Quando entrò nella gabbia aveva ancora la giacca da domatore, slacciata però sul petto nudo, ma non impugnava né la frusta né il bastone. Si presentava indifeso: dopo tanti anni insieme si fidava di lei. Non chiuse il cancello alle sue spalle e si accasciò a terra, sfatto.
Lei non si mosse, emise solo un leggero ruggito. Lo guardò per capire a che gioco volesse ancora giocare, ma si rese conto che lui non aveva più la forza di imporre nessun gioco. Rimasero così, a guardarsi.
Quando il sole incominciò a calare, lei gli si avvicinò e si vide riflessa negli occhi di lui. Si stupirono entrambi: lei della sua immagine, lui della sua mitezza. Poi lei gli si accovacciò di fianco, lo leccò con la sua lingua ruvida di felino e lui sospirò. Venne la notte e lui incominciò a gemere, solo la lingua ruvida sulla pelle lo consolava. Poi venne il buio e se lo portò via. Così lei alzò i grandi occhi al cancello. Si alzò in piedi e uscì fuori. Fuori dalla gabbia dove aveva vissuto dal giorno della sua cattura, quando ancora era un animale libero e forte.
Gironzolò intorno, non conosceva quel luogo, lo aveva visto solo da dietro le sbarre e si sentiva vulnerabile. Si muoveva circospetta, annusando odori nuovi e sgranchendo i muscoli non più abituati a muoversi in uno spazio libero.
Si ritrovò a camminare per le vie come un animale braccato. Rincorse un ratto che, molto più abile di lei, le sfuggì sotto un tombino. Esausta tornò nella gabbia. Lui era ancora lì. Diede un colpetto col muso al suo padrone e gli leccò la mano, lui non si mosse.
Il giorno dopo fu lo stesso, e sempre tornava nella gabbia.
I crampi della fame poi divennero insopportabili. Per anni aveva desiderato quel momento e adesso che era arrivato non lo voleva più. Meglio sarebbe stato sollevarsi sulle zampe posteriori allo schioccare della frusta, ruggire, graffiare l’aria con una zampata e gustarsi le bistecche che lui le lanciava da dietro le sbarre. Adesso era libera ma non sapeva vivere nel mondo che le stava attorno.
Verso mattina passò un cane davanti alla gabbia.
Randagio senza collare, camminava veloce avanti e indietro e annusava col muso basso a cercare quel qualcosa che lo inquietava e attirava al tempo stesso. L’odore di selvatico, una volta potente, si era molto affievolito durante la prigionia. Finché la sentì. Si fermò fisso e la guardò. Lei, immobile, lo osservava da un po’. Il cane non aveva paura, e l’annusò meglio da vicino. Lei gli soffiò come un gatto ma si lasciò annusare. Wuf, le fece poi l’animale sbandierando la coda, e trotterellò via.
In quel momento una voce riecheggiò nella sua testa: te la fai coi cani adesso? Ma la stessa voce poco dopo diceva: scappa finché sei in tempo! Forse il cancello aperto non era stata una dimenticanza, ma un dono d’addio.
Si alzò di scatto, si scrollò di dosso il terriccio umido della gabbia e seguì il cane.
Pioveva quella mattina, Anna non sollevò il cappuccio per ripararsi, persino l’acqua sulla testa era benvenuta. Poco più avanti Giovanni l’aspettava. Chissà perché le ricordava un cane con quel suo modo di fare festoso, solo pochi mesi prima non l’avrebbe neanche guardato uno così, ma oggi sì. Così lo raggiunse e insieme si avviarono, non sapeva dove, ma di certo sapeva che non sarebbe più tornata indietro, nella gabbia.

di Ester Tognola

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Avrei voluto essere lì, vicino a te, quando dal seggiolone tiravi stelline in brodo con il cucchiaio, felice come una Pasqua. O quando, la domenica, ti avventuravi nei rigatoni al sugo, e ci soffiavi dentro come fossero cannucce. Mi sarebbe piaciuto costruirti una piccola catapulta, per ridere assieme dei tuoi bersagli raggiunti.
E fare a cambio con tuo nonno, che dal balcone della casa in montagna guardava lontano – occhi persi verso le Dolomiti. Mentre ti crogiolavi attaccata a lui, come avvolta in una coperta di lana. Così maestoso, visto dai tuoi occhi. Rintanata dietro il suo braccio non guardavi lui, ma gli altri. A dire eccolo, questo è mio nonno. Ed è mio, non lo divido con nessuno.
O quando, dopo qualche anno, scoprivi un corpo in evoluzione, e ti guardavi il petto per capire se alla fine era tutto normale o qualche ignota malattia stava minando la tua esistenza. Ti sarei stato accanto, e avremmo giocato con Barbie e Ken. Ti avrei spiegato che i cambiamenti portano felicità, spesso. Perché ti mettono in condizione di vedere cose che prima non percepivi, e ti sfuggivano come bolle di sapone.
Ti avrei seguito nel primo viaggio con il tuo ragazzo, appena sedicenne, in una Europa ancora tutta da disegnare, quando Montenegro e Albania erano davvero paesi stranieri. Avrei raccolto le tue lacrime di un amore interrotto, per una svedese uscita fuori dal nulla nel momento sbagliato, nel posto sbagliato. Ti avrei sorretto, e portato a casa in spalla e sussurrato che la vita è anche questo. Cadi, e ti rialzi. E alla fine capisci come evitare le buche.
Travestito da venticello estivo avrei soffiato via le briciole di gomma dai progetti disegnati con cura e rifatti mille volte, perché sei una perfezionista. E asciugato la fronte quando, esausta in un luglio africano, saresti crollata a dormire, vestita, la notte prima dell’esame. Ti avrei bisbigliato di non pretendere troppo da te, e di riservare le tue energie per uno spicchio di vita che ti avrebbe dato più soddisfazioni.
Lasciami sperare che in quei momenti, tra un rigatone al ragù e un temperamatite, ti sia fermata un momento ad ascoltare il tuo cuore, a cercare di percepire una sensazione, una presenza. Un soffio. Il fruscio di una pagina girata, il volo di un moscerino. A domandarti se eri sola. Perché io c’ero. Ero lì. E voglio immaginarmi vestito da Piccolo Principe quando, secoli più tardi, ti ho finalmente toccato, e parlato. E la nostra vita è iniziata allora.

di Gianluca Fiore, illustrazione di Benedetta Fiore

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Non sono quelli del bar

Ho visto libri potenzialmente belli cadere in malo modo sui dialoghi, rovinarsi con un niente. Fin tanto che l’autore era sui personaggi e sugli ambienti tutta una meraviglia. Poi i dialoghi, ahimè! La scrittura non è il parlato. Parliamo in un modo e scriviamo in un altro. Questo vale per tutti, anche per quegli autori che nella loro ricerca di stile, nel loro modo di esprimersi, tendono a unificare il parlato e lo scritto.

Figuriamoci per gli altri. Di nuovo vi invito a rileggere i vostri autori preferiti, giusto per fare un confronto.

Troverete chi usa dialoghi forbiti, e chi teatrali. Qualcuno i botta e risposta da bar, sì, ho detto da bar, solo che lo fa con una maestria tale che s’inseriscono nel contesto generale del racconto e soprattutto aderiscono al personaggio, esaltandolo.

Da dove arriva questa maestria?  Come in tutte le pagine di questo libro non troverete l’elenco delle soluzioni. Per un semplice motivo: perché non esistono. C’è una sola soluzione, ed è la vostra. La vostra sperimentazione. Resta il consiglio di avere molta cura dei dialoghi.

Chissà perché vengono sottovalutati. Sembra che servano per riempire più facilmente le pagine. Se li usate bene, dopo qualche pagina, il lettore capirà quale personaggio sta parlando perché quelle espressioni sono una sua caratteristica.

Vi dico una cosa. Non è facile scriverli bene, se il nostro scopo è davvero quello di scrivere bene e non solo di riempire le pagine. E poi non sono indispensabili, anzi, tutt’altro. Fior di capolavori non li contemplano, o li usano pochissimo. Altri, a onor del vero, hanno storie che si basano sui dialoghi. Preferisco i primi, le pagine dense di azioni e di descrizioni, con un uso molto moderato dei discorsi diretti, se non completamente assente. Ognuno ha i suoi gusti. Ognuno ha un carattere, una personalità, che si esprimono in modo diverso.


continua il 2 marzo

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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Una Milano col mare: così l’avevo immaginata, ma il mare non l’ho ancora visto. Da giorni, e non so più quanti, il mio mondo è il camerone all’ultimo piano: una fila di lettini lungo la parete, le lenzuola ruvide ben tirate, il comodino con la vaschetta per lavarsi e una finestra nel sottotetto, unica fonte di luce.
Cinquanta ragazzini portati qui dal torpedone in una domenica di inizio estate: la colonia estiva, una vacanza anche per noi, figli di operai della Breda, lontano dalla bruma di Sesto San Giovanni. Mio papà aveva rinunciato al “bianchin sprüzà” del sabato sera per tutto l’inverno, quattro soldi risparmiati per mandarmi in villeggiature. La mamma se ne era andata con lo zio Salvo in un giorno di ottobre, senza una parola. Non era più tornata, ma adesso avrei visto il mare.
Eravamo arrivati a tarda sera, stremati dalle curve sull’Appennino, affamati. La Madre Superiora aspettava davanti al cancello, a braccia conserte, il rumore secco del piede sul marciapiede. Ci aveva spinto senza un sorriso verso il refettorio: una ciotola di riso, un formaggio maleodorante, la cotognata nella stagnola; faceva schifo, ma eravamo abituati a mangiare tutto e l’indomani ci aspettava il mare. Non ero riuscita a dormire; nella camerata singhiozzi trattenuti, qualche colpo di tosse. All’alba erano iniziati i brividi e i conati di vomito, unica compagnia la paura. Poi avevo sporcato il letto e la suora di turno voleva che pulissi da sola. Ho conosciuto così Maria, la sguattera bergamasca, brutta e tozza: si era intrufolata nella camerata, aveva sistemato le lenzuola e riempito la brocca di acqua fresca.
Stamattina i bambini sono usciti presto. Guardo il ritaglio di cielo terso, sarà una bella giornata.
“Abbronzate, tutte chiazze, pelli rosse un po’ paonazze, son le ragazze che prendono il sol…“.
Maria lava i panni in cortile e canta. Suor Angela la lascia fare, lavora da mulo e si accontenta degli avanzi di cucina. La sua voce sale senza fatica fino a me, vorrei chiamarla, ma sono troppo stanca per alzarmi. Mi giro nel letto, il cuscino di crine gratta la pelle: ancora febbre, il mal di pancia mi lascia senza fiato e l’acqua è finita da un pezzo.
Cala la sera e i bambini dormono sfiniti dal sole e dai giochi nell’acqua, un’altra giornata felice. Alla finestra si affaccia un disco luminoso, la luna piena.
“…Sopra al tetto come i gatti e se c’é la luna piena…”.
La voce di Maria si confonde col miagolio dei gatti, sento la sua mano ruvida che mi accarezza le guance roventi; guardo quel volto sgraziato e la chiamo mamma. Il calore della febbre mi abbandona, e oscillo senza peso nella luce bianca. Corro sulla spiaggia assolata verso il mare: è bello nuotare.
“Tin tin tin, raggi di luna, tin tin tin, baciano te
al mondo nessuna é candida come te”

di Alessandra Stifani

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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LA CHIAVE DELL’ENIGMA *

Il delitto che raccontiamo deve esser collegato a un enigma, che rappresenta la sfida tra lettore e autore, così come quella tra investigatore e assassino. Il mistero accompagnerà chi legge pagina per pagina, fino alla soluzione, che arriverà di sicuro, ma secondo un meccanismo che prevede ogni passo come un sorpresa. L’abilità dello scrittore sta nel disseminare nella storia una serie di tracce e indizi.

Le tracce sono in genere fisiche: orme lasciate sul terreno o impronte scoperte su un oggetto, magari su una parte impensabile, o qualcosa che l’assassino ha perso nell’azione e viene ritrovato per caso. Gli indizi possono essere intuizioni logiche da parte dell’investigatore (inteso come chiunque compia le indagini), basandosi su notizie, come una parentela non conosciuta o che possono giungere da un lavoro psicologico di immedesimazione con il colpevole.

I famosissimi personaggi-simbolo dei due estremi di approccio all’indagine sono Sherlock Holmes di A.C.Doyle, con l’inseparabile lente di ingrandimento alla ricerca di tracce, sulle quali applica il suo metodo rigorosamente deduttivo e Hercule Poirot, di A.Christie che invece si concentra sugli indizi psicologici, sulle motivazioni dell’assassino. Lo scrittore sceglierà la propria via, magari in equilibrio tra i due tipi di investigazione.

In tutti i casi è importante descrivere la scena del delitto, enfatizzando qualche particolare illuminante per l’indagine. Un utile stratagemma è un dettaglio tecnico di qualche materia (medicina, chimica ecc.) che può smascherare l’assassino e che l’investigatore sa per sua competenza, gli viene riferito o che scopre per caso. Inseriamo dunque il ruolo delle coincidenze e l’argomento, delicato, della loro verosimiglianza. Arricchiscono la storia, possono essere quasi incredibili ma va ricordato quanto già detto sulla credulità del lettore, da stimolare al massimo ma non da oltrepassare. Sull’argomento cito Mark Twain: “La letteratura è costretta a rispettare la verosimiglianza. La vita no”.

Non si può terminare un discorso sul mistero e l’enigma senza ricordare un filone di gialli in cui questo è assolutamente in secondo piano, nel realismo di storie come quelle di Raymond Chandler, di Dashiell Hammet e di James Ellroy, ma anche di quelle di Jules Simenon con il Commissario Maigret, che è più interessato al dramma umano che sta dietro a ogni delitto.

* George Harmon Coxe  1964

Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.


continua il 14 marzo 2024


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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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11 maggio, finale di coppa, capolinea di una storia d’amore.
Catenina fuori della maglietta e sorriso da divo, l’Uomo Ragno scende in campo da titolare per l’ultima volta.
La tensione è palpabile: la stagione è stata fallimentare e lui ha contribuito a renderla più angosciosa, un errore dopo l’altro.
Non avrà un’altra occasione per riscattarsi.
Rimugina su quel soprannome; Uomo Ragno lo chiamavano i tifosi della prima ora, ai quali regalava i voli straordinari che lo avevano portato nel calcio che conta.
Dopo l’approdo in prima squadra è diventato il suo marchio di fabbrica.
A trentacinque anni però s’è fatto vecchio per quel mestiere; meglio tirarsi da parte allora, come ha lasciato intendere il nuovo allenatore e gli hanno urlato i tifosi durante una contestazione.
Giorni prima un ex compagno l’ha chiamato: ti hanno fatto fuori, la prossima stagione giocherai con noi.
Credeva di avere ancora qualche chance di concludere la sua carriera in bellezza, invece l’avevano già scaricato.
L’avrebbero girato a una squadra minore in cambio del loro giovane e promettente numero uno.
Infedele per indole, i tredici annitrascorsi con quei colori sono stati la sua relazione più duratura e proprio non ci sta a farsi piantare a quel modo.
Si parte dallo 0-1 dell’andata in favore dei padroni di casa.
Primi trenta di gioco senza storia, i suoi compagni fanno la gara, ma si divorano tre occasioni clamorose per passare in vantaggio.
Nel calcio c’è un detto a proposito di gol sbagliati che è senza appello.
Dopo l’ennesima occasione sprecata, una palla persa innesca il contropiede degli avversari.
Sono una formazione di outsider e per molti di loro questa finale è l’occasione della carriera: non faranno sconti pur di aggiudicarsela.
Il rasoterra sbuca da una selva di gambe, l’Uomo Ragno si distende e l’agguanta.
Non passa un minuto, altro tiro violento da fuori e con i pugni la devia in calcio d’angolo.
La squadra di casa sbanda, si aggrappa al suo baluardo per non capitolare.
L’ultimo assalto degli ospiti sembra irresistibile, ma la sorte deve ancora vedersela con lui.
Si supera, raggiunge la palla con la punta delle dita, palo! doppio palo!, e la sfera torna salda fra le sue braccia.
Il pubblico è in delirio.
Rinvia lungo per un compagno sulla sinistra; quello arpiona la palla, entra in area e fredda il portiere con un pallonetto: 1-0.
Fischio finale, lo stadio esplode; l’Uomo Ragno corre con le braccia alzate verso la curva che lo osanna. Spavaldo e presuntuoso, sempre stato così.
Un Uomo Ragno, c’è solo un Uomo Ragno…cantano imperituro amore i tifosi.
È il suo risarcimento.
Un cronista lo rincorre: dicono sia la tua ultima partita
Ma chissenefrega!
risponde divertito.

di Daniele Bin, illustrazione di Alda M.C. Torri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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I PERSONAGGI, parliamone ancora

E il personaggio folla? Volete perdere tempo sull’assalto al forno dei Promessi sposi o sulla folla descritta in Furia di Fritz Lang con la sceneggiatura di Norman Krasna?

E quando il personaggio è il paesaggio? Tutti gli altri si muovono dentro di lui, vivono e muoiono, il filo conduttore del nostro racconto, o almeno uno dei pilasti portanti, è proprio il rapporto fra uomo e natura. Quel deserto di sete che prima di uccidere il corpo strazia l’anima, genera flash back, ricordi, miraggi, oppure quegli alberi secolari che ondeggiano nella foresta, o quell’alberello che è in giardino e che il protagonista vede spoglio in inverno e poi rifiorente in primavera, o il cielo, le nuvole, le stelle, la luna, non è al fine il paesaggio un personaggio lui stesso, a volte il vero protagonista, sottile o manifesto che sia? 

E l’alter ego, eh, che dire del personaggio che è il nostro alter ego?

Mi è capitato recentemente, nel gruppo di lettura, di trattare Viaggio al termine della notte di Celine. Qualcuno ha riportato l’idea di alcuni critici sul personaggio di Robinson, alter ego del nostro Ferdinando. È vero, condivido. Però vorrei citare un aspetto più sottile, nel rapporto autore-personaggio, che ho già detto prima, e che ripeto volentieri.

In qualsiasi personaggio c’è l’autore. Vi faccio un esempio, che mi sembra semplice e chiaro. Nel mio racconto serve un personaggio che sia negativo. Chi meglio se non il mio vicino di casa? Lo conosco bene e mi basta descriverlo. È così facile. Come si veste, le parole che dice, i modi di fare. La sua visione del mondo, la mente bacata, l’animo viscido, la viltà più volte mostrata, la pochezza delle idee. Sarà un gioco da ragazzi descriverlo freddamente. Eppure. Il personaggio che ne uscirà inevitabilmente passerà dal mio filtro, e lì dentro ci sono anch’io, io che per fortuna non ho niente in comune con il mio vicino. Forse qualche cosina sì, nessuno è perfetto.

Della vita, e quindi dei personaggi che contribuiranno a sostenerne la mia visione, ho questa idea, che non esiste dualismo. Non sono manicheo, come già ho confessato, ma se voi lo siete non ci sono problemi e sosterrete la vostra idea. Buoni da una parte e cattivi dall’altra. E così se a me serve un personaggio del genere, lo creo in tale modo.  Lo zio Stefano: poche idee ma precise, non ci sono margini o dubbi in lui. A me interessa il personaggio e la storia. Attraverso di lui e la sua vicenda cresco nel mio percorso di scrittore, e di uomo che vuole capire come stanno le cose.

In conclusione vi dico: lo sapete tutti che cosa sono i personaggi. L’avaro, la puttana, il brigadiere, lo scrittore, il marito cornuto, il cane e il gatto. Scriviamo, e sui personaggi che facciamo? Ci lavoriamo come Michelangelo con suo David e nel marmo scolpiamo l’opera.


continua il 24 febbraio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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Dopo la scuola, girovagava per le strade della città fino al calar della notte, quando il buio la costringeva a tornare a casa: due locali in periferia, una mamma rimasta vedova presto e troppo stanca per combattere, tre fratelli capaci solo di picchiarsi e poi lui, l’orco, il crudele padrone delle loro vite.
Era una bella bambina: bionda, capelli lisci, un incarnato rosato inconsueto in una famiglia in cui tutti erano scuri e ricciuti; no, il nonno no, lui era rosso di pelo come una volpe, affamata. La chiamavano Melina e tutti pensavano al frutto, ma era solo il diminutivo di Carmela, il nome della nonna morta giovane cadendo dalla finestra della camera da letto. Lei era ancora piccola, l’aveva sentita piangere e urlare, poi un tonfo: un segreto di famiglia.
Col tempo incominciò a capire:
“Vieni, Melina bella, vieni sulle mie ginocchia!”
Sembrava amore, ma giorno dopo giorno gli occhi che dovevano amarla si erano fatti famelici, la bramavano senza tregua: un abisso di dolore, nel silenzio. A scuola nessuno sapeva, pensavano fosse timida, parlava poco, non giocava coi compagni; in compenso era l’unica che leggeva i libri della piccola biblioteca di classe, nascosta in un angolo quasi fosse una vergogna.
Lì c’era il suo preferito, quello del bambino che vola, che prende per mano Wendy, John e Michele e porta tutti i Bimbi Sperduti nel cielo… SECONDA STELLA A DESTRA,
FINO ALL’ISOLA CHE NON C’È …
Stamattina è uscita presto e ancora vaga in questo strano inverno senza gelo. Il corpo e l’anima pieni di lividi, stanca di piangere sotto le coperte e di avere paura.
Guarda il cielo e nel crepuscolo brilla Sirio la prima stella, lì vicino la seconda, la piccola Nana Bianca; sulla destra, una strada dritta e l’insegna luminosa del posto di Polizia.
SECONDA STELLA A DESTRA,
POI SEMPRE DRITTO
E LA STRADA LA TROVI DA TE
FINO ALL’ISOLA CHE … C’È

di Alessandra Stifani, illustrazione di Alessandro Boscarini

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Il mio ragazzo non è un bianco, e nemmeno un nero o un giallo, lui non è nato in Europa, in Africa o in Giappone, e veramente non so neppure dove è nato e di che paese è, ma lui è verde, e non è, lo dico subito, un marziano o un extraterrestre, almeno non sembra, ha i sentimenti, le paure, le emozioni di tutti noi, e se mi sentisse dire queste cose si arrabbierebbe molto perché lui è convinto di essere diverso da tutti gli altri, e in un certo senso lo è, altrimenti non sarebbe il mio ragazzo… ha i capelli verdi ed è sempre alterato, ha gli occhi verdi e vede tutto verde, e ha anche la pelle verde perché è ancora acerbo, non è maturo, e se mi sentisse dire queste cose si arrabbierebbe molto perché lui è convinto di sapere tutto della vita, e vive fuori del mondo, rintanato nella sua cameretta e studia, si alza un’ora prima e va a dormire un’ora dopo, salvo appisolarsi sui libri, è un appassionato di astrologia, o per lo meno adesso è questo il suo interesse, è in continua evoluzione, e anche la sua stanza è verde e riflette il carattere, quel carattere che forse io sola al mondo sopporto, e c’è qualcuno che mi dice come fai a tollerarlo, e l’amore è sempre una cosa difficile da capire e da comunicare, e io rispondo che lo amo per quello che è, e non vorrei che cambiasse per fare piacere agli altri, però una cosa ve la voglio dire, e non per giustificare me stessa e farvi cambiare opinione nei miei confronti ma per confidare che cos’è, secondo me, l’amore…il mio ragazzo non ha i capelli verdi, né la pelle, e nemmeno gli occhi, e la sua stanza in realtà è bianca, ma quello che vede la gente è solo il riflesso della sua immagine, lui è così, mostra un colore, e io lo amo, amo lui e il suo colore, e so che un giorno verranno fuori tutti gli altri, una miriade di colori, i colori che non vi potete immaginare, sarà un’esplosione, e non un miracolo. Sono i colori che io già vedo, e questo per me è l’amore.

di Anna Bentivoglio, illustrazione di Renato Pegoraro

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