Il cielo mi aveva aspettato, senza nuvole, per la arrampicata al Sass de Stria. Una salita ripida, tra le rocce, con il fiato che stentava, ma arrivato in cima mi sedetti ai piedi della croce e ritrovai il Lagazuoi, la Tofana, la Marmolada. Quel giorno dividevo però le Dolomiti con un altro uomo. Non ero solo, lassù.
Mi aveva rivolto la parola, lo sconosciuto, in un modo come se non fosse affatto uno sconosciuto. Un giovane, con il viso ovale da vecchio, il naso sottile e occhialini rotondi come non vedevo più dagli anni settanta. Mi raccontava un episodio della Grande Guerra. Pensai che fosse un’improbabile guida, messa lì ad accogliere i turisti, ma lo strano era che narrava in prima persona, come se avesse assistito agli eventi. Ma raccontava bene e io ero stregato dalle sue parole:
– … la selletta qui in basso era presidiata dagli Austriaci, il 3° reggimento dei Kaiserjäger. Perciò era importante che conquistassimo il Sass de Stria dove avevano sistemato un osservatorio. All’alba potevamo sorprenderli e proteggere, con il fuoco dall’alto, l’arrivo del nostro plotone. Ci offrimmo in quattordici volontari e partimmo dal Castello di Andraz la sera del 17 ottobre 1915. Iniziammo la scalata dalla parete occidentale che gli Austriaci ritenevano inaccessibile. Arrivammo, stremati, alle due di notte, e trovammo la cresta deserta. Ma, poco prima della luce, ci scoprì un gruppo di Kaiserjäger saliti all’osservatorio. Non riuscimmo a catturarli tutti e diedero l’allarme. Ci attaccarono in più di cinquanta quando il plotone non era ancora giunto. Ci riparammo nelle trincee ma era un inferno di fuoco. E il plotone tardava. –
Il discorso era terminato, bruscamente. Vidi che erano comparse delle nuvole grigie spinte da una brezza gelida. Avevo freddo, ma volevo ancora ascoltare.
– E poi? –
– Troverà la fine sui libri di storia. – mi disse sorridendo – ora è tardi, devo andare.-
E con due passi sparì dalla parte opposta alla via che avevo percorso io per salire.
– Come si chiama? – gridai assurdamente nella sua direzione, al suono che i suoi scarponi non avevano fatto, all’aria che non aveva trattenuto alcun odore, al terreno che non portava traccia del suo passaggio.
– Mario – mi rispose una voce, lontana come un’eco.
– Mario Fusetti –
E la fine della storia l’avevo poi trovata davvero, la storia di quel gruppo di coraggiosi che erano saliti al Sass de Stria e di cui pochi erano sopravvissuti. Il loro comandante, fulminato da un proiettile austriaco in piena fronte, era il sottotenente Mario Fusetti, il cui corpo giace ancora, senza riposo, nei crepacci del Sass de Stria.

di Angela Borghi, fotografia di Ettore Borghi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Una volta pensavo a una storia da scrivere, e avevo già deciso come realizzarla. Il periodo da raccontare era di vent’anni e avevo pensato di partire dal fondo, dall’ultimo mese, e poi riprendere la vita del protagonista con vari flashback.  Mi è venuta fuori una storia lineare che parte dalla sua nascita e si conclude dopo vent’anni. Questo per dire che nel nostro lavoro ritroviamo l’imprevedibilità della vita. E voi vorreste rinunciarvi in cambio di una struttura preconfezionata? Personalmente preferisco le strutture complicate, mi ci trovo a mio agio perché io sono una persona complicata, ma la vita è formidabile, e io la conosco con la mia fatica sulla pagina bianca. Se seguissi le trame dei miei maestri perderei il bello dell’atto creativo. Da giovane lessi l’Ulisse di Joyce, considerato uno dei romanzi più importanti della letteratura moderna, e siccome volevo fare lo scrittore poi comprai un libretto che ne esaminava la trama e la struttura. Dopo poche pagine lo abbandonai. Ne presi un altro, e la stessa cosa. Comprai allora quello del suo maggior critico e conoscitore, e qui per la verità arrivai a pagina 40. Tutto interessante, ma non era quella lettura e quello studio che mi aiutavano davvero. E adesso, avendolo nominato, approfitto di Joyce e del suo Ulisse. Dieci anni per scriverlo. Mille pagine, alla media dunque di cento pagine all’anno. Vi pongo una domanda. Che pensate facesse Joyce in quei dieci anni? Lavorava al suo romanzo, certo. Ma quando andava a teatro alla sera con la sua Nora, oppure quando dava lezioni d’inglese a Italo Svevo, che c’era nel fondo della sua mente? Sempre lui, l’Ulisse che stava scrivendo. La sua vita era in quelle pagine bianche che voleva scrivere e poi in quelle già scritte che doveva riscrivere.

Riprendo una frase detta al primo incontro. La scrittura è una via di conoscenza privilegiata. Un racconto scritto bene mi ha dato soddisfazione. Che cosa mi darà un romanzo? Sono in grado di affrontarlo? Ci provo. Sono qui per questo.

continua il 27 aprile

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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CARTE IN TAVOLA *

Suona strano ma il momento più importante di un mistero è quando si dissolve. Gli eventi che parevano inspiegabili giungono alla necessaria spiegazione. All’oscurità segue la luce e l’intelligenza vince sulla confusione del mondo.  La scoperta del colpevole e la sua cattura sono le classiche conclusioni. Però ci sono altre soluzioni perché a volte, come si è detto a proposito della trama, conosciamo già l’assassino e quello che conta è che si risolva l’enigma, che si comprenda il meccanismo del delitto. Oppure che giunga al successo la caccia intrapresa da chi investiga. In genere al lettore non piace un assassino che se la cava, salvo casi particolari, piuttosto è disposto a vederlo morire alla fine della storia.

Arrivare alla soluzione finale non è semplice: il percorso deve essere accidentato e graduale. Ad esempio una confessione inconsulta per un pentimento del colpevole è da escludere. Si deve mantenere l’effetto sorpresa ma senza esagerare con i colpi di scena fini a se stessi, e con casualità inverosimili.

I modi sono vari. Sempre divertenti e utili all’autore le scene madri in cui l’investigatore raduna tutti i sospetti (ricordate le molte volte di Hercule Poirot?) e racconta, anche al lettore, come è giunto alla scoperta dell’assassino. Sono state molto sfruttate anche da altri nel giallo classico. Un esempio: P.D.James in Copritele il volto: Di comune accordo decisero che la riunione avrebbe avuto luogo nello studio. Qualcuno aveva disposto le sedie a semicerchio intorno alla scrivania e qualcuno aveva anche riempito d’acqua una caraffa e l’aveva posta alla destra di Dalgliesh. Dalgliesh sedeva solo alla scrivania e Martin sedeva alle sue spalle. Man mano che entravano nello studio, scrutò a uno a uno gli indiziati.

In un finale d’azione invece l’autore, per far vivere in diretta la soluzione al lettore, lo porta con sé in un luogo dove si svolgerà l’atto finale, a volte critico e avventuroso o pericoloso, come in La sostanza del male di Luca D’Andrea: Lasciai andare il ramo proprio mentre il fango ci investiva. Il Bletterbach era trasfigurato in un’apocalisse di acqua, melma e detriti.

In qualche storia non proprio tutto viene concluso, qualcosa rimane in sospeso, per suggerire un seguito o rimandare la caccia allo stesso colpevole lungo una serie. Molto difficile da fare con efficacia e quindi sconsigliabile. Dall’esperienza di lettore trovo coinvolgente terminare il romanzo con un ultimo capitolo dopo la spiegazione finale, una specie di piccola epicrisi, a volte in un tempo successivo, in cui si dà un ultimo saluto ai protagonisti e si viene informati su quale sarà il loro futuro o come ritornano alla vita quotidiana dopo la crisi che hanno vissuto.

* Agatha Christie 1936

Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.


continua il 9 maggio 2024


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LA TRAMA, dal racconto al romanzo

Abbiamo lavorato sull’esame di una singola pagina per acquisire la capacità e l’arte di riscrivere. Se non riusciamo a controllare una pagina, come possiamo pretendere di scriverne cento? Intendo scriverle bene. Scarabocchiarle siamo capaci tutti, fin dalla prima elementare. Ecco che siamo pronti, o almeno ci vogliamo provare. Qualcuno ha sopportato a fatica il lavoro sulla riscrittura, ma adesso tira fuori il suo romanzo dal cassetto e sa che ci deve metter mano. Mi ostino a dire che chi sa scrivere un “corto” è in grado di scrivere quello che vuole. La differenza, che ho già detto un paio di volte, è che l’impegno è dieci cento volte superiore. Passiamo a uno sviluppo molto più grande, e qualcuno suggerisce forse la parola giusta: trama. E di conseguenza la domanda. Come scrivere una trama? Già la parola incute timore. Sembra un mostro da affrontare. Faccio una scaletta all’inizio, parto dal semplice titolo e mi affido alla mia fantasia, come hanno dichiarato alcuni scrittori, oppure inserisco nella storia portante altre storie che la sostengono come contrafforti in una cattedrale gotica? Mi dispiace deludervi, ma anche in questo caso non ci sono regole, e se ci fossero non le voglio sentire.

Sarebbe troppo facile per il conduttore di un corso di scrittura tirare fuori decine di libri e esaminarne le trame. Sarebbe un bel lavoro, divertente. Molte scuole fanno questo, il tempo passa, anzi è passato in un attimo, me ne vado via contento ma non ho imparato niente che abbia migliorato la mia scrittura, o ben poco. Se il corso si risolve nel vedere quello che hanno scritto gli altri, mi sembra che sia un po’ come vendere fumo. In questo corso preferirei darvi l’arrosto, anzi, per la precisione, quello che voglio fare è di darvi una mano a cucinare. Il profumo dei vari Fante, Carver, Yourcenar, Marquez e di altri mille già lo conosciamo, e comunque non è questa la sede. Voi siete qui per migliorare la vostra scrittura. Esaminare le trame dei loro romanzi, i personaggi, le descrizioni è un esercizio piacevole. Le buone letture sono alla base del nostro lavoro, sono uno stimolo costante. Ne discutiamo volentieri e parliamo di cultura. Da ogni autore impariamo qualcosa, ma non è l’apprendimento concreto di cui abbiamo bisogno. Non è l’arrosto. Gli ingredienti ve li ho detti (osservazione, attenzione, concentrazione), i tempi di cottura pure (riscrittura attraverso umiltà e senso del distacco), spero che abbiate buoni fornitori (fantasia e volontà). Se volete mi metto alle vostre spalle e se in una pagina ci mettete troppo sale vi dico non mettete troppo sale qui, piuttosto usatelo alla fine. Consigli quanti ne volete, ma sul vostro lavoro, non su quello di altri. Dalla scrittura di altri trovate esempi e riferimenti, non la soluzione. Non perdete il fascino della pagina bianca. È vostra, solo vostra, ed è bianca. Dentro non ci sono strutture, trame predefinite. Scrivere è conoscere sé stessi. In questo percorso può succedere di tutto, esattamente come nella vita.

continua il 20 aprile

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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IL CONTESTO STORICO, indispensabile

È incredibile come molti non danno importanza al contesto storico. Nemmeno quando si parla di storia. Figuriamoci quanto è facile non considerarlo nel lavoro di narrazione nel quale fantasia e invenzione sono elementi essenziali.

Angela, alla quale piace abbinare i suoi gialli all’arte, sta molto attenta a non sbagliare.

Mariangela, addirittura, non usa parole che in quel contesto storico non esistevano.

Anna Rosa, che insegna alle superiori, ricorda come il buon Lisander fa parlare Renzo e Lucia con termini e linguaggi che, da contadini, non conoscevano.

continua il 13 aprile

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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IO DOVEVO UCCIDERE *

Dedichiamo qualche riga ai serial killer, figure che popolano la letteratura di genere da un certo momento in poi. La colonizzazione è stata inevitabile se pensiamo alla loro presenza inquietante nella cronaca e al fascino che esercitano, come personificazione di ciò che è primordiale e irrazionale in noi. Si è giunti al termine serial killer a partire dagli anni ’80 negli Stati Uniti e da lì sono nate ulteriori definizioni e classificazioni anche se gli assassini seriali sono molto più antichi, e non solo aldilà dell’oceano. A noi però interessa il loro ingresso trionfale nei “gialli”, dall’efferato mister Hyde di Stevenson a Norman Bates del romanzo Psyco, reso immortale dal cinema, al protagonista di Profumo di Süskind. E che dire dell’iconico Hannibal Lecter di Harris?

Per costruire il nostro serial killer possiamo ispirarci a quelli reali grazie ai quali siamo venuti a conoscenza di orrori inimmaginabili: feticismi, cannibalismo, devianze sessuali, necrofilia… Fondamentale il rimando alle motivazioni dell’assassino, anche se non si parla di movente in senso classico. Nelle nostre pagine dobbiamo approfondire la logica che ne determina il comportamento, l’esigenza di dominio, accennare a traumi infantili quasi sempre presenti, a fattori scatenanti come insulti psicologici ripetuti. Dalla realtà arrivano suggestioni abbondanti che ci aiutano a comporre il nostro personaggio e, quindi, la trama della storia. Si può sbrigliare la fantasia sulla tipologia delle vittime (donne, bambini ecc.), sulla presenza di sadismi, sulla tecnica di caccia, sulla scelta dell’arma, sull’organizzazione dei delitti. Come sempre però suggerisco moderazione: è più efficace catturare il lettore non con effetti speciali ma con arte sottile che lo seduca.

A volte è interessante porre l’accento sulla sfida con chi indaga. In questi tipi di gialli possiamo introdurre particolari investigatori come profiler o psichiatri. Il lettore si divertirà alle prese con messaggi lasciati sulla scena del crimine, modus operandi speciali, veri e propri enigmi da risolvere.

Un bel ritratto di serial killer lo trovate in Le strade dell’innocenza di James Ellroy:

Passò ore a fare pratica di judo e karate e a tirare al poligono, poi a fare flessioni, sollevamenti e addominali finché il corpo non gli diventò un unico dolore pesante. Tutto ciò servì solo da palliativo e si sentiva ancora tormentato dagli incubi. Andare a prendere giovani in strada era per lui come mimare oscene overtures: come banchi di nubi contorte che scrivevano il suo nome in modo che tutti gli abitanti di Los Angeles potessero leggerlo.”

* Clarence Hunt 1953

Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.


continua il 18 aprile 2024


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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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INTENSITÀ E SVILUPPO, altrimenti il lettore si addormenta

E così, attraverso i personaggi e le descrizioni, sviluppiamo la nostra storia. Forse volevamo solo scrivere un racconto, e ne è venuto fuori un romanzo. O viceversa. Avevamo in mente duecento pagine e abbiamo risolto con venti. E a questo punto le domande sono molte. È meglio iniziare quando abbiamo in mente tutta la storia, oppure la inventiamo scrivendo? È meglio così o cosà?

Quello che abbiamo appreso nello scrivere racconti brevi da mettere in vetrina è che la nostra pagina vuole essere letta tutta di un fiato. Se questo non succede, torniamo indietro e vediamo dove il ritmo è calato. Scritta bene una pagina, se ne scriviamo cento, tutte debbono avere la stessa intensità. Non siamo qui per allungare la brodaglia, come diceva l’amico grafico.

Qualunque pagina del nostro romanzo il lettore apre, si interromperà solo con un atto di volontà, perché deve andare dal dentista o a portare il regalo alla suocera, ma alla sera la riprenderà con rinnovato spirito.

Nel passo lungo abbiamo accennato allo sviluppo delle descrizioni e dei particolari, dei personaggi, dei paesaggi, degli ambienti. Anche dei dialoghi, curati in un certo modo. Ci siamo abituati a vedere i sassolini che vanno tolti. Intensità e sviluppo nel romanzo sono macigni. Con umiltà e senso di distacco non possiamo non accorgercene. Rimanendo pieni di noi stessi, della nostra poca arte, immagineremo capolavori che nessun altro vede.

continua il 6 aprile

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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I PAESAGGI, ogni uomo ne ha uno dentro di sé

Alcuni non li considerano nemmeno, scrivono storie lunghissime e non si vede un albero, un fiume, una montagna, un fiore o un prato. Per altri sono irrinunciabili. Non potrebbero raccontare una storia senza un’ambientazione precisa. Per altri poi il vero protagonista è il paesaggio. Come al solito, non preoccupatevi, e fate come volete. Non sono questi i problemi della scrittura, e non chiedetemi il solito elenco di vari tipi di descrizioni.

Sul paesaggio, in un mio libro di guerra sulla Campagna di Russia, quando il protagonista lasciava la sua casa per andare in un territorio sconosciuto, un capitolo lo intitolai Ogni uomo ha un paesaggio dentro di sé (*). Ecco, mi sembra una buona idea. Se sentite importante il paesaggio provate a pensare che ogni vostro personaggio ne ha uno dentro. Pensate a quante finestrelle si aprirebbero. I personaggi osservano e meditano su ciò che li circonda. I paesaggi che voi descriverete sono in relazione e in armonia con il protagonista e con la storia.

In qualche consiglio, fin dall’inizio, ho suggerito di leggere di tutto, dalla poesia ai fumetti, perché tutto torna utile. E anche qualsiasi tipo di arte. A proposito di paesaggi vi direi di guardare i film con un occhio particolare, attento. Al cinema dominano, come pure ogni altra ambientazione. Nella complessa arte del cinema troviamo varie professionalità in un lavoro d’equipe, e il paesaggio è affidato alla fotografia. E non siamo noi, nella complessità del nostro lavoro, non siamo noi anche fotografi?

Siccome ho ripreso a parlare di film, mi allargo un po’, e ricordo il capitolo dei dialoghi. Li seguite con attenzione? So già che siete attenti a come è stata scritta la sceneggiatura, ma il linguaggio del cinema, che non è quello della scrittura, riuscite a entrarvi? Non solo per capirlo, ma per trarvi ispirazione.

Ogni arte confluisce nella nostra. E mi allargo ancora. In realtà tutto quello che ci succede attorno, dalle nostre giornate piene di altri impegni, dalle vacanze, dalle altre nostre passioni, culturali, artistiche o sportive che siano, tutto è motivo di osservazione. Se vogliamo migliorare la nostra scrittura, non siamo mai spettatori occasionali. E il paesaggio ci parla ogni giorno. Scandisce il passare del tempo attraverso le stagioni, e il nostro stesso umore di giornata. Provate a scoprire il paesaggio che alberga nel nostro cuore. 

(*) … ed ebbe inizio quel viaggio che dal Brennero, attraverso la Germania, l’Ungheria e la Romania ci portò al fronte, e su quei treni pensavamo già alle pianure della Bessarabia, ai fiumi i cui nomi presto si sarebbero scolpiti nella mente, Bug, Dnjeper, Do­nez, Don, e guardando una carta militare ognuno se li im­maginava in qualche modo, un panorama di pianure e di fiumi più vasto di quanto fossimo abituati, perché il pae­saggio è qualcosa che ognuno ha dentro di sé, è l’indole stessa, il carattere, è la differenza che si vede subito fra un italiano e un russo, e anche quella fra gli uomini, di chi viaggia e di chi resta, del buono e del malvagio, ogni uomo ha un paesaggio dentro di sé, e noi arrivavamo dai fiumi, dai laghi, dalle pianure e dalle colline che erano le nostre, e così guardando quelle carte l’immaginazione si spingeva avanti e costruiva spazi diversi, ma per quanto questa operazione fosse audace quando conoscemmo dav­vero la vastità di quelle pianure, l’imponenza di quei fiumi dove si sarebbero svolte le più accanite e cruente battaglie, ci accorgemmo che la realtà superava la fantasia, e a que­sta considerazione se ne aggiunse un’altra, che cioè il pae­saggio a sua volta appare diverso a seconda degli occhi che lo guardano, delle circostanze, degli stati d’animo, e così si capisce come quel panorama, che non ci apparte­neva, entrò in modo violento dentro di noi modificando il paesaggio che era proprio dell’animo, e non solo, quelle pianure che sconfinavano nel cielo e quei fiumi a cui si le­gherà per noi l’esperienza tragica della guerra cambiarono la nostra visione della vita.

continua il 30 marzo

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Nevica nell’oscurità. Mario è in piedi sopra il tetto di un garage, indossa un berretto di lana e una maschera da sub. La barba incolta, gli occhi verdi del padre.
Mario era venuto alla luce trentuno anni fa, dodici giorni oltre il termine, non l’unico ritardo per lui. Sua madre, osservandolo crescere, diceva: forse gli manca un gradino per salire al primo piano, non importa, quello che conta è che sia un bimbo felice. Zio Gino, dal canto suo, asseriva che ragionare su rampe di scale fosse più realistico.
Era solito dirgli: Sei un bravo ometto, ma non prendere mai l’iniziativa. Mario annuiva ignaro del significato. Le buscava dalla mamma, raccoglieva castagne nel bosco dietro via Lozza in autunno, e a volte, anche se gli era proibito farlo, imboccava la strada che porta in centro. Ma l’iniziativa? Quando arrivò la fine del mondo, Mario dormiva. Non si accorse delle grida, delle sirene ululanti, senza l’apparecchio acustico era come fosse in fondo al mare.
Si svegliò e dopo essersi infilato nelle orecchie gli aggeggi che lo riportavano nell’universo conosciuto, fece quello che fanno tutti, anche i più intelligenti, andò in bagno. Dalla tapparella filtravano i primi raggi di sole. Sentì uno scoppio. Pensò a petardi. Si accostò alla finestra. Vide il signor Meo nel piazzale che cercava di salire in auto. Intorno a lui una decina di persone. Strane persone. Una era nuda dalla cintola in giù. Gli si avvicinavano lentamente. Il signor Meo impugnava una pistola, e sparava. Li colpiva e quelli continuavano ad avanzare, poi uno gli afferrò il braccio portandoselo alla bocca. Il signor Meo urlò.
Mario si precipitò in camera della madre e si fermò sulla porta. Zio Gino era stato molto chiaro in merito, “Puoi andare dove vuoi in questa casa, ma se ti trovi davanti a una porta chiusa, bussa”.
Bussò. Attese non meno di dieci minuti immobile poi, non avendo risposta, aprì. Era vuota. Tornò alla finestra del bagno, nel piazzale c’era gente che mangiava altra gente.
Sono passati tre mesi da allora. Adesso nel suo rifugio a cielo aperto sa di aver commesso un errore, scendere in centro fino al negozio di giocattoli di via Corti gli era sembrata una buona idea. Il posto era facile da raggiungere, si percorreva viale Cinto, e dopo la sopraelevata si proseguiva per via Verdi. Ora però sono due chilometri pieni di insidie. Eppure era quasi giunto alla meta, una trentina di passi dal suo regalo di Natale.
Lo individuarono. Corse veloce, era bravo in questo, e gli inseguitori persero terreno. Ma da ogni angolo ne spuntava uno. La piccola costruzione fu la sua salvezza.
Qui si gela. La neve ghiaccia il vetro della maschera. Mario ha paura, tra quelle figure che lo circondano ce n’è una nuda dalla cintola in giù.

di Gian Paolo Zoni

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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