenuto due riconoscimenti all’interno della settima edizione del Premio letterario Dentro l’amore.

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Di Andrea Marchetti


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di Maurizio Marchesi

Dicembre 2019: cominciavano ad affacciarsi le prime bugie e le prime verità. Vaghe notizie con aura di mistero e pronunciate a mezza voce, si infiltravano piano nei nostri cervelli, ancora con la sicumera che si stesse parlando di “altri”.

Poi, improvvisamente, con un crescendo degno delle scene culminanti dei grandi film d’azione, ci siamo ritrovati, attoniti, con un Presidente, che alle 23 passate di una qualunque sera di imminente primavera, ci informava che le nostre certezze di una vita, le nostre libertà più naturali e semplici – camminare, mangiare, respirare – erano sospese! Terminate! Finite! Con un colpo di teatro da film di quart’ordine, il mondo come lo conoscevamo, finì: una pandemia generata da un virus, naturale, costruito, fuggito, lasciato fuggire, si stava abbattendo sul mondo!

Prima di tutto questo, eravamo brutti e cattivi. Divisi, opportunisti, ladri e cantastorie. L’occasione, seppur spiacevole, di redimerci era lì, a portata di mano. Nemmeno per idea! I ladri hanno continuato a rubare; i cantastorie hanno continuato ad abbellire le loro storie e i brutti e cattivi sono aumentati a dismisura. Anche dove c’era una parvenza di costruttivo e solido, ci siamo dovuti accorgere, che molto della nostra vita era una recita ben congegnata; che in realtà non c’erano amici; non c’erano ultime speranze a cui aggrapparsi; non c’erano supereroi, che negli ultimi trenta secondi, avrebbero salvato la terra. Eravamo soli.

E dopo milioni di vittime – sia ahimè reali – sia superstiti con la vita o la coscienza spezzate per sempre, dopo tre anni bui – da far invidia al medioevo – ci siamo guardati e ritrovati ancora più soli e senza certezze. Piano piano abbiamo riacquisito o ci siamo ripresi, le nostre libertà. Abbiamo ristabilito, a fatica, un equilibrio precario, almeno quanto prima del disastro. Ora, tutto è tornato normale o abbiamo deciso che doveva tornare normale. Senza colpi di scena a notte inoltrata. In sordina, quasi a sussumere che forse, forse… forse! Adesso magicamente, è tutto a posto. Tutto un ricordo, che non è nemmeno sfociato in pettegoli racconti da bar e cortili di chiacchere.

Quasi a voler dimenticare non solo i drammi, ma anche quanto siamo stati pavidi, vili, deboli. Un po’ tutti noi, anche i migliori – e ce ne sono stati – ma che in qualche ora di quella eternità hanno sentito un piccolo germoglio sfiorire, in fondo all’anima.

Tra poco sarà di nuovo primavera, come “quella” primavera. Pensavamo che “dopo”, tutto sarebbe stato più bello; un nuovo rinascimento. Forse abbiamo perso un’occasione. Speriamo non ce ne siano altre.

Maurizio Marchesi. Ragioniere, marito e padre. Semplice appassionato, scrive da oltre cinquant’anni per sublimare emozioni, entusiasmi e dolori, trasferendoli sulla carta per renderli così, eterni. Ha collezionato diversi premi in concorsi letterari ma non ha mai pubblicato.

Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)


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Di Gorgio Gino Giunta


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