Di Mario Trapletti

Era lì che annaspava in un incubo: alberi d’ogni genere e forma, tutti mostruosamente giganteschi, lo inseguivano in una spaventosa sarabanda. Al pari di ciclopici ragni ubriachi, agitavano scomposti i grovigli delle poderose radici.

Per buona fortuna, il loro disarticolato agitarsi ne frenava l’impeto, li faceva cozzare l’un contro l’altro, producendo un frastuono infernale, nel quale a stento si potevano distinguere le imprecazioni e le terrificanti minacce profferite da quei dinosauri vegetali.

Un incubo martellante che innescava aritmie tachicardiche nel petto della preda. Non sapeva, non capiva perché quegli alberi dalle dimensioni iperboliche ce l’avessero tanto con lui, perché lo inseguivano minacciosi e inferociti. In fin dei conti, lui era solo il progettista della nuova megalopoli modello che sarebbe stata edificata al posto di una inutile e antiestetica foresta. Il mondo era pieno di piante, per lo più inutili: che cambiava se ne avessero tolte di mezzo pochi milioni?

Era stata questa frase, pronunciata durante la posa di una simbolica prima pietra al limitare della foresta, a scatenare quella specie di Armageddon vegetale. Si era udito un tuono composto di mille, un milione di orrendi tuoni, e subito dopo si era materializzata quella armata Brancaleone composta da simulacri dei mitici Ent di tolkiana memoria, ma ben più veloci. L’incubo aveva preso forma e gambe, e aveva iniziato, scomposto e truculento come solo sanno esserlo gli incubi, a dargli la caccia senza tregua. Percepiva fisicamente il loro odio viscoso; il loro sbraitare frondoso gli sbrodolava su tutto il corpo schizzi di linfa appiccicaticcia. Li sentiva, quei leviatani di terra, percuotere il suolo con la monumentalità dei loro tronchi smisurati, facendolo vibrare come un moto perpetuo sismico.

Il bilioso astio vegetale gli rosicchiava, inesorabile, centimetro dopo centimetro. Avesse perseverato a fuggire in linea retta l’avrebbero raggiunto ben prima di attingere l’infinito. Se voleva sopravvivere almeno fino al giorno dell’inaugurazione del suo sogno megalopolitano, non aveva scelta: doveva riuscire a seminare l’esercito forestale.

E mentre l’incubo dentro di lui si dilatava fino ad accartocciargli i polmoni, ecco che, con mosse fulminee da vero stratega, riusciva a seminarli, ma più lui li seminava, più quelli aumentavano di numero. Lui li seminava, e loro crescevano, crescevano e si moltiplicavano… un vero incubo!

Sergio Endrigo si svegliò madido di sudore, e però aveva trovato il verso che gli mancava:

per fare l’albero ci vuole il seme

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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