di Enrico Biondi
IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org
di Enrico Biondi
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di Paolo Crugnola
Anno 24 del nuovo millennio.
L’emergenza guerra ha prontamente sostituito l’emergenza pandemica: i “no-vax” sono diventati “putiniani”, ultimamente persino “antisemiti”, a seconda del pensiero unico dominante a cui di volta in volta si oppongono. Non è più lecito farsi domande in questo presente occidentale, progredito e globalmente libero e democratico. Di fatto le minoranze che osano “pensare altrimenti” sono etichettate, accusate, ridicolizzate, infine addirittura emarginate, mentre paradossalmente ci riempiono la testa della parola “inclusione”.
Siamo ancora liberi di chiederci se per caso non ci mentano dai microfoni televisivi e dalle testate dei giornali più quotati, senza perciò essere chiamati “complottisti”?
Quando l’autoproclamato “nonno” Draghi ha sentenziato “Chi si vaccina vive, chi non si vaccina muore”, ha chiaramente mentito: io per esempio sono ancora vivo. Eppure abbiamo dimenticato tutto, strade deserte, ambulanze, morti, accuse, divieti, coprifuoco, militari, virologi, hub vaccinali, file per i tamponi, la “Dad… fino alla gente lasciata fuori dai bar, dai negozi e infine sospesa dal lavoro… Siamo tornati a vivere quasi come prima, come se niente ci avesse travolti con quella portata, con quella violenza, creando precedenti pericolosi. Sipario chiuso su tre anni di pandemia per accendere i riflettori sulla guerra in Ucraina, con la stessa architettura: i media sbraitano la loro verità dagli schermi, e chi osa disallinearsi viene prontamente etichettato e “disinnescato”.
Ma non ci staranno mentendo anche questa volta?
Certo, la storia ci riporta di un’umanità eternamente in conflitto. “Polemos” è insito nella Natura stessa. Dunque è bellica la natura umana? “There is no alternative?” Ci dicono che i tentativi diplomatici falliscono, che Putin è improvvisamente diventato un pazzo invasore, e che dinanzi a tale follia l’unica soluzione è mandare armi in Ucraina, difendere gli invasi, i deboli, noi, i democratici, buoni e giusti. A noi popolo sovrano italiano, a noi democrazia, a noi hanno chiesto se siamo d’accordo ad inviare “armi per la pace”? Ci hanno chiesto se crediamo alla favola del pazzo russo, o se sospettiamo che ci siano motivazioni dietro al suo atto, che sia una reazione a qualcosa, pur condannando l’atto bellico in se stesso, di cui pagano sempre loro, i civili, i bambini?
È utopico pensare che mondi e culture differenti possano preservare la loro identità e diversità dialogando tra loro e mantenendo pacifici rapporti di scambio commerciale e culturale? Noi che la guerra non l’abbiamo vissuta, noi che siamo abituati a guardarla dallo schermo, per tornare subito alle nostre faccende… Impotenti assistiamo alle decisioni dei potenti, con i loro interessi ormai plateali. Cerchiamo di non pensarci troppo, perché sotto sotto sappiamo che mai come oggi l’uomo è stato in pericolo di estinzione. Che siamo comodamente seduti su una polveriera scegliendo il colore e la morbidezza del divano. Che noi uomini siamo diventati la minaccia numero uno per la nostra terra.
Chiediamoci se è stato necessario riempire il pianeta di armi atomiche, di rifiuti, di onde di tutti i tipi. Chiediamoci se non possiamo darci dei limiti, se possiamo ancora raccontarci di essere i buoni, i giusti, i civilizzati.
I potenti della terra, i filantropi salvatori dell’umanità – un po’ come Mazinga -, ci usano. Ma noi gli serviamo. Hanno bisogno del nostro consenso. Finché qualcuno ancora dirà NO, ci sarà speranza per l’umanità. Possiamo ancora dire NO?
Paolo Crugnola. Amante e studioso di filosofia, unisce la teoria alla pratica nel lavoro manuale come artista del legno e batterista.
Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)
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Riporto molto volentieri il pensiero che un amico giornalista ripeteva nelle lezioni di giornalismo al Cavedio, è cioè che per essere un buon giornalista non è tanto importante saper scrivere quanto conoscere le persone. Una saggezza che a sua volta aveva appreso dal capo-redattore, che considerava il suo maestro. Oggi il mondo cambia, c’è internet e con esso si è sviluppato il fenomeno della fabbrica dei saputelli. Il computer fa delle cose che il neofita non conosce né immagina e così in un battibaleno diventa illustratore, editor, scrittore… dispensatore lui stesso di consigli.
Perdiamo la saggezza, la tradizione, quelli che furono i valori, e che lo sono ancora, perché i valori non cambiano nel tempo. Oggi non ci sono amici, ma competitor.
L’ultima cosa che serve a chi intraprende il percorso della scrittura è saper scrivere, che imparerà strada facendo. Occorre invece conoscere l’uomo, sé stessi… e a questa conoscenza ci si arriva crescendo nella scrittura.
continua il 1 giugno
Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.
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Di YAMA (Pierre Ley)
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Un podcast a cura di Jacopo Bravo
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Che ci faccio qui sopra, in un letto sulla capote di un’automobile?
Dovrei rispondere “è una lunga storia” o qualcosa del genere, in realtà non è né breve né lunga, è solo una storia.
Comincia molti anni fa, un sabato sera a cena, la pizza preparata da mamma in tavola e la partita di pallacanestro su RAI 2.
Papà era un appassionato, di quelli che non si scompongono mai, ma ci tengono.
Io, bambino, osservavo lo schermo senza capire granché.
Ogni tanto azzardavo una domanda, allora papà si voltava verso di me e provava a spiegarmi qualche regola del gioco, come quella dei passi o quella dei trenta secondi per tirare a canestro.
Immancabile, il mio disarmante “Perché?”.
Quella volta però, papà si era sbilanciato:“Se quest’anno arriva la Stella – aveva detto a voce alta – ti porto al palazzetto a vedere una partita dal vivo!”
La Stella…
Una nuova, misteriosa entità si affacciò nei miei sogni di bambino.
Per settimane fantasticai su cosa potesse essere, senza avere il coraggio di domandare nulla.
Un pomeriggio a casa di Leo, il mio compagno di banco, scoprii dalle parole di suo fratello che rappresentava la vittoria di dieci edizioni del campionato italiano di basket.
Alla nostra squadra ne mancava ancora una per potersene fregiare, ma in città nessuno dubitava che presto l’avremmo raggiunta, come una promessa che attendeva solo di essere mantenuta.
Sono passati molti anni da allora a oggi, ma quella Stella non è arrivata.
Da buoni tifosi io e papà non ci siamo lasciati scoraggiare da questo ritardo e abbiano trovato altre occasioni per goderci insieme una partita dal vivo, sino a quando non è stato lui a partire.
Quando ci penso immagino sia andato a tenerle compagnia.
Il bambino dentro di me, al contrario, è rimasto in attesa di quel momento, fino a stasera, quando i ragazzi della Pallacanestro Varese si sono aggiudicati l’agognato scudetto della Stella, la nostra chimera. Papà era con me, piegato in una fotografia scattata insieme anni prima e per tutta la partita è stato come averlo di nuovo accanto.
Per questo sono qui e ho appeso quel cartello alla testata del letto:“Se è un sogno, non svegliatemi!”
di Daniele Bin, illustrazione di Lucia Casavola
Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)
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Nel gruppo di lettura abbiamo affrontato l’Ulisse di Joyce in vista del Bloomsday del 16 giugno. La lettura di tre capitoli, dei quali il monologo finale di Molly Bloom. L’idea del flusso di coscienza in queste pagine raggiunge il massimo espressivo, e i lettori si sono interrogati su quanto la scrittura del Maestro segua davvero le manifestazioni fluttuanti dei pensieri, o quanto invece l’inevitabile supervisione dello scrittore. Joyce ha impiegato dieci anni a scrivere la sua opera. Nel flusso, dunque, l’irrazionalità e la confusione che attraversano la coscienza e la mente; nel lavoro di riscrittura la razionalità, il mettere a posto le cose, il lavoro di lima alla ricerca dell’armonia della pagina. Il flusso di coscienza perde dunque la sua naturalezza?
Da ragazzo commisi quello che molti ritengono un errore, cioè leggere Joyce troppo giovani. Nel mio piccolo però affrontai l’argomento, sotto l’influsso di altre letture, come lo Zarathustra di Nietzsche. Mi sentivo per diversi motivi attratto dall’irrazionale e, ricordo, ne discutevo con un’amica, sostenitrice della razionalità.
Vasco Rossi non aveva ancora scritto cerco un senso a questa vita anche se un senso non ce l’ha. Razionale e irrazionale. La mia trovata consisteva nel considerare l’irrazionale in due aspetti: quello che è in antitesi alla razionalità, e l’irrazionale che ne va oltre. E in quest’ultimo credevo, per superare i limiti ammessi dalla stessa razionalità.
Venendo ora a certe avanguardie di anni passati e ai nuovi linguaggi che nascono ogni giorno, mi sembra che la lezione del vecchio Jimmy sia attuale, nel momento in cui il suo lavoro di revisione razionale rispettava, e anzi sosteneva, l’intuizione del flusso di coscienza.
A coloro che dedicano tempo al proprio percorso di crescita nella scrittura il suggerimento è di compiere piccoli passi alla volta, con tanta umiltà. Non come quei pittori che fanno l’astratto senza conoscere il figurativo.
continua il 18 maggio
Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.
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Quando terminiamo il nostro racconto o il nostro romanzo giallo ci accorgiamo che non abbiamo finito. Siamo arrivati all’ultima pagina, procedendo con il vento favorevole in alcune fasi, più lenti con “lacrime e sangue” in altre e, vale per tutti, con terrificanti battute d’arresto in alcuni momenti. Abbiamo già, diligentemente, in corso d’opera, riletto, corretto e cambiato il testo, siamo ritornati indietro, abbiamo aggiunto o tolto frasi, modificato nomi. Ma c’è ancora del lavoro da fare perché basta un particolare fuori posto per far perdere credibilità a tutto l’impianto narrativo. Rileggiamo dunque più volte, magari a voce alta, magari come se fossimo lettori che non hanno mai visto il libro.
Con due finalità principali. Prima: cogliere l’impressione d’insieme e il ritmo della narrazione. Sentiremo allora quando qualcosa non va, come un meccanico che avverte un rumore strano in un motore.
Seconda: identificare gli errori o, come li chiama Patricia Highsmith, gli “intoppi”: una frase ripetitiva, piatta o confusa, una via in cui ci si è infilati senza uscita, un particolare tecnico che si è dimenticato di verificare (esistevano nel 1600 i crisantemi? Il sonnifero che ho usato può davvero durare più di 24 ore? Ho fatto viaggiare troppo veloce il treno che ha preso l’assassino?). Non mancheranno anche gli errori materiali da correggere: abbiamo chiamato il personaggio con un nome diverso, scritto un termine straniero in modo errato, citato un falso dettaglio di un luogo. E dobbiamo rivedere la punteggiatura, una specie di incubo…
Il consiglio è di non demandare troppe correzioni a un eventuale editing, ma consegnare al mondo un prodotto che ci soddisfi, senza avere fretta. Un altro suggerimento è di non avere paura di limare il nostro “manufatto” e neppure di tagliare senza pietà, se sentiamo che, più snello, funziona meglio. I lettori ce ne saranno grati. Come dice William Faulkner: Leggete! Assorbirete. Poi scrivete. Se è buono lo vedrete. Se non lo è, gettate tutto dalla finestra.
…Leggete! E quindi termino con i miei piccoli consigli di autori da non perdere. Ne cito alcuni dei molti che vorrei nominare: P.D. James per la ricchezza delle trame e l’atmosfera, Fred Vargas per la genialità e stravaganza dei personaggi, Ben Pastor per la ricostruzione storica e per aver pensato Martin von Bora, Alessandro Robecchi per lo stile di scrittura immediato, J. Simenon per lo sguardo sulle anime e ancora per l’atmosfera. E poi la “regina” Agatha Christie, Camilleri, Arturo Perez Reverte, Davide Longo, E. George, Carrisi, Malvaldi. Da tutti possiamo imparare, anche da quelli che non ci sono piaciuti.
* Thomas Cook 1991
Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.
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Un podcast a cura di Jacopo Bravo
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C’è poco da dire, dopo tutta l’attenzione che abbiamo messo per arrivarci. Magari il finale l’avevamo in mente fin dall’inizio, magari è maturato nello sviluppo, magari è saltato fuori inaspettato, oppure è rimasto volutamente sospeso. Va tutto bene. Un pericolo che ho notato nei nostri racconti è che a volte il finale ha condizionato tutto lo sviluppo. Vale a dire, siamo partiti con il finale già in mente, una bella stoccata, e non abbiamo visto l’ora di arrivarci, senza cioè curare lo sviluppo. Il giorno in cui avremo in mente un romanzo commetteremo lo stesso errore. E un conto è aver lavorato per un raccontino, che possiamo facilmente riscrivere, un altro se cento pagine sono rimaste vuote in attesa del tocco finale che probabilmente nessuno arriverà a leggere, sopraffatto dalla noia. Al contrario, avere in mente un buon finale deve essere lo stimolo per tenere alta la tensione.
Arriverà il finale, concentrato in due pagine oppure nell’intero ultimo capitolo, e sarà una luce su tutto quanto è stato raccontato prima.
Mi aspetta una bella Guinness, e non mi dilungo oltre. Solo l’esempio di un allievo che mi ha consegnato un racconto di 10.000 battute, con un finale buttato lì, senza una conclusione all’altezza della storia narrata. Il racconto era stimolante e mi sentivo il finale nelle mani. Gli ho detto di riscriverlo lui. È chiaro, vero, che il finale di questo corso lo scrivete voi?
continua il 4 maggio
Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.
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