Di Stefano Minari

Quel pezzetto di carta dorme appallottolato dentro al cestino da ieri. Il confine fra la felicità e la delusione sta nei pochi centimetri di una strisciolina di cellulosa e non so se buttare tutto nell’immondizia o dichiarare finalmente guerra al me stesso di sempre, timido, bloccato, incapace di fare il primo passo. Dieci cifre scritte su un tovagliolo possono essere la combinazione della cassaforte dove sto rinchiuso, eppure non riesco a decidere se comporle sulla tastiera del cellulare o giocarmele al Lotto, dove forse avrei più possibilità di successo.

Quando Marco mi ha chiesto di partecipare alla cena, per festeggiare i dieci anni dalla maturità, gli ho vomitato addosso un “no” di getto. Chiama proprio lui, a cui ho sognato mille volte di spaccare la faccia in mille modi diversi! Se sono passati anni senza vederci né sentirci, perché mai incontrarsi per ricordare la fine di quello schifo di liceo? Nel frattempo, nessuno ha sentito la mia mancanza ed io ho contraccambiato volentieri.

A casa dei miei c’è ancora l’impronta dei pugni che ho dato al muro dopo una festa di compleanno, maledicendo il mondo e la mia timidezza. Simona era diventata il mio pensiero fisso e Lia, un’amica comune, aveva manipolato il sorteggio dei balli di coppia, per mettermela fra le braccia. Si erano messe d’accordo? Era partito un lento anni ’80, tirato fuori da chissà dove. Le braccia di lei sul collo e gli occhi neri a una spanna dai miei. Un calcio di rigore a porta vuota.

Quel rigore non l’ho calciato. Ormai ho un ricordo frammentario di quel momento, nonostante che mi abbia tenuto compagnia per centinaia di notti. Rivedo solo quello stronzo di Marco che rapisce le mani di lei, appoggiandosele sulle spalle. Ed io lì, in mezzo alla stanza, indeciso se offrire il mio naso ai suoi pugni da rugbista o aprire la porta ed andarmene.

Alla fine ho accettato l’invito, nonostante lo stomaco attorcigliato al pensiero di incontrarla, perché anche se la cicatrice ormai è vecchia, ogni tanto, quando cambia il tempo, si fa ancora sentire. Ci siamo persi a parlare tutta la sera ed ora il suo numero di telefono è là, sepolto nel cestino. Rivedere quegli occhi neri col rimmel che cola sulle guance, mentre mi confida la sua ricerca inutile di un punto fermo, mi ha riportato in quella stanza, con il lento in sottofondo, ma stavolta coi pugni chiusi, pronto a farmi massacrare.

Marco stavolta non c’è. Devo solo dare un pugno a me stesso, digitare per l’ennesima volta quelle dieci cifre e finalmente premere il tasto verde.

Respiro.

Un solo squillo e …: «Ciao Simona, sono Micky. Ti porto a ballare.»

Stefano Minari ha riscoperto da poco la passione per la parola scritta e la voglia di raccontare storie. Quella che nei sogni di ragazzo voleva essere una professione, ora sta rinascendo come fonte di relax e di tante soddisfazioni inaspettate.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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DI Carlo Battaglini

Emma era sempre stata una ragazza distratta, ma non avrebbe mai creduto di riuscire a perdere l’amore della sua vita tre giorni dopo averlo trovato; e la canzone che ora usciva dalla radio non faceva che amplificarne la rabbia: “Bello, bello e impossibile, con gli occhi grandi e la tua bocca da baciare…”. Una vera presa per il culo.

Emma si tappò le orecchie e maledì se stessa per aver dato retta a Lucia. “Non vorrai telefonargli, vero…?” aveva detto.

“Lascia che lo faccia lui, pensa alla tua dignità”.

Accidenti a lei. E anche alla dignità.

Emma aveva guardato prima Lucia e poi la banconota sulla quale Lui aveva segnato il suo numero di cellulare. Nessun nome. Solo dieci cifre che, ovviamente, adesso lei non ricordava. Ma questo non sarebbe stato un gran male se non avesse ficcato quella dannata banconota nel taschino dei jeans finiti in lavatrice due giorni dopo. Accidenti a lei. E anche alla lavatrice.

Se è vero che si vive solo da giovani, e che dopo la vita non è altro che un lungo ricordo, Emma ci avrebbe ripensato per il resto dei suoi giorni.

La voce della Nannini, alla radio, era implacabile. Emma pigiò le orecchie fino a sfondarsi il cranio, ma non riuscì a cancellare le ultime parole della canzone: “forte, forte forte ti vorrei!” Emma uscì sperando di non pensare a nulla. Non ci riuscì. Bello. Quando si erano sfiorati era scoccata la scintilla, ne era certa. Bello… con gli occhi neri e la sua bocca da baciare… Un’opera d’arte, una canzone da hit parade… Bello… e impossibile, accidenti a lei, e anche a Lui che non telefonava. Eppure si era perfino fatto segnare il numero di Emma sulla custodia degli occhiali col pennarello.

Lei ricordava perfettamente: si stava avvicinando alla cassa, con la maglietta che aveva deciso di acquistare e che continuava a rimirare. Era andata a sbattere su quel torace giratosi di colpo. Si era ritrovata contro quell’uomo, con la maglietta stesa sul volto che, come un sipario, si era abbassata lentamente rivelando a lei il volto di Lui e a Lui il volto di lei. La maglietta era rimasta tra di loro a lungo, sospesa dai loro corpi che non volevano staccarsi.

Emma ritornò al negozio. Riconobbe la commessa, la divertita testimone del loro scontro, e anche lei la riconobbe. “Il tuo amico non è più tornato…” Non aveva dubbi, accidenti.

La commessa le allungò qualcosa. “Posso darli a te?” Emma la guardò incuriosita e subito riconobbe la custodia col numero da lei segnato. Sembrava ancora più marcato.

Lo osservò a lungo.

Bello e impossibile.

E sbadato come lei, per giunta. Proprio l’uomo della sua vita.

Carlo Battaglini nasce a Milano il 23 maggio 1960. Si laurea in geologia nel 1985. Lavora in tutta Italia, ma perde la vista nel 2017. Scrive da sempre. Finalista in vari Premi Letterari, ne vince tre. Ha pubblicato racconti, articoli e un romanzo.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Alessandro Giulianelli

“È permesso?” Arturo spinse la vecchia porta cigolante. La casa era ridotta male, nessuno ci entrava più da anni. L’uomo guardava in giro rammaricato mentre aiutava la signora dell’agenzia immobiliare a superare la soglia.

“Non ci torno da quando ho preso il mare come soldato semplice”.

“È arrivato molto lontano” constatò lei mentre lui scansava le seggiole.

“Forse anche troppo”.

La donna lo vedeva giù di morale: “Ha belle memorie di questa casa?”.

“Bellissime: ci ho vissuto coi nonni. Lui era sempre alle prese con i rottami, mi portava in giro per l’isolato a vedere se qualcuno stava facendo qualche mestiere per dargli una mano e dirgli come si faceva”.

“E sua nonna?”.

“Lei passava le giornate in giardino. Venga”.

Arturo aprì la porta che dalla cucina dava all’esterno. “La nonna trascorreva la vita a combattere un albero con i fiori rosa”.

“Combattere?” curiosò lei mentre Arturo la portava dall’altra parte del cortile.

“Sì” esclamava “Perché l’albero d’estate metteva un tripudio di fiori rosa e il vento li spargeva per il giardino e in casa. Lei impazziva, lo rimproverava come un figlio” ma l’allegria di Arturo si spense tutta insieme: dove si ricordava, ora spuntava solo un tronco mozzato.

L’uomo si ficcò le mani in tasca: “Già: non è rimasto proprio nulla di questa casa che voglio tenere”.

Arturo continuò il giro mentre l’agente faceva domande:

“Quand’è che i suoi nonni se ne sono andati?”

“Bah” rispondeva aprendo la porta del bagno, “L’ultima lettera è di cinque anni fa”.

“Avevano altri parenti?”.

“Un paio” ribatté Arturo mogio e passò all’ultimo corridoio. Questo dava alla camera dei nonni dove Arturo una volta si ficcava sotto le coperte con loro.

Si fermò, la voce gli tremava: “Senta, non dovrei dirlo a lei ma avrei voluto davvero mollare tutto e tornare quando ancora potevo. Una vita è volata e non me ne sono accorto. Ho pensato che a fargli compagnia ci sarebbe sempre stato quell’albero che impegnasse la nonna, ma immagino che alla fine fosse diventato insostenibile. Doveva vedere come sorrideva quando riusciva a tirar via tutti i fiori”.

Arturo strinse la maniglia, “Ma indietro non si può certo tornare” la abbassò.

Allora spalancò la porta e una fittissima tempesta di fiori rosa lo travolse come un’onda.

“Guardi! La finestra che dava sull’albero era stata lasciata aperta! I fiori si sono accumulati qui!”.

Arturo era pietrificato.

La camera dei nonni era completamente sommersa.

“E come hanno fatto a restare così, senza appassire?”.

“Non lo so” rispose la donna, “Forse la stavano aspettando”.

Alessandro Giulianelli, nato a Roma nel 2003, ha vissuto infanzia e adolescenza tra Bergamo e San Felice Circeo. Attualmente studia e vive a Milano e frequenta la facoltà di Giurisprudenza presso l’università Statale.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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CINEMA E SCRITTURA, chi è nato prima?

Il cinema lo cito spesso. Qualcuno suggerisce di immaginare, scrivendo, le proprie pagine come se si vedessero sullo schermo. Bene. Molto bene.

Ci esprimiamo con parole, e le parole diventano immagini. A volte sono scenette da rappresentazioni amatoriali, ma in esse a ben guardare c’è la ricerca iniziale d’immagini forti, ben visibili. Esagero: epiche.

C’è ancora oggi qualcuno che si ostina a non considerare il cinema un’arte. Qualcun altro, al contrario, lo definisce la più autentica delle arti, perché moderna. Unisce il lavoro di molti, dal fotografo al costumista, dallo sceneggiatore al regista. Un lavoro d’equipe.

Condivido l’idea di uno scrittore che nella scrittura vede tutte le altre arti, dalla musica all’architettura, dalla poesia alla scultura. E il cinema nasce dalla scrittura. La mancanza di autori e di sceneggiatori si riflette nella sua crisi.

continua il 13 luglio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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di Alice Mantegazza

C’è un albero piantato nel giardino di casa mia.

Alto, rigoglioso, maestoso.

Questa è la prima immagine che mi viene in mente ripensando alla mia infanzia, quell’albero che mi ha sempre regalato avventure.

Sdraiata sotto le sue fronde verdeggianti mi sentivo immersa in una foresta, o arrampicandomi sui suoi rami diventavo un pirata di vedetta.

Quell’albero è stato a lungo il mio compagno di giochi preferito.

Poi, crescendo, ho sostituito i giochi con lo studio e anche in questo quell’albero mi ha accompagnata, donandomi la sua ombra come rifugio dove trovavo maggior concentrazione. Infine è venuto per me il tempo iniziare la mia avventura nel mondo.

Mi sono ritrovata in una grande città, io ragazza di paese.

Tutto mi è apparso subito troppo.

Troppo grande, troppo rumoroso, troppo pieno di gente, di palazzi, di strade, auto.

Solo gli alberi non mi sono sembrati mai troppi.

Anche ora quando sento la mancanza di casa o il senso di infinita piccolezza mi assale, allora trovo un momento per uscire e rifugiarmi sotto un albero.

Ne ho bisogno come dell’aria che si respira.

Basta toccare il fusto di una pianta per farmi ritrovare la pace. Mi piace sentirne la rugosità della corteccia, ammirarne il colore di foglie o fiori, cercare tra le fronde qualche frutto, annusare l’aria per coglierne l’essenza.

E così è scoccato l’amore: un giorno di inizio autunno mi sono ritrovata inebriata da un dolce profumo, qualcosa di simile alla pesca.

Intorno a me, sotto il cielo grigio e una lieve pioggia, solo alberi incendiati dai caldi colori autunnali e qualcuno ancora con le sue foglie verdi.

Annusavo il cielo come se avessi fame d’aria, volevo capire da dove arrivasse una fragranza tanto intensa e inebriante. Eccolo lì: un piccolo arbusto con le foglie verdi e dei piccoli fiori riuniti a grappoli.

Piccoli sì, ma che delizia per le mie narici!

Da allora ogni autunno mi piace giocare alla caccia all’Osmanto, questo il nome del mio amato albero. Ovunque mi trovi, giro col naso intento a captare quel delizioso profumo capace di strapparmi un sorriso nonostante l’aria grigia e infreddolita dei primi freddi di stagione.

E mentre gioco mi domando se questo mio amore per le piante dipenda dal fatto che deriviamo entrambe da un piccolo seme. O possa essere il preannuncio per la mia reincarnazione in una pianta.

Se ci credessi davvero, non mi dispiacerebbe svettare col mio fusto verso l’alto del cielo e con le mie fronde sovrastare i tetti delle case e le persone che passeggiano.

Ah…

A meno che non mi tocchi reincarnarmi in un bonsai. Senza nulla togliere al bonsai, sia chiaro.

Alice Mantegazza è nata nel 1976 a Saronno dove vive e lavora come insegnante di scuola d’infanzia. Le piace inventare storie, soprattutto quelle da raccontare ai suoi piccoli alunni. (Presente in antologia anche con vignetta).

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di Ingrid Confalonieri

Scosto la tenda della cucina, è mattina. Molti di noi sono già usciti di casa, chi al lavoro, chi a scuola, accecati da lampade a led. I miei cani raggomitolati come gatti sulla brandina del balcone. Il freddo umido della città li unisce, la coperta in pile arruffata, stanno al caldo. Sollevo gli occhi, cielo grigio oggi, unico spicchio tra i palazzi, grigi pure loro. Le previsioni meteo ci illudono sempre, l’aspettiamo da un po’. Da anni. La neve dell’infanzia, la ricordo e sorrido. Guardo l’orologio. Abitudine. Gli alberi spogli, il vento ha spazzato via le ultime foglie, paiono scheletri. Le siepi sono ancora verdi, lo sono sempre. I pini in giardino soffrono, troppo caldo quest’estate, la poca acqua li ha provati, dovrebbero stare lassù sul Monte Rosa, nel gelido bianco. Mi volto, il calendario è appeso sul fianco del frigorifero, non ho pareti degne di accoglierlo, di carta, nasce da un albero, amico-nemico dello scorrere del tempo, parente lontano del mio orologio elettronico, smart. Uno sguardo fugace alla ricetta del mese riletta mille volte nei trenta giorni passati. Devo voltare pagina, nuovo mese, nuova ricetta, ultima del 2023. Una torta. Tanti giorni rossi! Le feste di Natale si avvicinano. I parenti, gli amici, i regali. Cosa manca, a chi. Cosa serve. Dove. Le clementine nel cartone del supermercato, le ho lasciate al freddo della notte, frutti di piante del caldo sud, a Gianluca piacciono così, ai miei denti no. Faccio entrare i cani. Il maltese, nel cappottino imbottito rosso, ringrazia. Un campanello, il microonde suona, il mio latte è caldo, poco caffè, zucchero di canna, giusto una punta di cucchiaio senza esagerare. Caffè, canna da zucchero, ma come ci sono finiti nel mio latte? Piante nel latte, che bontà. E le clementine dalla Calabria, viaggiano in camion, raccolte immature. Dovremmo tutti avere una pianta del cuore. Che ci faccia stare bene, in sintonia col tempo, il clima e gli umori. Tante nuove piante che ci riportino le stagioni di quando ero bambina. Oggi ci sono bambini che non hanno mai visto la neve, non tanta quanta ne ho vista io, nel 1986! Clic, si accende una luce, un’idea in testa. Il motivo di una canzone che cantavo da piccola, con mia sorella e la mamma. Quest’anno regalerò alberi, ad ognuno il suo. Mi divertirò a sceglierli. Li pianteranno per noi, piccoli semi, e li lasceremo crescere là dove devono stare, dove è giusto che stiano, nella loro terra, bagnati dalle loro acque e riscaldati dal loro sole. Che respirino con noi, per noi. Per il futuro della Terra.

Ingrid Confalonieri. Nata a Milano, classe 1970, vive a Varese, studia e lavora come ragioniera, ma da sempre coltiva una passione per l’arte, la poesia e la letteratura gialla. Amante degli animali e del giardinaggio oggi si diletta a scrivere poesie e racconti brevi.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)


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Di Alberto Oggero

Fianchi larghi, carnagione chiara e sguardo sensuale. Gli parve una bella donna, d’altri tempi, fiera della sua corona e del suo scettro, ma incurante del tributo di sangue di milioni.      Rivolse lo sguardo verso l’enorme cono di pacchi argentati. Impilati uno sopra all’altro con su il logo di un noto stilista, al centro dell’ottagono piuttosto che un albero di Natale, erano un monumento alla decadenza occidentale. Guardò nuovamente la rappresentazione dell’Europa che adornava la lunetta e gli sembrò decente. Fu solo un attimo.

     Fece scivolare il cappuccio del parka sulla testa rasata prima di farsi largo tra la folla frenetica d’acquisti, ennesimo insulto alla spiritualità che gli ortodossi a differenza di altri, erano stati in grado di proteggere. 

     Si infilò le mani in tasca, aprendo e chiudendo ritmicamente i pugni per riscaldarle. Non era certo il freddo al quale era abituato, ma anche quello di Milano si faceva sentire.

    Non si ricordò di quando viveva al paese, in Friuli. Non si ricordò delle giornate trascorse a spaccarsi la schiena nella segheria di famiglia, e dei momenti di svago al bar, sempre più frequentato da gente diversa che non si sapeva da dove arrivasse.

    Non si ricordò di quando in paese in tanti lo schernivano per la sua balbuzie, sostenendo che parlasse peggio di tutti quelli là. Non si ricordò di quando sua madre l’aveva lasciato, solo nella solitudine.   

     Si ricordò invece dei suoi compagni, dei momenti trascorsi insieme nella neve e nel fango, delle difficoltà e della paura. Si sentì fiero, ma durò poco. Il volto di quell’uomo gli apparve chiaro agli occhi della mente. Sentì una vampata di calore, il cuore a mille, e per un attimo gli mancò il respiro.

    Si ricordò della trincea, nel Donbass, di quando baionetta in canna, era corso avanti urlando, come gli avevano insegnato. Si ricordò dell’odore dell’erba quando si era trovato per la prima volta faccia a faccia con il nemico, più giovane di lui, la mimetica nuova e la fascia azzurra al braccio. Il ragazzo inciampando era caduto rovinosamente a terra, offrendogli la preziosa opportunità. Rivide gli occhi azzurri che lo fissavano. Si ricordò del sudore che gli aveva pervaso le mani, dei muscoli bloccati nel gesto di affondare la baionetta. Si ricordò di non essere stato all’altezza. Si ricordò di non essere stato capace ad uccidere.

    Da quel giorno i suoi commilitoni avevano preso a chiamarlo “Il dolce italiano”, parole quelle che non gli avrebbero più dato pace.

   Scomparve tra la gente mentre la Madonnina, impassibile, risplendeva di luce lassù sulla Guglia Maggiore. Non era scomparso nessuno.

Alberto Oggero è un esperto di politica e sicurezza internazionale. Inter alia, è stato funzionario del Servizio Diplomatico UE e della NATO. Ha lavorato nei Balcani, Turchia, territori Palestinesi, Cina e Belgio dove vive e lavora al momento.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)


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Era l’anno della maturità classica, e anche quello dei mondiali di calcio, e fu pure l’anno in cui nella nostra palazzina era venuta ad abitare, al quarto piano, una coppia di sposini, lui era un tipo burbero, non parlava mai e si interessava solo di calcio, lei… lei non posso descriverla, aveva una trentina d’anni ed era speciale, non era come le mie compagne di classe o come la mia ragazza che mi dava i bacini della buona notte sotto il portone, lei era una donna, e quando a me toccava il turno delle pulizie e lavavo le scale al piano terreno, e stavo chino con gli stracci in mano, lei scendeva e mi scavalcava senza chiedere permesso e con la gamba si strofinava sulla mia schiena, e i miei amici dicevano che era una troia, a me però faceva certi sorrisi che toglievano la parola, e infatti restavo muto, ero un ebete, e un giorno che il pianerottolo era ingombro dei miei secchi di acqua, lei per passare mi afferrò in mezzo ai pantaloni e mi spostò da una parte, e io da quel momento non pensai che a una cosa sola… E quella sera che c’era la partita ITALIA-GERMANIA tutta la palazzina venne a casa mia per fare il tifo insieme, e c’era anche quel citrullo del marito, e dopo il primo tempo io andai in cucina a bere un’aranciata e dal balcone guardai in su e la vidi affacciata alla finestra che ammirava il cielo, e così ebbi in quell’istante la più grande intuizione che finora avevo avuto, e quando salii le scale le gambe mi tremavano… E come poi è finita quella partita lo sappiamo tutti, e ci riversammo nelle vie e nelle piazze della nostra cittadina, e se qualcuno ricorda bene c’era uno che era più matto di tutti e stava in piedi sul tetto delle auto con il rischio di rompersi il collo, e poi, lo stesso, fu il primo a tuffarsi nella vasca della fontana in piazza, seguito da tutti gli altri, e sempre lui intonava I-TA-LIA I-TA-LIA, e quando seppe il nome del giocatore che aveva segnato il gol del 4 a 3 nessuno poté trattenere la sua gioia, e a squarciagola propose il nuovo coro… RI-VE-RA RI-VE-RA.

di Yuri Sansilvestro, illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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